Scopri La Verità
La Verità nella tua casella di posta
Nell'ambito di un progetto promosso dall’American Jewish Committee e dall'Associazione Italia Israele di Savona, alcuni studenti dell'Università degli Studi di Milano e di Torino hanno avuto l'opportunità di andare in Israele e scoprire dall'interno il mondo universitario dello Stato ebraico. Pietro Balzano, autore del manifesto che ha riunito tutte le associazioni firmatarie del progetto, tra cui anche il movimento universitario Siamo Futuro, racconta la sua esperienza: «Non solo l’apartheid in Israele non esiste, ma ci viene anzi spiegato come in diversi campus vi siano delle quote minime di studenti arabi, che vengono aiutati a colmare le differenze linguistiche, i cui test sono in alcuni casi semplificati e a cui vengono riconosciute, oltre alle vacanze nazionali per le feste ebraiche, anche le festività della religione musulmana».
Durante il nostro viaggio in Israele abbiamo cercato di verificare in prima persona ciò che sentiamo continuamente dire sul conto di Israele e, in questo caso specifico, sulle sue università. La prima tappa in questo senso è stato il Sapir College, diverso dalle università perché centro puramente di studio e non di ricerca, uno dei primi istituti in Israele per numero di studenti che raggiungono per primi nella loro famiglia il grado di istruzione universitario. Il campus è a pochi chilometri da Gaza, tanto da essere stato evacuato durante gli attacchi del 7 ottobre, mentre oggi si sentono in lontananza i raid sulla Striscia.
È sufficiente entrare nel campus per rendersi conto di quanto sia semplice e addirittura scontata qui la coesistenza tra culture diverse: parlando con gli studenti mi sono sentito ridicolo nel chiedere a una ragazza con il velo che stava studiando serenamente sul prato se si sentisse discriminata o vittima di uno stato di apartheid e la sua risposta è infatti arrivata insieme a una risata trattenuta a stento: «No, certo che no!». Non solo l’apartheid in Israele non esiste, ma ci viene anzi spiegato come in diversi campus vi siano delle quote minime di studenti arabi, che vengono aiutati a colmare le differenze linguistiche, i cui test sono in alcuni casi semplificati e a cui vengono riconosciute, oltre alle vacanze nazionali per le feste ebraiche, anche le festività della religione musulmana.
Lasciamo un campus che vorremmo avessero visto più persone in Italia a partire dai cosiddetti pro pal che mentono su quanto succede qui, consciamente o meno.
Il giorno dopo, se pur non proprio riposati grazie a un missile degli Houthi verso le 3 di notte, andiamo in visita alla Reichmann University che è diventata il principale bersaglio delle richieste di annullamento degli accordi tra università qui in Italia. Seguiamo una lezione sul diritto internazionale ed i conflitti armati e successivamente abbiamo la possibilità di sentire le storie di alcuni degli studenti. Essere informati sui conflitti, come credo di essere io, dà un’illusione di sicurezza, come se nulla riguardo alla guerra potesse essere inatteso o imprevisto, ma questa sicurezza è stata fatta a pezzi semplicemente dalle presentazioni con due ragazzi di quest’università: Av., una ragazza di una bellezza incredibile, si presenta con il suo nome, il corso di studi, gli esami da dare e come membro delle squadre di ricerca e soccorso dell’esercito; Zoh. fa lo stesso e conclude come riservista che ha passato 6 mesi a combattere a Gaza e in Libano. Ragazzi come noi che hanno dovuto combattere per il proprio paese e, nelle pause dai combattimenti, mettersi a studiare per gli esami da dare una volta tornati cosi come gli altri lì presenti tra cui due Capitani, uno dei quali appartenente alla minoranza araba dei Drusi. Sentire le loro storie fece sentire piccolo ognuno di noi, ma per aiutare a far conoscere la verità, dovevo chiedere ciò che coloro che li definiscono assassini avrebbero chiesto e perciò ho dovuto fare una domanda che mai avrei voluto fare a un ragazzo che sarei potuto essere io: «Qual è la cosa peggiore che hai visto a Gaza?». Dopo un attimo di riflessione, e con occhi diversi, Zoh. inizia a raccontare dei combattimenti a Gaza. Racconta di quando la sua unità non è stata autorizzata a far fuoco su quelli che sapevano essere operativi di Hamas che stavano posizionando esplosivi perché non avevano visto distintamente un’arma e che il giorno dopo sarebbe esploso su quegli ordigni un loro carro armato, uccidendo 3 persone. O di quando andò nel sud del Libano, e fu incaricato di perquisire una grande casa nobiliare, dove passato l’ingresso ed entrato in quella che sembrava essere una normale stanza dei bambini con due culle, accanto ad esse e dietro una finta parete di legno, scoprì un arsenale di mortai ed armi da fuoco.
Pensavo di essere preparato a sentire le loro storie, ma non era così.
In Italia la narrativa è che sono estremisti mossi dal desiderio di uccidere, la verità è che sono ragazzi come noi che a volte hanno visto i loro amici uccisi pur di evitare di colpire civili e che si porteranno dietro queste cicatrici per tutta la vita.
Scrivendo questo articolo spero di far conoscere la loro storia e allo stesso tempo ringraziarli per averla condivisa con me, quello che so per certo è che sono uscito dalla Reichmann University profondamente cambiato e che ricorderò per tutta la vita lo sguardo nei loro occhi mentre raccontavano gli orrori della guerra.
Grazie all’American Jewish Committee e all'Associazione Italia Israele di Savona, alcuni studenti dell'Università degli Studi di Milano e di Torino hanno avuto l'opportunità di andare in Israele e osservare in prima persona la realtà di un Paese senza quei pregiudizi o falsità che hanno caratterizzato la narrazione degli ultimi mesi. Pur non diventando ciechi verso la tragedia che anche i civili di Gaza stanno attraversando.
Il 24 aprile scorso è stata la data in cui tutto ebbe inizio per noi: in quell’occasione si tenne presso l’Università degli Studi di Milano quello che sarebbe dovuto essere un dibattito sulla cancellazione degli accordi con le università israeliane. A quel dibattito partecipò quello che poi sarebbe diventato il nostro fondatore, Pietro Balzano, che venne contestato e zittito solo perché il suo intervento non era allineato con la narrativa della maggior parte dei presenti inclusi quelli che si presentarono come «mediatori di parte».
Quel giorno divenne chiaro che il dibattito nelle università non era più possibile e che era ormai impossibile anche solo presentare dati che confutassero la narrazione dei pro-pal… le occupazioni violente che seguirono in quei mesi ne furono la conseguenza. Ma ci sono tantissimi studenti che non condividono i metodi dei pochi che vandalizzano le nostre università, e abbiamo avuto la fortuna di incontrarci tutti a un presidio in piazza proprio contro le occupazioni (che avremmo dovuto tenere in università, ma spostato per il pericolo di violenze). In quell’occasione Studenti per le Libertà, Siamo Futuro, l’Unione dei Giovani Ebrei d’Italia e Studenti Liberali lessero il Manifesto scritto da Balzano dopo quell’esperienza e ne divennero firmatari; ci unimmo nonostante le nostre differenze per difendere ciò che ci rende cittadini di una democrazia: libertà di espressione, di parola e di pensiero, così come il diritto allo studio che per noi non è solo il diritto di avere la possibilità di imparare, ma anche di avere un luogo di amicizia e tolleranza dove poterlo fare serenamente, questo per noi sono le università.
La nostra iniziativa è poi cresciuta rapidamente: grazie all’impegno delle nostre associazioni abbiamo raggiunto studenti e rappresentanti di 20 diverse università dalla Statale di Milano alla Federico II di Napoli al Politecnico di Torino e tante altre; ci rendemmo conto che gli studenti di tutta Italia non erano con i violenti che vediamo quasi ogni giorno sui media, ma, al contrario, guardavano con vergogna e tristezza quanto succedeva nelle nostre università.
Decidemmo di reagire, ma non con i modi che abbiamo visto nei campus statunitensi che hanno portato a una vera e propria guerra; per noi essere cittadini ancora prima che studenti vuol dire rispettare la legge e non farci giustizia da soli, sebbene la tentazione davanti a certe immagini che uscivano dalle occupazioni sia stata forte…
L'incontro degli studenti italiani con il segretario generale del ministero degli Esteri israeliano
Il 25 novembre scorso abbiamo avuto la possibilità di presentarci alle istituzioni nel Senato della Repubblica, dove senatori e deputati del governo ci hanno espresso il loro completo appoggio, con dichiarazioni di sostegno in privato anche dall’opposizione; salvo pochissime eccezioni i pro-pal non avevano il supporto della politica eppure gli veniva e viene tutt’ora permesso di entrare nelle nostre università, fare danni anche nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro e poi andarsene come nulla fosse successo, lasciando il conto da pagare all’ateneo e accompagnando il tutto con una campagna di disinformazione nei confronti di Israele e una serie di assurde richieste di interrompere tutti gli accordi con le sue università che nulla hanno a che fare con il conflitto in corso.
In questa settimana ci è stata data l’opportunità, grazie all’American Jewish Committee, di sbugiardare tutte le menzogne che vengono dette su Israele durante un viaggio in cui abbiamo sperimentato la sua cultura, conosciuto le sue università e avuto contatti con la sua politica pur non diventando ciechi verso la tragedia che anche i civili di Gaza stanno attraversando.
Durante questo viaggio abbiamo compreso una realtà completamente diversa dalla nostra, un multiculturalismo intrecciato così profondamente da risultare quasi inverosimile, dei ragazzi come noi chiamati a difendere il proprio Paese e a proseguire nei loro studi contemporaneamente e la democrazia di un Paese che viene tutelata a tal punto da portare a cinque elezioni in tre anni.
Israele è una realtà che merita di essere conosciuta senza pregiudizi o falsità e speriamo davvero di poter riportare quella verità che lì abbiamo conosciuto in prima persona, in Italia e insieme a essa ridare vita a un vero dibattito sui grandi temi di attualità dove potersi confrontare liberamente e alla pari, come avrebbe sempre dovuto essere.