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Giorgio Agamben ha definito «vergognoso» il comportamento degli intellettuali italiani di fronte alla gestione politica, giuridica e sociale della pandemia. Chissà se il filosofo ha più in uggia la torpida quiescenza dei più, il fattivo conformismo di molti o la fumosa quanto inane retorica dei pochi oppositori. Vergognoso o meno che lo si voglia definire, quel comportamento rispetta l’usurato copione. Nelle moderne società occidentali la gran parte degli intellettuali si adopera per legittimare e irrobustire l’ordine dominante. E la sparuta congrega dei dissidenti molto raramente si impegna in forme incisive di lotta politica, limitandosi a recitare il canonico ruolo dell’utile foglia di fico della propaganda di regime. Al resto, sulla scena della post-democrazia, per dirla con Colin Crouch, ci pensa il circo mediatico. Che tutto introietta, manipola e rivomita.
Certo, nella stagione senza fine dell’emergenza pandemica, ancor più dominata da un unico e ben orchestrato leitmotiv, coloro che cantano fuori dal coro mainstrem corrono maggiori rischi. E tornano ad essere bollati come cattivi maestri. Destino dei più fragili e incauti è quello di divenire meschini punching ball nelle sarabande televisive. Ma persino i più attrezzati e prestigiosi sono soggetti allo sberleffo e alla rampogna, se non al linciaggio verbale. Guai a discutere o a manifestare dubbi sulla Nova Religio! Lo stesso Massimo Cacciari, mattatore di lungo corso sui media nostrani, sta subendo il fanatismo di massa e ripetute scomuniche dalle zelanti vestali e dai dogmatici sacerdoti da talk show.
Agamben parla ormai senza mezzi termini di «colpo di Stato»; Cacciari denuncia la «scienza di regime». Che abbiano ragione o torto, poco importa. Ciò che conta è che questi celebri accademici ormai da tempo in pensione si prendono ancora la responsabilità e il gusto di fare il loro mestiere: osservano, pensano, giudicano in scienza e coscienza. Sarà la libertà dell’età matura. Quando la saggezza consiste nel dire finalmente tutto, inseguendo con il franc-parler l’atto di verità che vale per sé e per gli altri. Comunque la si pensi, un bel lascito di vitalità intellettuale per le future generazioni.
E gli altri operatori stipendiati del pensiero critico? Restiamo tra gli accademici, stavolta quelli ancora in cattedra. Partiamo, però, da qualche riflessione generale. Non c’è bisogno di rileggersi Chomsky per sapere quanto sia insolito nel mondo universitario l’esercizio intellettuale troppo disinibito e poco conforme al sistema. Ancor più della censura, vi opera il meccanismo dell’autocensura. Lo pretende il vieto corporativismo senza sguardo o di veduta corta, che vegeta la sua stenta autonomia all’ombra dell’apparato politico-economico. E lo regola un disciplinare della routine gerarchico-amministrativa che quasi sempre premia lo spirito gregario e servile in ogni passo della carriera. Del resto, anche l’indipendenza e la libertà della ricerca vengono penosamente irregimentate e burocratizzate, ridotte a format standard.
E dunque, imperando la mediocrazia, secondo la felice definizione di Alain Deneault, possiamo davvero stupirci che la mediocrità, e in particolare la mediocrità intellettuale, sia così ben radicata nelle università? Il problema, peraltro, è di vecchia data se già un secolo fa se ne lamentava Max Weber. Oggi, per prenderne tristemente atto, il caso del green pass, presto in vigore nella versione super, mi pare davvero emblematico. In un Paese in cui si calpestano molti diritti, tra cui quello allo studio, e si ghettizza una minoranza di cittadini, ci si aspetterebbe una fiera levata di scudi da parte della comunità universitaria. Ebbene, in piccola parte c’è pure stata. E ha prodotto un vibrante appello firmato da più di mille audaci, qualche impeccabile analisi giuridica, brevi cicli di lezioni in piazza, dotte citazioni di studiosi della biopolitica e, mi dicono, appassionati gruppi di virtuale resistenza sui social. Tutte iniziative lodevoli, certo. Ma senza un impatto concreto nella società, senza ricadute nella realtà politica. Forse perché di fronte a una norma vergognosamente discriminatoria e priva di un solido razionale scientifico, più delle parole forbite contano i semplici atti: dissociarsi serenamente, disobbedire pacificamente. Lo hanno fatto infermieri, operai, portuali, poliziotti… Non può permetterselo un professore universitario?
Tutti sanno che il silenzio è spesso un buon modo per uscire di scena. Eppure, non è mai troppo tardi per passare dalla parola all’atto. Ancor più nel tempo del lugubre avvento del super green pass benedetto dal Verbo del Drago. E dunque, che faranno i colleghi - specie gli intellettuali! - che da mesi brandiscono in pubblico e in privato le buone ragioni della protesta? Anche stavolta preferiranno baloccarsi con la parola piuttosto che provarsi nell’atto? Se così sarà, in amicizia, anzi fraternamente, mi permetterò di celebrarli per burla con un endecasillabo sporco: «In bocca Foucault e Qr code alla mano».