Marco Risi, una vita nel cinema, sulla scia di suo padre, il maestro della commedia all’italiana Dino, e di suo zio, il poeta e regista Nelo. I Risi, una delle grandi famiglie del cinema italiano, sempre un po’ defilati, malinconici nella vita privata, sempre pronti alla battuta e allo scherzo nella vita pubblica.
Cosa rappresentava il mondo del cinema durante la sua infanzia?
«Era il mondo alternativo al mio mondo normale, alla casa, agli amici, alla scuola. Il mondo del cinematografo, come diceva Mastroianni».
Quando ha avuto la percezione di questo strano mondo parallelo?
«Quando andai al cinema per la prima volta, anzi la prima volta in cui non andai, perché non volli entrare a vedere Marcellino pane e vino».
Perché?
«Avevo paura! Vidi il manifesto e mi sembrava una cosa agghiacciante, con quel Cristo che incuteva timore e il bambino spaventato che piangeva. Arrivati davanti al cinema con mia madre e mio fratello imbufalito, tornammo a casa perché mi rifiutavo di entrare. Avevo cinque anni o giù di lì».
Quindi il suo primo ricordo cinematografico è un rifiuto!
«Poi mi sono appassionato. Verso i dieci anni ho cominciato a frequentare il cinema Euclide, una sala parrocchiale di Roma, e dal mercoledì alla domenica, quasi tutti i giorni, vedevo film di ogni tipo, spesso anche da solo».
E sua madre?
«La divertiva che questo ragazzino andasse da solo al cinema, che all’epoca era un posto sicuro… meno per gli altri spettatori! Tante volte con amici facevamo degli scherzi, come degli enormi starnuti di gruppo. Una volta ho portato una fionda con la plastilina verde per colpire lo schermo. Alla fine del primo tempo sono scappato perché ho visto che lo schermo era pieno di macchie verdi».
Quando ha scoperto che suo padre era un regista?
«A scuola perché mi chiedevano: “Che mestiere fa tuo padre?”. “Il regista”. “E cosa fa il regista?” e io non lo sapevo. Allora ho imparato a rispondere che il regista dice agli attori quello che devono fare».
Anche suo zio Nelo Risi faceva il regista…
«Nelo però era più considerato, almeno da mio padre, un poeta. Ho cominciato con lui, non con mio padre. Ho fatto l’assistente volontario in Una stagione all’inferno, su Rimbaud, con protagonista Terence Stamp che, poverino, se ne è andato anche lui quest’estate. Poi fatto La colonna infame come assistente, stavolta pagato, a Cinecittà. Mentre giravamo, vedevo nascere accanto a noi, in esterni, il viale di Rimini di Amarcord. Ogni tanto uscivo e vedevo Fellini che camminava con delle belle donne, come Minnie Minoprio, perché stava cercando l’attrice per il personaggio della Gradisca».
Perché aveva chiesto a Nelo di fare l’assistente e non a suo padre? La intimoriva la figura paterna?
«Non credo di averlo chiesto io, è stato Nelo che me l’ha proposto, però mi trovavo più a mio agio con lui, che era più tranquillo. Mio padre poteva diventare una belva furibonda sul set. Quando ho fatto con lui l’aiuto regista per una settimana durante le riprese di Profumo di donna, c’è stato un episodio abbastanza spiacevole. Si è molto arrabbiato con una ragazza che doveva ridere e ballare sulla terrazza, mentre Vittorio Gassman giocava a mosca cieca con un altro cieco. Secondo mio padre lei non era all’altezza e ha cominciato a dirle delle cose molto pesanti. Allora io a un certo punto, rischiando, sono intervenuto e ho detto: “Papà, adesso basta”».
Cosa è successo sul set?
«Ho visto a dieci metri di distanza Gassman, seduto a un tavolo, intento a scrivere per il teatro, che ha alzato lo sguardo come per dire: “Cosa sta succedendo? Strano che un ragazzino si permetta di parlare così a Dino…”, però mio padre non ha detto niente. Del resto, sono sempre andato molto d’accordo con lui, c’era una grande intesa. Mi aveva fatto leggere la sceneggiatura del film: avevo inserito cinque-sei gag e lui me ne aveva prese tre».
Perché ha fatto solo per una settimana l’aiuto di suo padre?
«Perché l’aiuto era mio fratello Claudio, che quella settimana aveva dei problemi con il servizio militare, allora papà ha detto: “Vieni tu” e sono andato con lui a Napoli».
Sia lei che suo fratello aveva fatto i registi. Suo padre vi ha incentivato oppure no?
«Non ci ha mai né incoraggiato, né dissuaso. Ha pensato che potesse essere una cosa abbastanza naturale, ma non ci ha mai detto: “Che fate, non vi conviene, non dovete…”. Da questo punto di vista è stato generoso, però è stato il più critico di tutti».
Per esempio?
«Quando ha visto il mio primo film, Vado a vivere da solo, ha commentato: “Sei un professionista”, che non era un complimento. Voleva dire: “Vabbè, hai fatto il compito, ma il cinema è un’altra cosa”. Il rapporto è cambiato quando ha visto Mery per sempre: ecco lì ha cominciato ad avere una certa considerazione».
È strano che suo padre fosse così snob nei confronti delle commedie anni Ottanta…
«Proprio perché era terreno suo, sapeva come andavano fatte e sentiva che lì c’era un po’ troppa leggerezza. Mi ricordo che gli ho fatto vedere in anteprima Soldati - 365 all’alba perché c’era una versione televisiva più lunga di un’ora per le reti Mediaset. Gli ho chiesto dove tagliare per la versione cinematografica e lui in un attimo mi ha risposto: “Da qui a qui”».
I registi di quella generazione avevano il montaggio in testa...
«Non mi ha detto: “Taglia un pochino qua, un pochino là, un pochino su..”. Ha individuato l’episodio del nonnismo e mi ha detto che si poteva tranquillamente tagliare senza fare un soldo di danno. Ho fatto così e il film funzionava»
Mentre Nelo andava a vedere i tuoi film?
«Sì, sempre. Quando ha visto Fortapàsc con sua moglie Edith Bruck, ha detto una cosa che mi ha divertito: “Ma tu non sei il figlio di Dino Risi, sei il figlio di Francesco Rosi!”».
Suo padre a un certo punto si era trasferito in un famoso residence…
«Doveva stare via una settimana e invece c’è rimasto trent’anni. Io già vivevo fuori casa, eravamo grandicelli. Papà andava a trovare mamma e festeggiavamo sempre il Natale con tutti i parenti il 23 dicembre perché era il giorno del suo compleanno».
Suo padre era un dissacratore dei riti familiari, un po’ come Monicelli?
«L’unico che sopportava era il Natale perché era la festa del suo compleanno, ci teneva e gli piaceva perché era il momento in cui ci rivedevamo tutti quanti e dava il meglio di sé. Te ne racconto una: suo cugino Giulio aveva sposato la sorella di papà Mirella, che poi era morta e lui si era risposato con una signora un po’ grassottella. Una volta, quando entrarono in casa di mia madre, Dino disse: “Giulio è venuto con la barca!”».
Terribile! A scuola veniva a parlare con i professori?
«Mai. Una volta è venuto a vedere una partita di calcio scolastica e alla fine mi ha detto: “Però, batti bene i falli laterali”».
Era dura con un padre così!
«No, io mi sono molto divertito, per fortuna. Quando leggo la lettera di Kafka al padre, cerco sempre di mettermi anche un po’ nel ruolo del padre perché forse anche grazie alle critiche che lui gli rivolgeva Kafka è diventato lo scrittore che conosciamo».
Oltre a Mery per sempre ricorda altri apprezzamenti di suo padre?
«Gli ho fatto leggere malauguratamente la sceneggiatura de L’ultimo capodanno, che avevo scritto con Niccolò Ammaniti, e lui mi ha detto: “Se fossi al posto tuo, farei di tutto per non farlo questo film”. Forse aveva ragione perché il film poi è stato un disastro. Ho provato a replicare: “Guarda, papà, che questo film fa ridere”. E lui: “Se riesci a far ridere con questo film, allora vuol dire che sei veramente bravo”».
Ed è riuscito a far ridere?
«Aspetta, poi c’è stata l’anteprima al Cinema Europa. Mio padre era seduto accanto a Giuliano Montaldo e io lo guardavo da tre file dietro, vedevo la sua testa bianca e non capivo perché rimanesse sempre fermo. Poi Montaldo mi ha detto che dal collo in su era immobile, sotto era teso. Alla fine della proiezione, sono andato verso papà e ho visto gli occhi che gli brillavano. Per la prima volta mi ha abbracciato e mi ha detto: “Avevi ragione tu”. Era di una generazione che non amava le smancerie. Quell’abbraccio è valso più del disastro del film».
A distanza di molti anni, si è spiegato l’insuccesso de L’ultimo capodanno, diventato nel tempo un film di culto?
«Forse perché passava un’immagine più cupa di quello che era la realtà. Ecco, se fosse stato un film belga o americano sarebbe stato magari un grande successo, ma il pubblico non si è fidato del film italiano. Poi sai cos’è? In Italia siamo abituati a dare delle etichette, per cui io, a un certo punto, ero diventato il regista impegnato».
Il regista de Il muro di gomma, sul caso Ustica…
«Forse avrei fatto bene a continuare su quella scia, ma a me divertiva fare cose diverse. Avrei voluto esordire con Colpo di fulmine, che poi è diventato il mio terzo film. Avevo scritto il soggetto con Massimo Franciosa e poi la sceneggiatura l’avevo scritta da solo, perché era una storia che mi riguardava. Era un film carino che ricordo con piacere».
Perché la riguardava?
«Qualche anno prima avevo avuto una crisi di malinconia, che mi è durata un po’ di tempo, per cui mi trovavo a mio agio soltanto con i bambini perché sentivo la sincerità e non sentivo le finzioni, i sotterfugi, le furbizie degli adulti. Avevo pensato come protagonista a Nanni Moretti o a Francesco Nuti, ma non l’hanno voluto fare. Avevo visto anche dei cantanti, come Sergio Caputo. Poi ho capito che, se volevo veramente farlo, avrei dovuto confermare Jerry Calà che aveva interpretato i miei primi due film, Vado a vivere da solo e Un ragazzo e una ragazza. Lo ha fatto bene, però non aveva il physique du rôle, occorreva un tipo nevrotico, più problematico. Il produttore Achille Manzotti ha detto a Jerry Calà: “Ma cavolo, sembri Dustin Hoffman!”. I produttori di una volta avevano la battuta pronta».
Tra i registi scomodi del cinema italiano, Pasquale Squitieri non era secondo a nessuno. Sua moglie Ottavia Fusco, grande interprete teatrale e musicale, gli ha dedicato un documentario dal titolo emblematico, Il vizio della verità, che andrà in onda il 20 ottobre su Rai Tre, in cui riecheggia la figura di Claudia Cardinale, scomparsa in questi giorni.
Come nasce questo documentario?
«È un omaggio dovuto sia come artista che come donna, con cui si chiude un capitolo della mia vita. Lo dovevo a Pasquale, a otto anni dalla sua scomparsa: non era stato fatto ancora nulla per ricordarlo e sono molto fiera e onorata di essere la prima. Pasquale diceva sempre che il regista è quello che ha già visto il film e io in qualche modo questo documentario l’avevo già visto, sono riuscita a tradurre in immagini quello che avevo in mente. Non è un assemblaggio di ricordi e di contributi, c’è un’idea narrativa che credo di essere riuscita a restituire, quindi o mi massacrano o vinco dei premi».
Cosa voleva raccontare?
«Pasquale è stato un uomo etichettato. Io invece ho voluto raccontare un Pasquale inedito, attraverso i miei occhi, essendo in scena come figura narrativa, quindi l’aspetto politico, le sue provocazioni, gli amori, la spiritualità, tutte sfaccettature che pochi immaginano di lui. E soprattutto ho voluto raccontare la verità, per citare il vostro giornale, quella autentica, non quella che altri gli hanno voluto appiccicare addosso con le loro etichette. La libertà si paga caro e lui l’ha sempre pagata fino in fondo e anche di più».
Però era molto orgoglioso di essere uno spirito libero.
«La cosa emozionante delle interviste trasversali che ho fatto, da Franco Nero a Fabio Testi, da Fausto Bertinotti a Gigi Marzullo, da Lina Sastri a Steve Della Casa, è che tutti hanno parlato di lui con obiettività e rispetto, riconoscendo la sua intelligenza libera. Forse in vita non aveva potuto godere della manifestazione di questa stima. E non erano, credimi, le solite frasi che si dicono di tutti, dopo la morte. Ovviamente non si può non parlare delle sue intemperanze, del fatto che avesse un carattere a volte impossibile, però emerge la figura di un uomo giusto e leale, che non faceva sconti a nessuno perché non li faceva nemmeno a sé stesso».
Qual è il suo primo ricordo di Squitieri?
«Era l’estate del 2003 e io stavo preparando uno spettacolo con Lina Wertmüller, che si intitolava Peccati di allegria, dove Lina, eccezionalmente in scena, raccontava aneddoti e io, accompagnata dall’orchestra Toscanini di Parma, cantavo le più belle canzoni del cinema internazionale. Un giorno per ripassare il testo delle canzoni sono andata al bar Rosati…».
Dove Squitieri era di casa…
«Esattamente. I turisti stavano fuori e, per stare tranquilla, mi sono seduta all’interno. La sala era pressoché vuota, però in fondo erano seduti Pasquale, Tony Renis e un altro signore e ho sentito inevitabilmente, perché non c’era nessuno, quest’ultimo che diceva: “Che bella quella donna!”. Pasquale mi ha guardato: “Si, è davvero strana”. Dopo mezz’ora sono sfilati di fronte e Pasquale ha indugiato per un attimo, io ho alzato lo sguardo, ci siamo guardati e a me è venuto spontaneo dire: “Piacere maestro, sono Ottavia Fusco”. E lui: “Ma certo! Albertazzi mi ha parlato di lei”. Ci siamo stretti la mano e romanticamente, come ho scritto nel mio libro ’Nu piezzo ’e vita. Il mio amore per Pasquale, lettera per lettera, mi piace dire che poi quella mano non ce la siamo più lasciata».
Era un uomo solo in quel periodo?
«Aveva già lasciato Claudia Cardinale ed era andato a vivere a Castelnuovo di Porto, dove io tuttora vivo. Aveva deciso di uscire dalla mischia, di scavarsi un buco, come diceva sempre lui. Incontrandomi, credo abbia ricevuto una spinta vitale e creativa».
Tanto che poi ha continuato a fare film…
«Sì, fino all’ultimo straordinario film che non è stato pressoché distribuito, L’altro Adamo, il cui soggetto lo aveva scritto nel 1974, dove si parla di reale e virtuale, del rapporto tra l’uomo e il computer. È di un’attualità da brivido perché prevedeva quelli che sarebbero stati i risvolti drammatici dell’apparenza virtuale rispetto alla vita reale. Il protagonista, un pubblicitario piuttosto sfigato, gira con una telecamerina appuntata all’occhiello della giacca che filma tutti gli eventi della giornata. Il suo computer Ulisse modifica le situazioni a seconda di come lui avrebbe voluto che si svolgessero, fino a che una sera lui gli chiede di inventargli una storia d’amore vera, con una ragazza al semaforo che non ha il coraggio di avvicinare. Pensa un soggetto di questo genere scritto cinquant’anni fa!».
Nel girare il documentario, qual è l’insegnamento di Squitieri che le è ritornato in mente?
«Mi sono accorta di avere assorbito tantissime cose da Pasquale. Per esempio, che l’inquadratura è come un foglio bianco da squadrare, dove non devono esserci squilibri visivi tra un elemento e l’altro, bisogna cercare di bilanciare l’immagine».
Fra i veri temi, c’è anche la spiritualità. Suo marito era credente?
«Pasquale era molto sui generis anche in questo. Lo definirei una persona filosoficamente spirituale, però a volte, passando davanti a una chiesa, sentiva il bisogno di entrare e di raccogliersi in preghiera. Siccome io in quel periodo praticavo il buddismo, trovavo un po’ assurdo che mi facessi il segno della croce. Pasquale mi disse: “Sbagli perché, come diceva Federico II nell’incontro con il sultano al-Kamil, bisogna sempre onorare l’ospite che ci riceve”. E io da quel giorno ho sempre fatto il segno della croce, non solo questo mi ha anche attivato una sorta di evoluzione spirituale».
Come ha affrontato questo tema?
«Pasquale aveva un padre spirituale, don Sergio Mercanzin, che compare nel documentario in modo molto toccante e ricorda le loro lunghe disquisizioni teologiche negli ultimi tempi, quando Pasquale era a letto. Ho mostrato un disegno a matita che Pasquale non ha avuto tempo di finire, dove ha disegnato sé stesso in croce, proprio perché lui aveva un fortissimo legame con la figura del Cristo. Don Sergio mi ha fatto notare che ci sono due rette divergenti che partono dagli occhi, quasi a significare che il suo sguardo stava già rivolgendosi all’Infinito».
Il suo primo film si intitolava Io e Dio…
«Un film rivoluzionario in bianco e nero, che gli aveva finanziato Vittorio De Sica. Se vedi quel film, è un puro concentrato di talento, con cui ha anticipato tutti i temi che avrebbe affrontato nella sua cinematografia».
Un capitolo del documentario è dedicato agli amori: è stato doloroso affrontarlo?
«No, è stato doveroso, intanto perché altrimenti avrei fatto ridere i polli, poi è giusto affrontarlo perché è un aspetto importante della vita di Pasquale, che ha avuto quattro figli. Mi soffermo ovviamente sulla lunga storia d’amore con Claudia Cardinale e ci sono delle bellissime immagini di loro due, che erano degli strafighi pazzeschi. E affronto anche la mia storia. Il mio tono nel documentario è molto leggero, ironico, come a me piace essere».
Come sarebbe piaciuto a Claudia Cardinale…
«Sicuramente, perché era una donna di uno spirito irresistibilmente divertente».
Avete lavorato assieme a teatro.
«Pasquale ha avuto questa idea, forse un po’ sadica, quattro mesi prima di andarsene: “Io voglio riprendere a lavorare, mi piacerebbe dirigere te e Claudia in scena, che cosa ci possiamo inventare?”. Io, notoriamente masochista, invece di dire: “Ma sei matto”, gli ho risposto: “Se facessimo La strana coppia di Neil Simon nella versione femminile?”. E lui: “Ma questa è un’idea geniale!”. Ha convinto Claudia, che non era così contenta di lavorare insieme. Poi però lui è venuto a mancare e la regia l’ha rilevata il suo aiuto, Antonio Mastellone, Claudia e io abbiamo deciso, per onorare Pasquale, di andare avanti lo stesso».
Che esperienza è stata?
«Sono molto grata professionalmente a Claudia, intanto perché quello che aveva in mente Pasquale era di incuriosire con la presenza di tutte e due, e questo è riuscito benissimo. Inoltre, un nome gigantesco come quello della Cardinale ha fatto sì che facessimo il giro dei teatri più importanti d’Italia e con questo spettacolo ho vinto anche il premio Flaiano per il teatro 2018, cosa che mi ha fatto molto piacere. Nove mesi di tournée, un mese di prove, dieci mesi di convivenza lavorativa, sono tanti. La morte di Pasquale da un lato ci ha unito all’inizio, poi sono riemerse delle cose irrisolte».
Quali?
«Intanto, non c’era più Pasquale ad armonizzare le nostre due presenze. Nel mio ruolo di moglie ero molto benevola nei confronti di Claudia, probabilmente invece a lei faceva piacere che riemergesse la storicizzazione della sua storia e che in qualche modo i miei 14 anni con Pasquale scivolassero un po’ via. Chiaramente a me non andava, anche se non ne abbiamo mai parlato. C’è stata un’ultima telefonata, anche commovente, dove ci siamo dette che non saremmo mai state le più grandi amiche, ma che era stato bello incontrarci in nome di un grande amore. Poi non ci siamo più sentite, perché lei ha lasciato Parigi e si è trasferita a Nemours».
C’è una dote umana che non pensavi avesse, conoscendola più da vicino?
«Lo straordinario desiderio di vivere, aveva un’energia pazzesca. Tieni conto che aveva ottant’anni, quando abbiamo lavorato insieme. Voleva andare a ballare, voleva andare in discoteca, una vitalità incredibile. Era molto tenera. Quando veniva a casa, invece era molto più misurata. Questa la considero una dote umana».
«Buio e oblio dopo il successo. Sono diventata anoressica ma ho ripreso la vita a Ibiza»
Un’assistente di volo italo-parigina diventata per caso una cantante di successo vent’anni fa, scomparsa poi nel vuoto, anche a causa dell’anoressia, e adesso di nuovo sulla cresta dell’onda. La vita di Giuditta Guizzetti, in arte Yu Yu, meriterebbe una serie televisiva, come accaduto per gli 883. Da Ibiza, dove ha ritrovato se stessa, racconta la sua storia sul fragile filo delle note.
Da quanti anni vive a Ibiza?
«Ridi e scherza, ormai sono sedici anni».
Come si trova?
«Mi trovo indubbiamente bene. È il posto in cui ho vissuto di più in assoluto nella mia vita, perché mi sono sempre spostata molto. Ora mi sono fermata perché ho due bambini, però il mio lato nomade sta un po’ scalpitando».
È cosmopolita…
«Sono nata a Parigi, mia mamma è francese purosangue, mio papà è di Bergamo. Da quando avevo un anno abbiamo vissuto tra il Centro America, il Giappone, gli Stati Uniti, perché mio padre era un diplomatico. Ringrazio sempre di avere avuto questa fortuna, soprattutto per la possibilità di parlare le lingue da piccola. Ne parlo quattro perfettamente. Lo spagnolo, che è stata la mia prima lingua, avendo vissuto fino a otto-nove anni a Panama, mi è tornato quando mi sono trasferita a Ibiza. In due settimane l’ho recuperato. Solo il giapponese ho perso».
La sua carriera musicale è legata alla lingua francese.
«È stata una scelta del discografico. Quando ha saputo delle mie origini, mi ha proposto: “Perché non canti in francese?”».
È vero che era andata nello studio discografico per incidere una voce?
«In quel periodo facevo l’assistente di volo ed ero stata chiamata da nota discoteca del Bergamasco, Fluid, per incidere il classico annuncio da hostess come invito per una serata. Mentre facevo questa registrazione è entrato Pippo Landro, il discografico, che mi ha chiesto: “Ma tu chi sei? Cosa fai qua?”. “L’assistente di volo, non c’entro niente con l’ambiente della musica, suono solo amatorialmente”. A quel punto mi ha dato una chitarra e mi ha detto di provare. Ho suonato Je so’ pazzo di Pino Daniele. Lui è rimasto: “Dobbiamo fare qualcosa assieme: prendiamo la tua lingua madre e cerchiamo di imbastire un discorso musicale”. Così è nato tutto».
La canzone l’ha scelta Pippo Landro?
«Sì, lui aveva nel cassetto Mon petit garçon, che era stata scritto da Ferdy Sapio e mi è subito piaciuta molto. Ho rivisitato il testo con l’aiuto di mia mamma, l’abbiamo incisa due settimane dopo ed è rimasta lì. Ho continuato a fare l’hostess, poi la canzone è stata presa per lo spot della Lancia e ha avuto un successo incredibile da un giorno all’altro. Io non ci credevo».
Ha continuato a fare l’assistente di volo?
«Sì, fino a quando mi hanno chiamato dalla compagnia aerea: “Giuditta, continuiamo a ricevere lettere dai passeggeri che ci dicono: cosa ci fa sull’aereo la cantante che abbiamo visto il giorno prima in televisione?”. E carinamente mi hanno detto: “Goditi questo momento, ti diamo un anno sabbatico, vedi quello che succede e noi siamo sempre aperti a riprenderti”. Così ho intrapreso questo viaggio nel mondo della canzone».
Ha cominciato a fare serate e a partecipare programmi televisivi?
«Tantissima televisione e anche serate di moda. C’è stata la benedizione da parte di Maurizio Costanzo che mi ha preso sotto la sua ala protettrice e mi invitava spesso al Maurizio Costanzo Show. Poi c’è stata la fortuna del secondo tormentone, Bonjour Bonjour, un altro successo inaspettato».
Questo cambio di vita repentino come l’ha vissuto?
«La notorietà l’ho vissuta benissimo perché non mi rendevo conto di niente. Ero in una bolla, con molta ingenuità e umiltà. Una cosa che ricordo sempre è che dopo, terminata l’esibizione, applaudivo il pubblico che mi applaudiva, ero un po’ confusa! Senz’altro, aver vissuto tutta questa attenzione attorno a me ha portato a delle reazioni: non ero preparata per il successo, ma non ero neanche preparata a veder sparire intorno a me tutte le persone».
Ha vissuto male la fine della notorietà?
«Quando siamo usciti con il terzo singolo, ho percepito che non si sarebbe più ripetuta la fortuna degli altri due pezzi, il telefono squillava di meno, ho sentito il vuoto attorno a me e ho dovuto fare i calcoli con la realtà, con la vita, con il lavoro».
Cosa ha fatto, a quel punto?
«Ho lavorato come cameriera, poi sono tornata a fare l’assistente di volo, mi sono dovuta proteggere da una caduta che poi ho vissuto. Non ho retto bene tante cose e mi sono ammalata di anoressia. Le cause sono molte perché è una malattia molto complessa, da non prendere sottogamba, però sicuramente questa componente del calar del sipario ha scatenato qualcosa. Ho convissuto con l’anoressia per tantissimi anni e devo dire grazie a Maurizio Costanzo, che mi ha spinto a farmi curare, entrando nel centro disturbi alimentari di Todi. Lì mi sono lasciata prendere tra le braccia».
Quando ha cominciato ad avere problemi di anoressia?
«Già con l’uscita del terzo singolo, ho iniziato a perdere peso e questo ha posto dei limiti nell’invitarmi nelle trasmissioni perché davo un messaggio… chiamiamolo triste. Mi dicevano: “Sei un po’ troppo magra, devi ingrassare”. Ho fatto per un paio d’anni dentro e fuori dagli ospedali. Sono stata presa dalla casa discografica Emi per un progetto musicale molto bello, però ero entrata nel tunnel e non capivo che mi stavo perdendo e che stavo perdendo delle occasioni. Purtroppo il click nella mia testa era scattato».
Il punto più brutto di questa caduta?
«Avevo smarrito tutto attorno a me, fino a quando ho perso completamente il controllo del mio corpo, sono arrivata a pesare 36 chili e lì era una questione di vita o di morte. Quando sono entrata a Todi, mi sono detta: “Va bene, adesso basta, cerchiamo di far qualcosa”. Sono stati mesi difficilissimi perché non potevo fare nulla. Dal primo giorno, per dare un senso a tutto quello che stavo vivendo, ho cominciato a scrivere una sorta di diario che ho portato a termine il giorno in cui sono uscita».
Il cucchiaio è una culla - Diario di Yu Yu nella lotta contro l’anoressia, pubblicato da Aliberti nel 2008.
«Quando sono uscita, Maurizio Costanzo mi ha detto: “Fammelo leggere”. Una volta letto, mi ha detto: “È da pubblicare perché potrebbe essere molto utile anche ad altre persone”. Da quel momento drin, drin, sono iniziati a squillare i telefoni, a invitarmi nelle trasmissioni, interviste…».
Non ha avuta paura di ripiombare nel tunnel?
«Assolutamente. Ho partecipato a una puntata del Maurizio Costanzo Show ospite da sola e poi ho deciso di sparire. Un amico, che purtroppo non c’è più, Elio Fiorucci, mi ha detto: “Vai a Ibiza che stai ricadendo ancora nei circuiti del successo”. E così ho fatto, Ibiza mi ha fatto stare bene, sono tornata in Italia, ho preso la mia macchina, le quattro cose che avevo e sono andata via. È stata durissima all’inizio, alla fine sono uscita dall’anoressia da sola, qua a Ibiza, però sono rinata, proprio perché ho azzerato tutta la mia vita. Non ho raccontato a nessuno chi fossi e cosa facessi, ho trovato lavoro, una casa, mi sono rimboccata le maniche…».
Non l’ha riconosciuta nessuno?
«Lavoravo in un negozio molto rinomato e ovviamente la clientela italiana mi ha riconosciuto. Quello che ho apprezzato tanto è stato il rispetto e la sensibilità da parte di tutti quelli che erano a conoscenza dell’anoressia».
Ibiza è stato il suo rifugio.
«È il rifugio di tanti. La cosa più interessante di Ibiza sono le storie che ci sono dietro le persone. Probabilmente c’è una sorta di calamita che attira le persone che hanno avuto sofferenze. A Ibiza ho trovato anche l’amore. Ero responsabile di una galleria d’arte, ho esposto i quadri di un ragazzo italiano, da cosa nasce cosa ed è diventato il papà dei miei figli».
Ora cosa fa?
«Sono nel mondo del turismo: preparo dei pacchetti, dove mi occupo un po’ di tutto, dell’alloggio al catering. Negli ultimi anni mi sono specializzata nel mondo dello yoga. Ibiza è un punto calamitante anche per il discorso mistico».
Finalmente è tornata nel mondo della musica…
«Con una telefonata, a settembre 2024, del mio discografico di allora, Pippo Landro. Mi ha chiesto se me la sentivo di interpretare La Bohème di Charles Aznavour. Lì per lì sono rimasta un po’ sgomenta perché per me toccare certi pilastri della musica è sempre un po’ difficile, però ci sono stati una serie di eventi che mi hanno fatto dire sì. Era mancata da poco mia nonna parigina che era una fan di Aznavour. Ho fatto un provino a Ibiza con il classico karaoke, l’ho mandata a Pippo e dopo veramente due minuti contati mi ha chiamato: “Il pezzo è assolutamente tuo ed è nelle tue corde”».
È tornata a incidere…
«Nel vecchio studio di Milano di 24 anni prima e questo mi ha creato delle forti emozioni dentro. Abbiamo registrato questa versione de La Bohème che ha rispettato tutto il mio percorso musicale perché può essere benissimo un seguito di Bonjour Bonjour. Ha una musicalità che richiama un po’ le mie vecchie canzoni, però è un pezzo che ho potuto cantare alla soglia dei cinquant’anni. Se l’avessi fatto a vent’anni, sarei stata poco credibile. Mi sono sentita molto a mio agio nel cantarla».
Come sta vivendo emotivamente questo ritorno?
«Con serenità e con una maturità che prima non avevo e anche con una vita di mamma che prima non avevo, però la musica ha sempre fatto parte della mia vita, anche in questi 16 anni. Yu Yu non è mai morta, fa parte di me. Sono pronta anche a dare un messaggio positivo a tutte le persone che soffrono o hanno sofferto di anoressia e a tutte le persone che sono cadute nell’oblio, perché il successo a volte dura veramente uno schiocco, i tre minuti di una canzone».





