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Lo speciale contiene due articoli.
«Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa», il libro di Bruno Dardani, che svela le verità attorno a Israele
Il 27 gennaio del 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz. Da allora quella data è un monito e ci ricorda che gli ebrei sono le vittime, non i carnefici.
In un panorama editoriale spesso affollato da semplificazioni e narrazioni polarizzate, Bruno Dardani offre un volume che si propone come esercizio di equilibrio. «Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa» è un manifesto personale, frutto di un esperienza umana e lavorativa di oltre vent’anni come inviato del Sole 24 Ore, e insieme un viaggio nell’anima di un popolo che ha trasformato la sofferenza in riscatto e il passato in una lezione eterna.
Dardani, pur muovendosi su un terreno scivoloso, riesce a esplorare senza retorica i nodi storici, culturali e politici che legano Israele al resto del mondo, anche grazie allo stile piano tipico del reportage giornalistico, che - lo abbiamo appreso da Indro Montanelli e da Oriana Fallaci - è un genere letterario a tutti gli effetti. A questo si mescola la riflessione intima, di un autore che sfida stereotipi e pregiudizi senza fare apologia o scadere nella propaganda. Il risultato è un’opera che invita alla comprensione, pur non nascondendo le difficoltà intrinseche della realtà israeliana.
Tant’è che sin dalle prime pagine il lettore è trascinato nella dimensione autobiografica di Dardani, che racconta il suo legame con Israele attraverso episodi emblematici della sua vita: basta una traversata nel deserto del Negev per evocare le suggestioni più profonde: «Ma è il colore di quel deserto, che da un lato del Giordano è il Negev, dall’altro il Wadi Rum, l’incudine del sole, a provocarmi quel disagio, quella sensazione di incompletezza che solo i contrasti producono. Da un lato, la sabbia e le rocce rosse del deserto abbacinato dalla luce; dall’altro, il grigio e la pioggia sporca di Mauthausen. In mezzo un bambino con le gote infossate e quegli occhi che si perdono dentro la profondità del dolore».
La narrazione oscilla tra il personale e il collettivo: un prisma, attraverso cui osservare il destino di una nazione giovane ma profondamente radicata nella storia. Ed emerge l’immagine di un popolo che vive con un’intensità unica, che celebra la vita, pur portando il peso di una memoria tragica e ineludibile. «L’chaim, in ebraico “alla vita”, non è solo un brindisi comparabile ai nostri “prosit” o “cin-cin”; è un messaggio lanciato nel cielo a difesa della famiglia, degli amici, di questo Paese unico e irripetibile», si legge.
A fare la differenza è la capacità di affrontare con lucidità le grandi questioni storiche e politiche legate a Israele. «Israele non è il Paese perfetto», dichiara Dardani nell’incipit del nono capitolo. Questo lo sa; ma analizza la narrativa che circonda la fondazione dello Stato, sottolineando come molte delle accuse mosse contro il sionismo siano costruzioni storiche distorte. E smonta alcuni dei miti più radicati nel discorso pubblico, come quello secondo cui gli ebrei avrebbero «rubato» la terra palestinese. Documenti, evidenze storiche e testimonianze alla mano, lo scrittore ricorda come molte delle terre su cui sorse Israele furono acquistate legalmente dagli israeliti europei presso latifondisti arabi e turchi. Al tempo stesso, non si omette di evidenziare le sofferenze provocate dai conflitti successivi, sottolineando come il dolore e la perdita siano esperienze condivise da entrambe le parti.
Il titolo del libro, «Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa», riflette l’anima dell’opera. Non si tratta di un’iperbole, ma di un’espressione che Dardani attribuisce agli israeliani che hanno vissuto la Shoah e le guerre successive. È l’essenza di un popolo che, pur segnato da cicatrici profonde, ha scelto di guardare avanti. «Chi ha vissuto ed è sopravvissuto ai campi di sterminio “la morte l’ha già uccisa”».
«Noi, che la morte l’abbiamo già uccisa» è un libro che sfida il lettore a riflettere senza pregiudizi, senza dogmi, senza cecità di fronte alla complessità della ragione.
Maurizio Lupi: «Per contrastare la denatalità occorre risollevare il modello della famiglia tradizionale».
Quando sono in gioco temi urgenti, la frenetica e industriosa Milano si ferma e medita, riflette e cerca soluzioni. E ieri, presso il Consiglio regionale della Lombardia, si è tenuto il convegno dedicato all’unico vero grande problema europeo e, segnatamente, italiano: la denatalità.
L’analisi della situazione demografica italiana è ai limiti dell’allarmante. I dati Istat più recenti mostrano come nel 2023 le nascite della popolazione residente siano state 379.890, 13.000 in meno rispetto all’anno precedente, vale a dire meno 3,4 per cento; ossia, per ogni 1.000 residenti in Italia sono nati poco più di sei bambini.
Il tasso di fertilità si attesta a 1,24 figli per donna, ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale, che invece è 2,1. Inoltre, la popolazione italiana è sempre più anziana: oltre il 23 per cento ha più di 65 anni; percentuale destinata a salire al 34,5 per il 2050. Un dato che pone l’Italia tra i Paesi più vecchi al mondo. Le conseguenze sono evidenti: aumento della spesa previdenziale, carenza di forza lavoro e depopolamento delle aree interne, soprattutto nel Mezzogiorno.
A peggiorare la situazione, si aggiunge il fenomeno dell’emigrazione giovanile. Venti anni sono bastati affinché tre milioni di giovani italiani lasciassero lasciato il Paese, privando il tessuto sociale di risorse vitali. Un circolo vizioso: meno giovani significa meno nascite, con un ulteriore aggravamento della crisi.
C’è chi ha pensato di arginare (e non risolvere) il problema, con assegni di mantenimento e piccoli bonus. Ma secondo Giulio Tremonti, intervenuto nel contesto del convegno, «non basta distribuire bonus una tantum. Servono politiche di lungo termine, che sostengano i genitori dal primo figlio e creino un ambiente favorevole alla natalità». «L’inverno demografico italiano», prosegue Tremonti, «è una conseguenza diretta di politiche miopi che per decenni hanno ignorato i segnali di declino. Dobbiamo intervenire sul fisco, perché un Paese che tassa pesantemente le famiglie non può sperare di crescere».
C’è da dire che negli ultimi tre decenni, da quando cioè si è fatta strada l’ideologia utopica della globalizzazione, molte coppie, o perché gravate dalle difficoltà economiche o perché, al contrario, allettate dalla possibilità di disporre liberamente del denaro e del tempo senza la responsabilità della prole, hanno anteposto altro alla famiglia. Per Maurizio Lupi occorre quindi promuovere una nuova narrazione della famiglia: «Non è solo un problema di soldi», spiega, «ma di percezione. Se non cambiamo l’immaginario collettivo, le famiglie continueranno a sentirsi sole e abbandonate».
Di avviso simile anche il professor Emilio Brogi, presidente dell’associazione Altero Matteoli, che ricorda: «L’emergenza natalità non è considerata come si dovrebbe, le famiglie hanno bisogno di ricevere aiuti più concreti. Noi abbiamo consultato i cittadini, sentito le famiglie. Chiedono più posti per gli asili nido, più aiuti per le spese per i testi scolastici, le spese mediche. Anche per capire le giovani coppie, le neo famiglie, che spesso non hanno aiuti in casa».
Poi c’è il caso di Milano, preso in considerazione da Stefano Maullu (Fdi). «Nel corso di vent’anni», sottolinea, «le nascite sono crollate di quasi il 25 per cento. È il minimo storico degli ultimi due decenni, segno di una tendenza negativa ormai consolidata. Per comprendere l’entità del fenomeno è necessario tornare ai primi anni del nuovo millennio. Nel 2004 le culle sotto la Madonnina contavano 12.462 neonati, oltre 3.000 in più rispetto a oggi. Negli anni successivi, il numero di nascite ha superato le 12.000 unità fino al 2010, per poi scendere a 11.547 nel 2011. Il declino è proseguito costantemente: nel 2018 si registravano 10.831 nuovi nati e nel 2019 il dato si attestava a 10.325. La continua contrazione delle nascite evidenzia una crisi strutturale, che richiede interventi mirati per supportare le famiglie e favorire la natalità. Politiche di sostegno economico, potenziamento dei servizi da per l’infanzia da parte dei comuni e misure per conciliare vita privata e lavorativa sono indispensabili per invertire questa rotta e garantire un futuro sostenibile per la città».
Con questa partita ci si gioca il destino del Paese.