«La strana morte dell'Europa: immigrazione, identità e islam» è un libro che in Inghilterra va forte. Già nella lista dei bestseller del Sunday Times, edito dalla Bloomsbury, esce in questi giorni la sua ristampa aggiornata e l'edizione economica. L'ha scritto Douglas Murray, trentottenne editorialista dello Spectator, rivista britannica politico culturale. La parola inglese «strange» può essere tradotta con strano, ma anche con bizzarro o paradossale. Scegliete voi l'aggettivo più calzante. Perché l'Europa muore? «Perché l'Europa», per Murray, «sta attuando il proprio suicidio. O almeno i suoi leader hanno deciso di commettere tale suicidio. Se poi anche il popolo europeo decida di suicidarsi o no ciò è, naturalmente, un'altra cosa».
Murray, in questo volume (la prima edizione è del maggio 2017) ricco di spunti di riflessione, fa trapelare, in fondo, anche la vera ragione della Brexit: i britannici, per primi, hanno preso atto che la politica del multiculturalismo europeo, del cosmopolitismo «alla berlinese» sta fallendo e ne hanno tratto le conseguenze. Brexit è la difesa estrema davanti alle migrazioni di massa che montano dall'Europa dal Sud. Se la volontà dei britannici di controllare i propri confini in autonomia ha prevalso pur di un soffio, il dibattito di questi giorni sulle navi di migranti da accogliere o respingere mostra la fragilità di un sistema mal pensato o, forse, affatto pensato da un'Europa politicamente labile. L'inchiesta di Murray, autore neo conservatore e sostenitore delle ragioni dell'Occidente, lo ha condotto a Berlino, Parigi, in Scandinavia, a Lampedusa e in Grecia. Il giornalista ha incontrato politici, personale delle Ong, agenti dei servizi segreti, polizia di confine e, soprattutto, migranti. Proprio di questi ultimi scrive: «Qualunque sia la mia opinione sulle situazioni che li hanno portati qui e la risposta del nostro continente, le nostre conversazioni si sono sempre concluse con l'unica cosa che avrei potuto dire loro onestamente: «Buona fortuna».
Se è autentica l'empatia con i migranti, merce umana in balìa dei traffici delle mafie, lo è altrettanto la critica ai politici europei che hanno gestito, o creduto di farlo, le politiche migratorie. «Dopo il suo lavoro per il governo britannico», afferma Murray, «Sarah Spencer (attuale direttore di Global exchange on migration and diversity di Compas, ndr) premiata come «comandante dell'ordine dell'impero britannico (Cbe)», una delle più alte onorificenze d'Oltremanica, ammise, dopo quegli anni al governo durante i quali lei e i suoi colleghi avevano aperto le paratie «antinondazione», che non c'era una politica per l'integrazione: «Credevamo solo che i migranti si sarebbero integrati». Tutto qua.
La critica di Murray a un'Europa debole, incapace dunque anche di integrare, il cui «ventre molle» è soprattutto la ricca e (troppo) autocritica Germania, è spietata: «Alla fine l'Europa non sarà più Europa e i popoli dell'Europa avranno perso il solo posto al mondo che chiamavano casa». Il messaggio è: per accogliere e integrare occorre un'Europa forte e con le idee chiare su come gestire le migrazioni. «La natura dell'Europa», spiega l'autore, «è sempre mutata, esempio ne siano le sue città commerciali quali la spettacolare Venezia. Hanno sempre mostrato una grande e inusuale apertura alle idee e alle influenze straniere. La loro apertura era prodigiosa: non era, tuttavia, sconfinata».
Per Murray è dopo la seconda guerra mondiale che inizia «il primo movimento di massa di popoli nell'Europa occidentale, a causa della mancanza di manodopera». Ma, ben presto, l'Europa si è lasciata sopraffare dalle migrazioni, senza riuscire a fermare il flusso. «Così le strade delle fredde e piovose città settentrionali d'Europa», scrive, «si riempivano di gente vestita in maniera adatta per le colline del Pakistan o per le tempeste di sabbia dell'Arabia».
Sulla debole o mancata integrazione l'Europa ha le sue colpe. Ma, soprattutto, le sue scuse. Che Murray elenca: «Gli europei hanno sempre trovato il modo di fingere che potesse funzionare. Insistendo, ad esempio, sul fatto che se l'integrazione non fosse avvenuta con la prima generazione, allora sarebbe potuta accadere con i loro figli, i nipoti o un'altra generazione ancora a venire. O che non importava se le persone fossero o meno integrate. È stato spesso sostenuto», continua il giornalista, «che l'immigrazione è un vantaggio economico per i nostri Paesi, che in una «società che invecchia» è necessaria più immigrazione, che l'immigrazione fa le nostre società più colte e interessanti. Oppure che la globalizzazione rende l'immigrazione di massa inarrestabile». Con le scuse o le mezze verità, però, non si gestisce il fenomeno delle migrazioni né, tanto meno, si integra nessuno.
Murray mette il dito in una larga piaga: «Il mondo sta arrivando in Europa proprio nel momento in cui l'Europa ha perso di vista quello che è. E mentre il movimento di milioni di persone di altre culture in una cultura forte e assertiva avrebbe potuto funzionare, il movimento di milioni di persone in una cultura colpevole, stanca e morente non può». La sua attenzione si sposta, necessariamente, sull'identità europea e sui valori in cui l'Europa si riconosce o dovrebbe riconoscersi: «Ci si aspetta che chiunque possa trasferirsi in Europa e diventare europeo. Se essere «europei» non riguarda la razza, come speriamo, allora è ancora più imperativo che riguardi «i valori». Ecco ciò che rende la domanda «Quali sono i valori europei?» così importante. Eppure», osserva Murray, «questo è un altro punto su cui siamo completamente confusi».
L'identità di un continente passa o può passare anche per la religione? «Siamo, ad esempio, cristiani?», si chiede l'autore. «Negli anni 2000», scrive, «questo dibattito ha avuto un punto focale nella discussione sulla formulazione della nuova costituzione dell'Unione europea e sull'assenza di qualsiasi menzione del patrimonio cristiano del continente. Papa Giovanni Paolo II e il suo successore cercarono di correggere l'omissione sul retaggio cristiano di Europa. Ma, al posto della religione», nota Murray, «è stato sostituito il linguaggio, sempre più inflazionato, dei «diritti umani».
«Quindi», conclude Murray, «mentre nel passato l'identità europea poggiava su fondamenta filosofiche e storiche ben specifiche (ad esempio lo stato di diritto, l'etica derivata dalla storia e dalla filosofia del continente), oggi l'etica e le credenze dell'Europa, anzi l'identità e l'ideologia dell'Europa, sono diventati «rispetto», «tolleranza» e «diversità». Tali definizioni superficiali ci possono far tirare avanti per qualche altro anno, ma non hanno alcuna possibilità di fare appello alle lealtà più profonde che le società devono essere in grado di raggiungere per sopravvivere a lungo. E invece di conservare una casa per i popoli europei, abbiamo deciso di far diventare l'Europa un'utopia, nel senso originale della parola greca: «nessun luogo».
- La denuncia di Open Arms: «I nordafricani hanno lasciato annegare una donna e un bambino». Per il ministro si tratta solo di fake news.
- Il premier Giuseppe Conte fa visita alla comunità di Sant'Egidio e si dichiara favorevole ai corridoi umanitari. La Verità lo aveva già scritto: lo strumento è valido, ma solo con piccoli numeri e se intanto si ferma la tratta.
- Nawal Soufi, italomarocchina premiata dall'Ue per aver aiutato i migranti, insulta il governo dai suoi profili social e invita i capitani delle navi in arrivo a fregarsene delle indicazioni italiane.
Lo speciale contiene tre articoli
Per creare quella che dal Viminale definiscono una «fake news» sono state usate le foto raccapriccianti delle vittime dell'ennesimo naufragio causato dagli scafisti trafficanti di esseri umani. Hanno messo in mare il solito gommone cinese da quattro soldi per tentare la traversata verso l'Italia e ora le immagini sono finite sui social con tanto di accuse: «I libici hanno affondato la barca e lasciato morire una donna e il suo bambino. Sono assassini arruolati dall'Italia».
Dalla spagnola Proactiva di Open Arms, una delle due Ong tornate nel Mediterraneo nonostante gli ammonimenti dell'Italia, con quelle immagini pensavano di aver calato l'asso. E invece: «Bugie e insulti di qualche Ong straniera confermano che siamo nel giusto», ha replicato il ministro dell'Interno Matteo Salvini. Che ha spiegato: «Ridurre partenze e sbarchi significa ridurre i morti, e ridurre il guadagno di chi specula sull'immigrazione clandestina. Io tengo duro».
Dopo l'annuncio della Guardia costiera libica di aver intercettato un'imbarcazione con 158 persone a bordo e di aver fornito assistenza medica e umanitaria, il leader della Ong Oscar Camps, invece di prendersela con gli scafisti che hanno messo in mare un gommone col quale l'impresa di arrivare in Italia era impensabile, ha lanciato il tweet con foto e video: «Quello che la Guardia costiera libica non ha detto è che hanno lasciato due donne e un bambino a bordo e di aver affondato l'imbarcazione perché i migranti non volevano salire sulle loro motovedette». E poco dopo ha aggiunto: «Quando siamo arrivati, abbiamo trovato una delle donne ancora in vita, non abbiamo potuto fare nulla per recuperare l'altra donna e il bambino. Per quanto tempo avremo a che fare con gli assassini arruolati dal governo italiano per uccidere?». La naufraga, vittima dei trafficanti di esseri umani, era aggrappata ai resti del gommone nel frattempo affondato ed era allo stremo delle forze. Ha detto di essere partita dal Camerun e di chiamarsi Josephine: era a faccia in giù su una tavola di legno, in condizioni di ipotermia. A bordo di un natante della Open Arms, insieme all'equipaggio, si è imbarcato anche il parlamentare di Liberi e uguali Erasmo Palazzotto che, senza fare distinzioni, ieri ha assegnato agli ultimi due ministri dell'Interno tutte le colpe dei naufragi causati da scafisti senza scrupoli (e spesso, come hanno dimostrato le inchieste giudiziarie, in combutta con i volontari di Ong): «Caro Salvini e caro Marco Minniti, di questi brutali assassini siete responsabili voi, i vostri accordi e il vostro cinismo».
E dopo i ringraziamenti per la Ong che l'ha tirato a bordo, ha intimato: «Adesso mi aspetto che l'Italia presti soccorso a questa donna sopravvissuta che ha urgente bisogno di cure mediche. Sperando che almeno stavolta, davanti all'omicidio di una donna e un bambino, il ministro Salvini abbia la decenza stare zitto». Ha preso il megafono anche Roberto Saviano, che da qualche tempo ce l'ha con Salvini (dal quale si è beccato qualche querela): «Assassini! Ministro della Mala Vita, sui morti in mare parla di bugie e insulti, ma con quale coraggio? Confessi piuttosto: quanto piacere le dà la morte inflitta dalla Guardia costiera libica, sua (mi fa ribrezzo dire nostra) alleata strategica? Lei che sottolinea continuamente di essere padre, da papà quanta eccitazione prova a vedere morire bimbi innocenti in mare? Ministro della Mala Vita, l'odio che ha seminato la travolgerà. Come travolgerà gli imbelli a 5 stelle, e tra di loro l'impresentabile Danilo Toninelli».
Salvini va avanti. E ricorda alle Ong spagnole tornate nel Mediterraneo ad attendere il loro carico di esseri umani che i porti sono chiusi: «Risparmino tempo e denaro, i porti italiani li vedranno in cartolina». Il braccio di ferro tra Salvini e i volontari spagnoli va avanti dal 4 luglio, ossia da quando Proactiva dovette ripiegare con i suoi 60 migranti a Barcellona, dopo il divieto di attracco da parte di Italia e Malta.
«Anche se l'Italia chiude i porti, non può mettere porte al mare», aveva annunciato sabato scorso la Ong sul profilo Twitter. E come una Cassandra aveva pronosticato: «Navighiamo verso quel luogo dove non ci sono clandestini o delinquenti, solo vite umane in pericolo. E troppi morti sul fondale». Questa volta i morti erano a galla. Ma le responsabilità sono ancora da stabilire, visto che i gommoni partono sapendo di non riuscire a portare a termine la traversata. Il meccanismo, come ricostruito dalle inchieste giudiziarie, è sempre lo stesso e va avanti da anni: gli scafisti buttano in mare il barcone, arrivano in zona utile per i soccorsi, dove, coincidenza, trovano la nave di una Ong che effettua il salvataggio e li porta in Italia. Ma questa volta tutti i superstiti sono stati trasferiti dai libici in un campo profughi a Khoms, città della Tripolitania. «È l'unico modo per fermare il traffico di esseri umani», ha ribadito Salvini, ricordando che la Libia dovrebbe essere dichiarata «porto sicuro», per permettere alle navi militari europee di portarvi le persone salvate in mare. Con questa politica gli sbarchi, stando agli ultimi dati certificati dal Viminale, sono calati dell'80 per cento. Non solo: dall'inizio dell'anno la Spagna ha superato l'Italia per numero di arrivi. E calando le partenze scende anche il numero delle vittime. Degli oltre 50.000 migranti giunti in Europa via mare fino al 15 luglio, 1.443 hanno perso la vita nella traversata. Tra il 2015 e il 2017, invece, le vittime hanno superato quota 15.000.
L'ultimo viaggio della speranza è di ieri: la polizia ha fermato l'intero equipaggio di un barcone approdato a Pozzallo, in provincia di Ragusa, con 447 migranti. Al comandante, un pregiudicato, e ai dieci marinai di origine nordafricana, sono stati contestati i reati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e di morte come conseguenza di altro delitto per il decesso di quattro stranieri che si sono tuffati in acqua alla vista dei soccorsi. E anche in questo caso Salvini ha twittato: «Dalle parole ai fatti, ora però che stiano in galera».
Fabio Amendolara
L’alternativa ai naufragi esiste già
Toh, il premier Giuseppe Conte d'accordo con la comunità di Sant'Egidio: chi l'avrebbe mai detto? In visita alla sede dell'organizzazione, a Roma, il presidente del Consiglio ha infatti sposato l'idea dei corridoi umanitari in cui da tempo la comunità è impegnata: «L'impegno della comunità di Sant'Egidio per i rifugiati, coi corridoi umanitari, è in linea con la proposta italiana. Si tratta di un'immigrazione regolare, con numeri contingentati, ben definiti, che consente di creare percorsi di integrazione», ha detto il premier.
Ma come, e allora le politiche di Matteo Salvini, i porti chiusi e tutto il resto? In realtà la cosa ha un senso e non sarà un caso se nel dicembre del 2016, quando il governo gialloblu era di là da venire, La Verità già parlava dei corridoi umanitari come possibile soluzione legale al caos migratorio. Ma andiamo con calma e cominciamo col dire che i primi a non essere stupiti delle parole di Conte sono proprio i diretti interessati. «Il consenso del premier non ci ha sorpreso», ci spiega Paolo Naso, coordinatore del progetto Mediterranean Hope, un coordinamento per i corridoi umanitari legato Federazione delle chiese evangeliche in Italia.
«Il progetto», afferma, «aveva già ricevuto l'endorsement di altre personalità del governo, seppur non di questo livello. Ma direi che lo stesso ministro dell'Interno ha sempre detto di voler garantire coloro che arrivano legalmente e che sono titolari di protezione internazionale. Non mi stupisce, quindi, che il nostro progetto riscuota ampio consenso». L'idea, peraltro, non è restata solo sulla carta: «Non è solo un progetto ma, citando un noto spot, è una solida realtà», afferma Naso, che aggiunge: «Nel 2015 abbiamo aperto un primo protocollo, garantendo un corridoio per mille persone. Nel 2017 il protocollo è stato rinnovato e ne hanno giovato altre mille persone». Ma come funziona, tecnicamente, il corridoio umanitario? Spiega ancora il coordinatore di Mediterranean Hope:
«Operiamo in stretto rapporto con organizzazioni locali. Sono loro che ci mettono in contatto con i casi problematici. La parola d'ordine è vulnerabilità. Penso a donne sole, a donne con bambini, a persone malate, tali da non poter essere curate in patria (se invece c'è questa possibilità li inseriamo in un altro progetto, Medical Hope, per garantire l'accesso alle cure sui luoghi di intervento). Oppure di persone che scappano dalla guerra, per le quali l'espressione “aiutiamoli a casa loro" non ha senso». Insomma, si tratta di accogliere in modo legale e sicuro chi ne ha veramente bisogno e diritto, evitando barchette e barconi di fortuna, tratte schiavistiche, Ong senza scrupoli e arrivi di clandestini vari.
Tutti d'accordo, quindi? Non proprio, perché qui, ovviamente, Naso non ci segue: «Non sono d'accordo nel mettere i corridoi umanitari contro l'operato delle Ong, che sono uno strumento che non va demonizzato. O meglio, gli uni potrebbero essere alternativi alle altre se i numeri fossero altri. Se con i corridoi umanitari arrivassero 50.000 persone potrebbero essere una soluzione efficace e razionale. Ma si tratta di un'alternativa realistica da una certa massa critica in su». Qui, ovviamente, siamo noi che non possiamo seguire questa logica. Al contrario, sono i corridoi umanitari che funzionano solo se il numero di persone in ingresso è estremamente limitato, a margine di un intervento globale per stoppare i flussi, fermare l'intera filiera della tratta, anche a terra, smantellare le reti di scafisti e trafficanti, puntare all'obbiettivo ideale degli arrivi illegali a quota zero. A quel punto, ma solo a quel punto, si può pensare di dare aiuto a quell'esigua minoranza di migranti che ne ha davvero bisogno e che rispetta i parametri per accedere allo status di rifugiato. Senza avventurarsi, peraltro, in meccanismi di ingegneria sociale che già altrove hanno fallito, come lo ius soli o la cittadinanza facile, dato che chi scappa dalla guerra o dalla persecuzione deve avere la possibilità di tornare a casa una volta finita l'emergenza, come per esempio possono fare ora i siriani fuggire a suo tempo dall'Isis. In caso contrario, l'intervento non è umanitario, bensì ideologico.
Adriano Scianca
«L’angelo dei profughi» che incita gli attivisti a violare le nostre leggi
A tutti i capitani delle navi ferme in mare.... Sbarcate! Decidetelo voi!». Segue l'emoticon di un megafono. Di seguito Nawal Soufi cita una frase di Erich Fromm: «L'atto di disobbedienza, in quanto atto di libertà, è l'inizio della ragione». Nawal, che si definisce «attivista per i diritti umani e collaboratrice indipendente durante la fase di soccorso dei migranti», scrive questo messaggio, sul suo profilo Facebook, il 26 giugno scorso, alle 3.34 di notte. L'illogico e illegale invito a forzare, da parte delle navi delle Ong che trasportano migranti, l'ingresso nei porti italiani lascia di stucco. Nawal, arrivata bambina a Catania dal Marocco con la sua famiglia ventinove anni fa, è un'italomarocchina che, nel 2016, a Firenze, agli archivi storici dell'Unione europea di Villa Salviati, aveva ricevuto il «Premio cittadino europeo 2016». Ma, da europea premiata, oggi odia l'Europa che si confronta, pur aspramente, su sbarchi, accoglienza, integrazione e respingimenti. La motivazione di quel riconoscimento fu: «Ha salvato 20.000 migranti». Con l'inizio degli approdi massicci in Sicilia, Nawal diventa un punto di riferimento per i migranti in balìa degli scafisti e delle onde. La chiamavano sul cellulare dai barconi in difficoltà e lei comunicava le loro coordinate alla guardia costiera italiana. Anche il suo re, Muhammad VI, l'ha incontrata a Rabat come paladina dei diritti umani; è stata premiata dagli Emirati arabi come «Arab hope maker» (creatrice della speranza araba) per aver salvato la vita a 200.000 migranti. «Lo sceicco l'ha premiata perché è una delle fautrici dell'islamizzazione in Europa», è stato uno dei commenti al video ufficiale del governo di Dubai; un altro ricordava le sue dure proteste contro la polizia italiana durante il controllo sui migranti effettuate alla stazione centrale di Milano, nel maggio dello scorso anno. Nel 2015 Nawal (il suo sito è nawalsoufi.com) aveva ricevuto una menzione speciale al Premio volontariato internazionale della Focsiv, la federazione delle Ong cattoliche. Un giornalista di Vita, Daniele Biella, nello stesso anno, l'aveva definita L'Angelo dei profughi in un libro delle edizioni Paoline (prefazione del cardinale Francesco Montenegro). È stata ascoltata alla Commissione per i diritti delle donne e l'uguaglianza di genere del Parlamento europeo.
Eppure, adesso che l'Italia sta provando a ottenere una normale redistribuzione dei migranti nell'Europa dei 28, Nawal si è arrabbiata e incita i capitani delle navi delle Ong a violare i porti. Al pari di altre sue amiche di social, come Nefissa Labidi, convinta antisraeliana il cui hashtag preferito è #irrompete-nei-porti e che sul premier Conte scrive: «Quando sei senza palle, sorridi e menti anche contro ogni evidenza. Tanto i tuoi coglioni ti applaudiranno sempre! Vero Salvini? Il gran maestro della menzogna e dell'infamia!».
Su Facebook Nawal aveva già lasciato sette emoticon «cacchetta» a commento di un manifesto elettorale della pentastellata Roberta Lombardi che voleva «più turismo e meno migranti», candidata alla Regione Lazio contro il piddino Nicola Zingaretti.
Ma il suo bersaglio preferito è il vicepremier Matteo Salvini. «Io nomade, io marocchina, io siciliana, io anarchica, io antifascista, io contro Salvini!» è uno dei suoi autoritratti dall'ego marcato. E quando Matteo Salvini, con l'appoggio di Danilo Toninelli dei 5 stelle, ministro delle Infrastrutture e dei trasporti del governo Conte, ha iniziato a rallentare l'azione delle navi delle Ong e a impedirne l'ingresso nei porti italiani, Nawal è andata fuori di sé, mostrando immotivate paure. Forse, la sua fragilità. Il 19 giugno, alla 15.40, si è ritratta in riva al mare: seduta sotto un albero, ha dichiarato di essere in guerra come una partigiana: «Se un giorno verranno a prendermi sappiate che non ho mai fatto del bene. Ho solo fatto il mio dovere da essere umano. Sembrano post provocatori, ma non lo sono. Siamo dentro una realtà pesantissima e io, da migrante, sento per la prima volta di essere una partigiana nel 2018 e quando senti di essere un partigiano vuol dire che sei in guerra».
Parole forti, ma i timori di Nawal sono inutili. Nel 2017, su di lei, il procuratore generale di Catania, Carmelo Zuccaro, dichiarò al Giornale: «Al momento escludiamo che ci sia un interesse economico nel fatto che indichi ai trafficanti i numeri da chiamare per far venire a prendere le navi cariche di migranti. È una questione ideologica». Nawal venne descritta da Zuccaro solo come una pasionaria dei migranti. Perché, tuttavia, Zuccaro parlò di «interesse economico»? Perché Nawal pubblica online il suo iban e il numero della sua carta postepay, dove ricevere donazioni per aiutare i migranti. Sono donazioni fatte alla persona fisica di Nawal: chi ricarica quei conti si fida di lei.
Nawal appare, nonostante i molti riconoscimenti, la stampa amica, le fotografie accanto a europarlamentari come Silvia Costa o Cécile Kyenge, un personaggio contraddittorio. C'è anche chi l'ha accusata di essere complice degli scafisti: un trafficante di migranti, alla trasmissione televisiva Piazza pulita, dichiarò a un cronista che fingeva di voler trasbordare la sua famiglia dall'Africa in Italia pagando 3.000 dollari: «Tranquillo», spiegò il trafficante, «lo scafista ha una bussola, un gps e il telefono satellitare. Ha anche il numero della signora Nawal, che lavora per una Ong italiana. La contatta dalla barca e le fornisce le coordinate, così lei avvisa la guardia costiera». Il cronista chiese: «La donna conosce lo scafista? «Sì», rispose il trafficante, «quando lei riceve una chiamata dal satellitare contatta quelli di Medici senza frontiere, che prendono le coordinate e vanno verso il barcone». Nawal è una donna appassionata e ingenua, sfruttata dalla malavita per il suo amore verso i migranti? In tv, lei si difese: «Non ho mai ricevuto una chiamata da una persona che mi dice: pronto, sono uno scafista e ti sto dando le coordinate». Ma ogni emergenza è una situazione confusa, che può mescolare i ruoli dei buoni e dei cattivi, soprattutto se si crede nelle «verità» a senso unico.
Qualche tempo fa La Verità provò a contattarla. Una fonte sosteneva che alcuni bambini e adolescenti migranti, maschi, poco dopo lo sbarco, venivano fatti prostituire alla stazione di Catania. La fonte fece il nome di Nawal e di un'altra ragazza siciliana, sua amica: «Loro conoscono questi fatti», disse. Allora Nawal non volle parlare con noi. Lei, il cui hashtag del momento contro il governo Conte è #corridoi-umanitari-per-milioni-di-persone-unica-soluzione, quella volta discriminò chi le voleva solo parlare per provare a denunciare la prostituzione coatta di quei bambini abusati sessualmente e sfruttati, per soldi, nella stazione della sua città.
Paolo Giovannelli
«Gentilissimo signor presidente del tribunale per i minorenni di Catania, con il cuore in mano, le chiedo di valutare altre mille possibilità prima di strappare i figli a una madre». Inizia così la lettera in cui la signora V.T. scrive al presidente del tribunale per i minorenni di Catania, chiedendogli di lasciarle i suoi tre bambini per evitarne il ricovero in una comunità. La lettera è stata spedita da Librino, quartiere difficile di Catania come San Cristoforo, Monte Po o il villaggio Sant'Agata: luoghi dove i bambini spacciano a otto anni e si prostituiscono a 12.
La presidente della fondazione La città invisibile, Alfia Milazzo, che aiuta i bambini e gli adolescenti dei quartieri catanesi ad alto tasso di malavita, afferma: «Queste cose accadono soprattutto alla gente povera e indifesa. Il nodo di tutto sono i servizi sociali e i docenti delle scuole che magari non si accorgono di genitori che fanno prostituire le bambine ma tolgono i figli a chi non commette nulla di così grave. E poi c'è il business delle comunità e delle case famiglia che incassano in media 80, 100 euro al giorno per minore: molti di questi istituti sono gestiti da cooperative con a capo prestanomi e non aggiungo altro. Se i servizi sociali manifestano persecuzione nei confronti delle persone deboli e povere», continua Milazzo, «i magistrati si basano su quanto riportato dalle relazioni di chi staziona per decenni nella stessa funzione e nello stesso ufficio e scuola, creando quelle incrostazioni e lo stato di dominus del quartiere che è inaccettabile. Infine qualcuno si dovrebbe ricordare i moniti lanciati dal giudice Scidà». Il giudice Giambattista Scidà (1930-2011), per sottrarre il meno possibile i bambini all'ambiente familiare, sosteneva che gli aiuti economici dello Stato dovessero essere destinati direttamente alle famiglie piuttosto che agli istituti.
La Verità ha contattato l'avvocato Cristina Franceschini del foro di Verona, 46 anni, esperta nel diritto di famiglia e dei minori che conferma ciò che sostiene la presidente della fondazione siciliana. Infatti la sua sintesi è: «In Italia pagano le strutture invece di sostenere la famiglia: si fa l'esatto contrario del portato della legge 184/83, che stabilisce che l'indigenza economica non può essere di ostacolo alla crescita del minore nell'ambito della propria famiglia». Poi racconta storie come quella della cooperativa Il piccolo carro, che gestisce strutture residenziali per minori ad Assisi, Bettona e Perugia: i titolari avrebbero incassato almeno sei milioni dalle casse pubbliche, come rimborsi, per il servizio di attività terapeutico sanitaria che non avrebbero potuto erogare, poiché privi di autorizzazione. Per ogni ospite la cooperativa avrebbe ricevuto come rimborso 400 euro al giorno: ora i vertici della cooperativa sono accusati di truffa aggravata ai danni dello Stato e frode nelle pubbliche forniture. E i sei milioni di euro restano sotto sequestro, come stabilito anche dal tribunale del riesame nel febbraio scorso.
Sembrano tante le criticità del sistema minorile…
«Sì. C'è chi lavora con dedizione e onestà, ci sono stati di abbandono conclamato di minori. Ma le falle sono ancora troppe. Ad esempio, l'articolo 403 del codice civile sulla protezione del minore in stato di abbandono o in situazioni di pericolo lascia ampi margini ai servizi sociali, prestandosi a utilizzazioni “eccessive". La messa in sicurezza del bambino è immediata, anche davanti a una semplice confidenza fatta a una maestra su un battibecco familiare più acceso o a una segnalazione anonima, con conseguente allontanamento del piccolo: per mesi i genitori possono non sapere dov'è stato portato il proprio figlio, né lo vedono. Il giudice, pur essendo vero che i tribunali hanno carichi di lavoro importanti, fissa la prima udienza a mesi di distanza da quando il minore è già stato inserito nelle comunità e nelle case famiglia».
Perché i prezzi per l'assistenza del minore tolto alla famiglia variano da struttura a struttura?
«Innanzitutto manca una nomenclatura uniforme delle strutture di accoglienza dei minori, un elenco con lo stesso criterio. I requisiti stessi, per essere struttura idonea ad assistere i minori, variano da regione a regione. Non c'è un unico tariffario sulle rette giornaliere: un giorno in una comunità può costare 80 euro in una regione, 150 in un'altra; fino anche a casi particolari di 400 euro, per un solo giorno, in qualche comunità terapeutica. Il prezzo della prestazione lo decide la comunità dove il minore è stato inserito. Dalle Regioni partono fiumi di soldi alla volta dei Comuni, le strutture emettono fattura al Comune e alla Regione, se la comunità è terapeutica. Poi vengono erogati i pagamenti. Inoltre diverse comunità di accoglienza e assistenza, agganciate alle cooperative, non presentano al fisco rendiconti ben dettagliati. Così è accaduto di vedere anche situazioni in cui “il disavanzo" è stato diviso fra i soci. La questione è che non c'è un organo che controlli i documenti, pure contabili, delle cooperative: eppure è inconcepibile che, per l'assistenza di minori pagata con soldi pubblici, si fatichi a vedere i conti. C'è poi una disparità sul trattamento delle famiglie affidatarie di minori: percepiscono 400 euro al mese contro gli anche 150, 200 euro al giorno che una cooperativa può ottenere».
Quali sono le urgenze?
«La prima è la realizzazione di una banca dati informatizzata sulle singole strutture: senza controllo, il sistema si presta ad abusi. Non a caso, l'ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il 6 ottobre 2016, aveva chiesto al suo capo del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Francesco Cascini, di “esercitare un'attenta vigilanza sul rispetto delle norme introdotte dal nuovo codice degli appalti nell'affidamento di servizi a cooperative o altri enti analoghi, dettagliando procedure e stabilendo percorsi di standardizzazione e contenimento dei relativi costi". Anche i progetti sul minore, elaborati dalle comunità, in genere sono piuttosto vaghi o, come si dice nell'ambiente, “in evoluzione". Molte strutture aspettano di vedere cosa dirà il servizio sociale, che attende indicazioni dal giudice: poi si vedrà cosa fare. E servirebbe anche una scheda, sempre parte di un sistema informatizzato controllabile, sul percorso fatto da ogni minore sui suoi progressi o difficoltà, anche per verificare il risultato degli ingenti investimenti pubblici e valutarne la congruità, regolandosi per il futuro. Scheda che ancora non c'è».
Come vengono valutati il minore e la sua famiglia?
«In alcuni casi c'è una certa superficialità o eccessiva burocratizzazione da parte dei servizi sociosanitari. Anche i controlli nelle famiglie affidatarie, una volta che hanno avuto il minore, sono fatti in maniera saltuaria, sporadica. Inoltre la valutazione del suo stato psicofisico viene spesso effettuata dal personale della comunità in cui è inserito e poi ripresa nelle relazioni dei servizi sociali: tali dichiarazioni fanno piena prova, fino a querela di falso. Pur essendoci dei professionisti anche all'interno delle comunità, ciò può agevolare la tendenza di voler mantenere il proprio posto di lavoro, trattenendo “gli ospiti" più a lungo».
Prigioni senza sbarre, mentre i costi per lo Stato aumentano…
«Certo. Inoltre, spesso, non c'è nemmeno un contraddittorio vero sulla situazione del minore e della sua famiglia. Anche se il tribunale dispone una valutazione, i servizi sociali, incaricati di pubblico servizio, non accettano i pareri dei consulenti di parte e elaborano una loro “valutazione psicodiagnostica"; altre volte sentono i consulenti privati delle parti, che comunque non possono partecipare alla valutazione che li riguarda. Accade anche che valutino la capacità genitoriale su persone già sconvolte, interrogate dopo mesi che non vedono il proprio figlio. Ma chi lavora coi bambini è periziato? Si tolgono bambini alle famiglie ma sappiamo davvero chi sono gli educatori e il resto del personale che opera nella comunità di accoglienza? Che personalità hanno? Si tratta, spesso, di persone assunte dalle cooperative con contratti di 4 o 6 mesi: di certo sono giovani che potrebbero essere inesperti e difficilmente possono costituire un punto di riferimento per il minore, specie se non assunti per periodi più lunghi. E poi, in alcuni casi, nei tribunali minorili si va avanti senza regole processuali certe. Le regole procedurali e alcuni diritti costituzionali sovente non vengono rispettati. Tribunale che vai, prassi che trovi…».





