Giacomo Amadori
(Genova, 1970). Ex inviato di Panorama e di Libero. Cerca di studiare i potenti da vicino, senza essere riconosciuto, perciò non ama apparire, neppure in questa foto. Coordina la sezione investigativa dellaVerità. Nel team, i cronisti Fabio Amendolara, Antonio Amorosi e Alessia Pedrielli, l'esperto informaticoGianluca Preite, il fotoreporter Niccolò Celesti. Ha vinto i premi giornalistici Città di Milano, Saint Vincent,Guido Vergani cronista dell'anno e Livatino-Saetta.
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Uno dei più clamorosi sprechi della storia repubblicana, 1,2 miliardi di euro spesi per acquistare 800 milioni di mascherine in gran parte fallate. Di questo dovrà parlare davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione del Covid l’ex commissario straordinario Domenico Arcuri, in un’audizione molto attesa.
Secondo la Procura di Roma nella, presunta, gigantesca truffa (vengono contestati a dieci imputati reati che vanno dalla frode in pubbliche forniture al traffico di influenze, dal riciclaggio, all’autoriciclaggio e al falso ideologico) non sarebbero, però, viaggiate mazzette sulla direttrice Roma-Pechino, dove vennero inviati pacchi di denaro pubblico.
Eppure, senza intermediazioni, come hanno dimostrato numerose inchieste giornalistiche e non quelle mascherine sarebbero costate 900 milioni in meno. E, dagli atti depositati in Tribunale, si apprende anche che le provvigioni versate alla folkloristica banda di broker che portò tre aziende cinesi a stipulare i contratti con la struttura commissariale guidata da Arcuri ammontava ad almeno 203 milioni di euro.
Ma anche anche se le mascherine costarono quattro volte più del dovuto e hanno permesso di incassare milioni di euro di commissioni, ad Arcuri è stato contestato un unico reato, l’abuso di ufficio, oggi cancellato dal legislatore. Il manager calabrese si sarebbe avrebbe scelto le ditte cinesi accantonando tutte le altre offerte. Una decisione che ha portato il Tribunale di Roma, per esempio, a ordinare un risarcimento da 200 milioni di euro a favore della Jc electronics Italia, una delle società che era stata estromessa dalla corsa.
Ma se il grande pasticcio delle mascherine rischia di finire con condanne non certo esemplari, resta l’annosa questione: chi ci ha guadagnato davvero? Dove sono finiti i soldi?
I consorzi che firmarono con il governo italiano i contratti da centinaia di milioni oggi navigano in pessime acque e hanno in corso numerosi contenziosi. La più assediata dai creditori è la Wenzhou light che ha 29 dipendenti e un capitale di 10,8 milioni di yuan (1,4 milioni di euro) e che da Arcuri ottenne 590 milioni di euro (anticipati).
La Wenzhou Moon-ray ha 1 milioni di yuan (132.000 euro) di capitale sociale, 3 dipendenti e problemi come la consorella, ma dal governo incassò solo 27,5 milioni. Va un po’ meglio per la Luokai trade: 1 milione di yuan di capitale e 9 dipendenti. Da Roma le arrivarono 634 milioni di euro.
Molti di questi soldi sono rimasti in Cina. E in Cina sembra si sia rifugiato uno dei protagonisti di questa storia, il banchiere sammarinese Daniele Guidi, condannato sul Monte Titano a 5 anni e dieci mesi in Appello per il reato continuato di truffa e, in primo grado, a 10 anni complessivi per altri illeciti. È stato rinviato a giudizio in un procedimento per associazione a delinquere e, insieme con la moglie Maria Stefania Lazzari e con il sodale Andrea Tommasi (anche lui alla sbarra in Italia per la vicenda mascherine), in un altro per riciclaggio.
Oggi Guidi e signora dovrebbero vivere a Hong Kong e le indagini su di lui continuano.
La figura del banchiere è stata lumeggiata in Italia in un fascicolo parallelo a quello sulle mascherine avviato per l’ipotesi di riciclaggio e poi archiviato.
L’indagine partiva dalla ricostruzione dei flussi di denaro relativi alle provvigioni percepite da Guidi attraverso la Bgp partners di Hong Kong. Nel settembre 2020, con la moglie, aveva costituito in Cina una «newco» che i due avrebbero utilizzato «quale veicolo per !'ottenimento del permesso di soggiorno presso il territorio di Hong Kong». Un progetto perseguito anche attraverso lettere di referenze emesse a favore della Lazzari da due delle società fornitrici della maxi commessa, la Luokai trade e la Wenzhou light.
È lui a tenere i contatti con il coimputato Zhongkai Cai, l’uomo che fa da ponte con Pechino, e con un altro strano broker, l’ecuadoriano Jorge Solis che dalla vendita di bibite e cannabis light passa alle mascherine e, poi, improvvisamente al petrolio. Una brutta faccenda per cui è stato indagato per estorsione: avrebbe minacciato («Ti faccio staccare la testa, anche ai tuoi famigliari, verranno a casa e preleveranno tutta la tua famiglia») un altro intermediario per un affare da 540 milioni di euro (saltato) tra una compagnia petrolifera di Dubai e un’azienda messicana. E per essere più convincente avrebbe inviato video di squartamenti da parte dei cartelli centroamericani.
A far sbarcare questa cricca a Palazzo Chigi sarebbe stato l’ingegner Tommasi, che aggancia il giornalista Mario Benotti, che conosce Arcuri.
In un curriculum Tommasi si definisce così: «Dal 1991 lavoro nel settore dell'alta tecnologia della difesa […] Rappresento decine di
multinazionali estere, nel settore dell'alta tecnologia della difesa e opero quale ponte tra loro e le aziende italiane, quali Fincantieri, Iveco, Leonardo. Sono noto al modo della Difesa Italiano, come uno alla ricerca sempre di soluzioni innovative e soprattutto con un miglior rapporto efficacia per la Pubblica amministrazione. Cerco di portare tecnologia in Italia in modo da migliorare la competitività delle nostre aziende
nazionali ...».
Quando Guidi finisce nei guai con la banca Cis (di cui era azionista e amministratore delegato) sarebbe stato Tommasi a cercare di dargli una mano, rivolgendosi a un imprenditore di Campobasso, Massimo Franco, noto alle cronache recenti per aver donato a papa Francesco 2.500 panettoni per i bisognosi.
Secondo gli investigatori che hanno indagato sulla vicenda, Franco vanterebbe amicizie con personaggi della politica italiana e della massoneria.
Nel cellulare di Tommasi, sequestrato nell’inchiesta capitolina, ci sarebbe la prova dei collegamenti di Franco con un noto imprenditore romano e con il di lui nipote. Lo zio viene da sempre collegato alle logge. «È un uomo che ha fatto molto per l’Italia» rivendica con il cronista l’imprenditore molisano. «Ma io non c’entro niente con la massoneria, sono un cittadino semplice».
Eppure Tommasi avrebbe chiesto il suo aiuto per neutralizzare la donna che stava creando problemi a Guidi ovvero la governatrice della Banca centrale di San Marino Catia Tomasetti, rea di aver guidato il cda che ha firmato gli esposti che portarono agli arresti di Guidi nel gennaio del 2019 e che con la BcSm, sempre nel gennaio del 2019, aveva commissariato la banca di Guidi, poi posta in risoluzione.
Nelle chat Franco, dopo aver parlato con «i segretari» del presunto massone, il 20 luglio 2019 scrive: «’sta Catia si vuole fare male». Passano dieci giorni e aggiunge: «È morta la Catia». L’8 agosto ribadisce il concetto: «Io ho grande stima del prof (il presunto massone, ndr)… Catia è morta».
Guidi ha contatti anche con un sessantenne libanese che opera nel settore della difesa (per qualcuno sarebbe un trafficante d’armi) e che si qualifica quale «delegato» della Camera di commercio di San Marino per gli Affari internazionali e lo Sviluppo economico.
Il banchiere in disgrazia ha rapporti pure con Luca Minna, che in passato sarebbe stato «ambasciatore a disposizione della Repubblica di San Marino» e che Il Secolo XIX ha ricordato essere «stato condannato dal tribunale dello Stato del Delaware a risarcire dieci milioni di dollari a due aziende del settore energetico di Genova, che erano state convinte a investire milioni in alcune miniere negli Stati Uniti».
Il quotidiano si è occupato di lui perché nel capoluogo ligure è finito sotto inchiesta il fratello di Luca Minna, l’avvocato Matteo: è accusato di aver sottratto mezzo milione di euro al defunto attore Paolo Calissano, quando era il suo amministratore di sostegno. Il 30 gennaio inizierà l’udienza preliminare.
Ma torniamo a Luca. Minna e Guidi, nelle chat visionate dalla Verità, si preoccupano di far acquistare la banca Cis dalla Zhongjing jinyi investiment fund management (Beijing)
Co. Ltd. Dalle conversazioni si capisce che il presidente del fondo è Chaney Cheng. Non un personaggio qualsiasi visto che avrebbe fatto parte della delegazione al seguito del presidente cinese Xi Jinping, quando questi è atterrato a Roma e ha incontrato l’allora premier Giuseppe Conte per firmare l'accordo bilaterale Italia-Cina nell'ambito del progetto «La nuova Via della seta». Era il 22 marzo del 2019 e all’affare delle mascherine mancava un anno.
Sei giorni dopo Minna avrebbe portato Cheng a incontrare Guidi nella sede della Banca Cis. «Parcheggiate nel parcheggio interno, dietro al palazzo a sinistra» è il messaggio rimasto sul cellulare.
Nel 2018 Cheng era volato in Sardegna con l’ex presidente della Camera Irene Pivetti per fare affari sull’isola: «Mister Cheng è venuto in Sardegna anche per sondare la disponibilità della Regione e ora lo posso dire: il nostro secondo incontro preliminare è andato molto bene».
Di questo affare i giornali non hanno più parlato.
In compenso la Pivetti è stata condannata a settembre per evasione fiscale e autoriciclaggio ed è finita sotto processo per una compravendita da 35 milioni di euro di mascherine cinesi durante l'emergenza Covid. Perché la strada tra Roma e Pechino, almeno quando si parla di Covid, è lastricata di inchieste. E forse, questa mattina, Arcuri confesserò ai commissari come sia stato possibile gettare centinaia di milioni di euro di denaro pubblico, letteralmente, nelle discariche.