Giacomo Amadori
(Genova, 1970). Ex inviato di Panorama e di Libero. Cerca di studiare i potenti da vicino, senza essere riconosciuto, perciò non ama apparire, neppure in questa foto. Coordina la sezione investigativa dellaVerità. Nel team, i cronisti Fabio Amendolara, Antonio Amorosi e Alessia Pedrielli, l'esperto informaticoGianluca Preite, il fotoreporter Niccolò Celesti. Ha vinto i premi giornalistici Città di Milano, Saint Vincent,Guido Vergani cronista dell'anno e Livatino-Saetta.
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Lo scoop della Verità sulla Procura di Roma trasformata in una sorta di Grande fratello, con video-microspie piazzate in almeno quattro uffici della sezione di polizia giudiziaria della Guardia di finanza, ha creato sconquasso sia tra i pm sia tra gli investigatori. E adesso un sindacato delle Fiamme gialle ha deciso di chiedere conto agli inquirenti di quelle investigazioni. Una delle questioni dibattute nei corridoi del Palazzo di giustizia è se, insieme con i sei finanzieri indagati con l’accusa di corruzione e di soppressione di atti (mai esistiti), siano stati ripresi anche dei magistrati. Sicuramente le intercettazioni telefoniche e ambientali, realizzate tra l’autunno del 2023 e l’inverno del 2024, non hanno permesso di raccogliere prove contro i finanzieri. Stesso risultato hanno prodotto il controllo degli accessi alle banche dati della Procura e la perizia grafologica sulle firme dei militari. A far finire gli investigatori sulla graticola sono state le foto di alcuni presunti atti giudiziari (falsi) trovate sui cellulari di due presunti narcotrafficanti. Uno di loro, dopo un anno di infruttuose indagini, ha confessato di aver confezionato tali documenti (aveva le matrici dentro al computer) per farsi ricompensare da un complice avido di notizie sulle indagini in corso.
Ma anche se gli atti erano delle grossolane imitazioni (per esempio, il comandante era indicato come «responsabile della stazione di pg» anziché della «sezione»), le investigazioni sono durate oltre un anno. La giustificazione è che le foto dei documenti trovate sui telefonini erano un po’ sgranate, ma questo è bastato a far iscrivere sei finanzieri sul registro degli indagati e a farli cacciar via, con lettera firmata dal procuratore Franco Lo Voi in persona, pochi giorni prima della richiesta di archiviazione del procedimento. Il 27 settembre scorso, infatti, il capo della Procura ha «rimesso nella disponibilità del Corpo» gli indagati (a un passo dal proscioglimento), «essendo venuti meno i presupposti di fiducia e serenità che devono presiedere allo svolgimento delle funzioni demandate».
Il Sindacato nazionale finanzieri (Sinafi), nelle scorse ore, ha diramato un durissimo comunicato sulla vicenda, firmato dal segretario generale Alessandro Margiotta, ispettore di stanza a Bologna. Il titolo è decisamente polemico: «Da finanzieri stimati investigatori a ingiustamente indagati e sfiduciati il passo è breve». Nel testo Margiotta ricorda come i colleghi siano stati«improvvisamente destinatari prima di infruttuose indagini in relazione al loro lavoro e poi, addirittura, trasferiti presso reparti ordinari del Corpo perché sarebbero venuti meno i presupposti di fiducia e serenità». Quindi, sottolinea come i sei finanziari siano «stati totalmente scagionati da tutte le ipotesi investigative a loro carico».
La conclusione è amara: «Esprimiamo la nostra soddisfazione per l’esito delle indagini e la nostra solidarietà verso i colleghi ingiustamente coinvolti nella vicenda. Resta da capire chi e come restituirà loro la dignità e il rispetto che meritano, inevitabilmente intaccati dalle indagini cui sono stati sottoposti e dai provvedimenti di impiego di cui sono stati destinatari». Margiotta, con noi, rincara: «Ritengo surreale quanto accaduto ai sei finanzieri. Non sfugge come sia ormai sin troppo facile che uomini delle forze di polizia, quotidianamente al servizio delle istituzioni e a tutela dell’intera comunità pubblica, possano incappare in indagini di natura indiziaria. Ma non basta. Pur risultando poi totalmente estranei ai fatti ipotizzati, devono comunque patirne le conseguenze in termini di impiego e, chissà, anche di carriera». Infatti, per ora la squadra ha dovuto lasciare il vecchio posto di lavoro, per anni onorevolmente occupato. Non sono bastati mesi di indagini a trovare qualcosa da contestare al gruppo di investigatori.
Il paradosso è che il loro comandante, il generale Fabio Pisani, dall’estate scorsa in pensione, pur comparendo nel documento farlocco, non è mai stato indagato e con La Verità solleva molti dubbi sulla conduzione delle indagini.
«L’inchiesta? Posso avvalermi della facoltà di non rispondere? Se no dovrei dirle che è stata una mega stronzata», commenta mentre sta sgombrando la cantina nella sua casa colonica sulle colline di Zagarolo, dove si è ritirato come Cincinnato («Faccio il pensionato-agricoltore. Sono pronto per la semina primaverile»). Quindi inizia a ragionare: «Io ho la mia teoria sulla mancata iscrizione. Anche se le iscrizioni si possono sempre fare (ride, ndr): gli serviva un cavallo di Troia». Quindi Pisani sciorina una suggestiva metafora contadina: «Io mi sentivo come il coniglio, l’animale da cortile più sfigato. Quando viene preso in braccio, non sa mai il motivo: a volte succede perché è morbido e il contadino lo vuole accarezzare, a volte, invece, gli danno una botta in testa e lo fanno secco». Il discorso prosegue: «Le carte che servivano agli inquirenti erano tutte realizzate sotto la mia supervisione, quindi gli serviva uno non indagato per recuperarle». Il generale racconta di non aver fatto sconti ai magistrati: «Io parlo sempre con lingua dritta, quindi nelle poche occasioni in cui ho avuto modo di interloquire con loro, ho sempre chiesto perché non mi avessero inquisito. E sa cosa mi hanno risposto? “Noi abbiamo grande fiducia in lei perché sappiamo che è una persona onesta”. E io ho replicato: “Non è che mi state trattando come il coniglio?”. E loro di rimando: “Lei deve essere informato di questa indagine perché abbiamo bisogno di lei, che è una persona che conosciamo”. In effetti io l’aggiunto Paolo Ielo lo conosco dai tempi del pool di Milano».
Pisani si sente quasi un miracolato: «Alla fine mi sono salvato con un percorso netto. Ho toccato l’ostacolo, ma non è caduto. Sono andato in pensione senza mai essere iscritto sul registro degli indagati». Ha mai avuto perplessità sull’inchiesta romana? «Eccome. I miei dubbi ce li ho sempre avuti». Lei sapeva che c’erano le cimici negli uffici? «Necessariamente lo dovevo sapere, ecco perché mi hanno tenuto fuori. Se io non avessi collaborato con loro come avrebbero potuto piazzarle?». Non era una stranezza mettere le microspie in Procura? «Ma certo che lo era, soprattutto le ambientali audio e video, tanto che io l’ho pure rappresentato: “Guardate che così facendo, visto che noi trattiamo tutti i fascicoli della magistratura, voi verrete a conoscenza di atti di altri pm”». Le era capitato altre volte di assistere ad attività di questo tipo? «Sarò sincero: le cimici in Procura non le avevo mai viste». Ancora più singolare, in stanze frequentate anche dalle toghe… «Lo ripeto: era tutto anomalo, in particolare l’uso delle ambientali. Ho detto a chi conduceva le indagini: “Scusate, voi state perseguendo reati del 2018-2019, ma siamo nel 2024, a che cosa servono le intercettazioni? E, poi, chi può essere così idiota da consegnare a un delinquente come prova un documento con la propria firma o comunque a lui riconducibile? Che fa si mette in mano a un criminale che lo può ricattare ogni 5 minuti?”». Tutte obiezioni che non hanno fatto breccia negli inquirenti. Quando Pisani ha iniziato a mangiare la foglia? «Quando ho visto il presunto verbale delle indagini Ocp (servizio di Osservazione, pedinamento, controllo) e la richiesta che sarebbe stata inviata all’aggiunto Stefano Pesci, dove tra l’altro mancava il numero di protocollo. Noi scriviamo in Arial 12 o Times new roman, nel falso veniva usato un altro carattere. Inoltre può leggere tutti i nostri atti, da nessuna parte è indicato come oggetto la parola “richiesta”, come lì sopra, quindi per me era palesemente una patacca grossolana».
Non basta. «Ho obiettato: “Ma da quando in qua la polizia giudiziaria deve chiedere l’autorizzazione per fare i pedinamenti? Ma, soprattutto, perché ci deve essere una scadenza?”. E poi chiedo di effettuare questo tipo di servizio, lo faccio una sola volta e mi vendo pure la relazione?». Ma le obiezioni non sono terminate: «Ho chiesto: “Scusate, ma a che cosa servivano i pedinamenti se non avevamo i telefoni sotto intercettazione?” Noi le captazioni le avevamo chiuse sei mesi prima rispetto alla data della presunta osservazione… Se uno si incontra con un altro, a meno che non sia un investigatore che vede un latitante, che reato commette?». Le foto dei pedinamenti riportate nel documento contraffatto erano a colori… «E io ho evidenziato che noi le stampanti a colori non le avevamo. Quindi come avevamo fatto a realizzare quell’atto?».
A febbraio il generale era già stato assalito dai dubbi: «Ho contestato: “Le cose che ho visto mi sembrano assurde, per come sono scritte, per come sono fatte, per come sono impaginate”. Ma di fronte alle mie perplessità, la risposta era sempre la stessa: tu devi solo eseguire, in questo momento stai ancora di qua, vuoi passare di là? Era lo stesso rischio che corre chi sta sulla linea del fronte, no? Io non ero né carne, né pesce. Mi è stato pure detto: “Ma a te che ti frega, tu non sei indagato”». Un frase a cui l’ufficiale in pensione avrebbe ribattuto grosso modo così: «Ma io sono un comandante di uomini, questi sono i miei, io gli ho chiesto di sacrificarsi, di rischiare e adesso che devo fare? Ve li devo consegnare come le pecore al macello?».
A Pisani, anche se ufficialmente era co-delegato alle indagini, non è stato permesso di visionare gli atti dell’inchiesta: «Io non ho mai avuto nulla. Agli inquirenti serviva solo qualcuno che collaborasse per il posizionamento delle cimici, per sapere quali fossero le postazioni di lavoro degli indagati. E così io gli ho preparato una piantina dove ho indicato quali fossero le stanze dove stavano i militari. Quando hanno messo le microspie mi hanno detto che non era necessaria la mia presenza, per questo ho subito pensato che l’avessero messa pure a me e mi sono detto «”abbè, s’annoieranno”». Il generale sin dall’inizio non si capacita di come sia potuto finire escluso dalla lista degli indagati: «Avevano messo sotto inchiesta mezza sezione e io, che ero il capo della banda, venivo lasciato fuori… È come se chi si è occupato della Banda dalla Magliana non avesse indagato il Freddo. Ho pure pensato: “Ma perché me lo stanno a di’? Forse perché ho il telefono sotto e mo’ me vogliono incu…”».
La collaborazione di Pisani era a senso unico: «L’inchiesta era tutta anomala e per questo io ritenevo di fare la fine del coniglio. Per evitarlo, ho trasmesso tutto il fascicolo della vecchia inchiesta e ho siglato ogni singola pagina perché ho avuto il timore che qualcuno potesse mettere un foglietto in mezzo e poi dire “questo ce lo hai dato te”. Nella prima fase delle indagini, quella che io chiamo delle “pippe mentali”, è normale che si facciano controlli a 360 gradi e, persino, che tutti siano considerati colpevoli, però, dopo un po' uno capisce con chi ha a che fare e ci si rassegna…». Perché in questo caso gli inquirenti si sono rassegnati tanto tardi? «Io questo non lo so, lo dovrebbe chiedere ai diretti interessati. A cui, a un certo punto, ho detto: “O noi stiamo facendo lavorare sei criminali su pratiche delicate (uno di loro addirittura aveva visione di tutta una serie di fascicoli che riguardavano gli stupefacenti) oppure, se non lo sono, come io credo, voi state sparando nella schiena a gente che lavora per voi”. E ho aggiunto: “Questa cosa va chiusa evitando di fare gli avvisi di garanzia perché se voi li fate saranno pubblici e ci sarà uno sputtanamento generale che, al di là dei sei, in sé coinvolgerà necessariamente tutti gli altri”». Esattamente ciò che, purtroppo, è accaduto.