Richard Millet
(Viam, Francia, 1953). Romanziere e saggista. Con Le sentiment de la langue ha vinto l'Essay Prize dell'Académie française. Tra i più stimati editor di Gallimard, ha avuto un ruolo fondamentale nella pubblicazione del best seller di Jonathan Littel, Le Benevole, vincitore del premio Goncourt nel 2006. In Italia sono usciti, per Liberilibri, Lingua fantasma, Elogio letterario di Anders Breivik e L'antirazzismo come terrore letterario. Il suo sito è richardmillet.wixsite.com.
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Il quale pretende di risolvere con il multiculturalismo i conflitti nati da un'immigrazione di massa, selvaggia o ufficiale, e sempre meno disposta a farsi assimilare al vecchio «modello francese».
Mostrare che il multiculturalismo è l'argomento totalitario con il quale il potere post-istorico tenta di far stare insieme popoli incompatibili, distrugge il sapere classico, scristianizza la Chiesa, fa accedere - grazie al «genere» e all'antirazzismo - delle minoranze pretesamente oppresse a uno statuto culturale dominante – ecco che ciò basta a suscitare due forme di castigo.
Lo scrittore può, per prima cosa, essere privato delle sue tribune: Le Point, l'ultima rivista che mi ha chiesto degli articoli, ha finito per ritenermi infrequentabile in seguito a un articolo pubblicato sul mio blog, nel quale tentavo di pensare ciò che ha di simbolico, dal punto di vista storico e sociale, il fatto che una legge sul lavoro, che suscita contro di sé le forze del goscismo culturale alleato al neo-stalinismo sindacale, porti il nome di un ministro marocchino: El Khomry.
Facevo anche notare che il ministro dell'educazione nazionale, la signora Belkacem, è anch'essa marocchina e che e che questi due nomi non erano privi di significato nel contesto della guerra civile: questa sottolineatura è stata giudicata sacrilega.
La mannaia si è abbattuta; e poiché non c'è, in Francia, un vero giornale di opposizione, lo scrittore è spesso ridotto al silenzio. Il politicamente corretto francese consiste principalmente nel non comprendere ciò che è «urlante di verità», come dice magnificamente un'espressione francese. Lo scrittore che fa eco all'urlo di verità vedrà dunque i suoi libri, ormai pubblicati da piccoli editori, passati sotto silenzio nella stampa ufficiale. Egli potrà essere infine trascinato in tribunale da quegli apparati ideologici di Stato che sono le leghe antirazziste, che hanno fatto condannare lo scrittore Renaud Camus per «incitazione all'odio razziale» e il giornalista Eric Zemmour per aver dichiarato che le prigioni francesi sono in maggioranza popolare di Arabi e di Neri. Houellebecq, dal canto suo, ha ottenuto l'archiviazione 15 anni fa, dopo aver dichiarato che l'islam è la religione «più stupida».
Non possiamo essere sicuri che oggi, invece, non sarebbe condannato, visti i progressi dell'islamizzazione nazionale, in virtù dei quali evocare i numerosi stupri commessi su delle donne italiane da soldati musulmani, durante la liberazione dell'Italia, sarebbe per esempio impossibile.
E sto parlando solo di persone celebri, non degli attivisti che si ritrovano davanti alla celebre 17esima camera correzionale del tribunale di Parigi come davanti ai tribunali moscoviti dell'era staliniana, dato che la Francia è il solo Paese sovietico che abbia avuto successo, come dicono nelle cancellerie. E c'è pure di peggio: «patria dei diritti dell'uomo, della libertà, della democrazia», la Francia è il Paese in cui il pensiero, quando non è divenuto «unico», è non solamente sorvegliato, ma anche terrorizzato dai commissari politici, che vanno dal più piccolo giornalista di provincia al ministro della Cultura, dai grandi editori ai consiglieri del capo di Stato, passando per gli innumerevoli domestici del goscismo culturale quali sono gli scrittori che accettano di auto-censurarsi e di scrivere in una lingua deculturata.
È per aver denunciato le relazioni causa/effetto della mediocrità intellettuale della Francia e del multiculturalismo al quale essa si è convertita che io sono stato bandito dal cuore del sistema editoriale, dopo ciò che si è soliti chiamare un «caso». Ovvero uno scandalo mediatico al quale il nome del dissidente resterà per sempre attaccato e che può, lo ripeto, uccidere simbolicamente. Ricordiamo il caso Gouguenheim, con il quale, nel 2008, i lacché del nuovo ordine morale avevano tentato di screditare uno storico che aveva osato, nel suo libro Aristotele a Mont Saint-Michel, mettere in discussione l'apporto degli Arabi nella trasmissione dell'eredità classica.
La violenza di questi casi è al livello della menzogna istituzionale alla quale collabora la quasi totalità dell'intellighenzia e della nomenklatura mediatica. Ciononostante, il goscismo culturale è un mostro capace di produrre i suoi ribelli istituzionali per screditare quelli veri con il nome di «reazionari» o «fascisti»; esso può anche recuperarne uno autentico e servirsene come alibi nel corso di un «dibattito di idee» in cui si dibatte di tutto tranne che dell'essenziale.
In tutto ciò, le icone del goscismo culturale continuano a stare al calduccio e, come Badiou, a fare l'elogio delle Guardie Rosse della Rivoluzione culturale che ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone, sotto l'occhio languido di intellettuali sempre al potere. Non perdiamo di vista la parola «culturale»: in questa post-istoria in cui gli attori hanno un sorriso tanto deforme che infelice, la Cultura è divenuta la moneta principale di un'altra morte: quella della civiltà europea, che è cominciata quarant'anni fa nel Vicino Oriente, dove lo scrittore giordano Nahed Hattar è stato appena assassinato vicino a un tribunale davanti al quale doveva comparire per «incitamento al dissenso religioso».
L'intimidazione di origine immigrata ha ucciso la notte delle grandi città, velato le donne, impedendo alle altre di essere se stesse, a parte quelle che incrociamo in questa notte, eleganti, audaci, troppo esposte: si è visto cosa è accaduto in Germania e in Svezia, dove il «vivere insieme» ha portato il dionisiaco al priapismo criminale che gli imbecilli che acclamavano i «rifugiati» non prevedevano e che rifiutano ancora di guardare in faccia. Tra questi criminali sessuali, un buon numero di magrebini...
Attraverso le piccole strade che discendono dalla montagna di Saint-Geneviève verso l'orto botanico e verso il fiume, la notte parigina non era così idilliaca come io ho suggerito: appena si lasciano i viali e le strade principali, si vedono dappertutto piccoli mucchi di spazzatura, bottiglie abbandonate sui marciapiedi, talvolta nei pressi di una pattumiera, in virtù della negligenza molto francese che consiste non solamente nella legge del minor sforzo, ma anche nell'idea che ci sono appositi servizi per raccogliere ciò che resta lì, come gli escrementi lasciati dai cani che portano a spasso i loro proprietari (non si osa più parlare di padroni, tanto manifesta è anche lì la perdita di padronanza e di autorità).
Le città del terzo mondo sono spesso più pulite di queste strade dove c'erano anche dei rom, tra cui due ragazze adolescenti che rovistavano dentro una scatola di oggetti da buttare, abbandonate lì da un consumatore indelicato. Queste ragazze sono a volte spinte dai loro genitori o da qualche mafioso a gettarsi sotto le ruote delle auto, per provocare incidenti che fruttano dei soldi, anche a costo di una mutilazione, mi diceva ancora l'amico R.
Questi esseri, che sembrano venire dalla notte dei tempi, almeno da quella dell'Uomo che ride o di Oliver Twist, ci ricordano che i «migranti» ci avevano fatto dimenticare i rom, che questi ultimi sfruttano un'altra miseria diversa dalla loro, facendosi passare, a porte de Clichy, per ciò che non sono: dei rifugiati siriani. Ecco un popolo che vuole il burro (la libertà nomade, il rifiuto di lavorare) e i soldi per comprarlo (i vantaggi sociali), tradendo i migranti stessi pur costituendo insieme a loro una forma di maledizione e una nocività di cui tutti fanno le spese, alla stessa maniera in cui la guerra civile si manifesta anche con aggressioni permanenti verso gli asiatici, nei «territori perduti della Repubblica»*, denominazione bella come fosse di Tacito ma che traduce soprattutto il trionfo della malavita sahariana – che nessuno chiamerà certamente in questo modo.
Quanto ai magrebini, io non avevo finito con loro, quella sera: disceso nella cloaca della Rer, alla gare de Lyon, sono incappato, nel posto in cui scale e scala mobile si immergono insieme verso i locali sotterranei, in una violenta disputa tra un algerino (riconoscibile dal suo viso equino), che portava un passeggino in cui era legata la sua progenie, e un francese di una sessantina d'anni, che lo guardava, paralizzato, intanto che l'altro gli urlava addosso bocca contro bocca, mentre la moglie dell'algerino sbraitava sulla scala mobile in panne. L'uomo urlava che il francese era una merda, un razzista, uno sporco francese. Il suo volto era preda di odio allo stato puro, come da cliché. Ignoro cosa avesse scatenato la lite. Delle persone sono intervenute e senza dubbio l'età del francese ha impedito all'uomo furente di colpirlo. Pensavo che gli algerini sono un popolo particolarmente inassimilabile, allevato nell'odio per la Francia dagli ideologi di un regime fra i più corrotti e dagli islamisti con cui tale regime traffica. La guerra d'Algeria non è conclusa più di quella del Libano, della Iugoslavia o dell'Iraq. Questa si chiama, diciamolo ancora una volta, una guerra civile, gli algerini essendo troppo numerosi, in Francia, per non divenire ciò che sono sempre stati: dei nemici dichiarati.
*Les Territoires perdus de la République è il titolo di un'opera collettanea apparsa nel 2002 che parla della diffusione dell'antisemitismo fra i giovani di origine magrebina delle periferie francesi.