Fabio Pavesi
Nasce a Milano negli ultimi giorni utili prima dell'avvento dei gloriosi anni 60. Ha studiato Storia, voleva fare l'insegnante e poi quasi per caso ha scoperto che l'economia e la finanza narrano, loro, la Storia. Si è messo a studiarle e nel frattempo ha passato 26 anni a Il Sole24Ore spulciando bilanci e numeri. Pensa che ne sia valsa la pena. Oggi è freelance ma sempre di finanza si occupa
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L'ad Fornara ha venduto le azioni del gruppo Cairo Communication
Quando a vendere azioni di una società è il suo amministratore delegato non è mai un bel segnale. Anche se in precedenza si era acquistato. Nei giorni scorsi Uberto Fornara ha ceduto titolo della Cairo Communication di cui è amministratore delegato. Nelle comunicazioni obbligatorie di internal dealing sono segnalate cessioni, a piccole tranche, nelle sedute del 17 e 18 maggio scorsi per complessivi 102mila titoli dell’azienda quotata, per un incasso di circa 228 mila euro.
In sole due sedute di Borsa. La cifra in sé per uno degli uomini più vicini ad Urbano Cairo non è eclatante. E Fornara aveva comunque acquistato titoli di Cairo Communication nel corso dell’anno scorso per 160mila pezzi, a prezzi più bassi delle quotazioni cui ha venduto sui massimi del 2022. Piccolo trading quindi con qualche decina di migliaia di euro di plusvalenza. Niente che cambi drasticamente la vita di uno dei manager di punta della squadra fidata dell’imprenditore alessandrino che ha scalato Rcs.
Fornara l’anno scorso ha incassato complessivamente come remunerazione dal gruppo 1,22 milioni di euro e ha tuttora in portafoglio, anche dopo le cessioni di questi giorni, quasi 350 mila azioni Cairo Communicatios. Nessun segnale di crisi dunque tale da far vendere titoli.
IL PORTAFOGLIO DI CAIRO
Ma mentre l’amministratore delegato ha venduto, Urbano Cairo ha invece incrementato le sue posizioni. Nel 2021 ha acquistato altri 450mila titoli del gruppo portando la sua quota di controllo, detenuta attraverso la Ut Communications, a 69,64 milioni di azioni. Non solo; ha comprato anche titoli Rcs per quasi 3 milioni di pezzi portando a oltre 4,6 milioni i titoli della casa editrice del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, posseduti direttamente.
LE REMUNERAZIONI
Oltre all’investimento diretto in titoli il proprietario del gruppo nonché di Rcs vanta una remunerazione tra fisso e bonus nel gruppo di 3,29 milioni di euro per il 2021. Fornara, come detto, ha guadagnato, anche lui tra fisso e incentivi, 1,22 milioni. Mentre l’altro manager di punta di casa Cairo, Marco Pompignoli, ha portato a casa, sempre l’anno scorso, 1,48 milioni di euro. Il terzetto che guida le sorti del gruppo editoriale vale quindi solo di stipendi annui quasi 6 milioni di euro. Tanti? Pochi? Dipende.
Se raffrontati alle remunerazioni medie annue dei dipendenti del gruppo (61 mila euro di Ral) siamo a 100 volte i salari medi. Ovviamente in tre. Il solo Urbano Cairo vale poco più di 50 volte lo stipendio medio lordo di un suo dipendente. Un gap certamente elevato anche se in linea con il divario classico tra capo-azienda e singolo dipendente esistente nei i grandi gruppi quotati.
I RISULTATI ECONOMICI
Ma contano anche le capacità gestionali e i risultati aziendali e qui Cairo e i suoi uomini di comando mostrano sicuramente di saper creare ricchezza. Il gruppo che dal 2016 incorpora anche Rcs macina utili anno su anno. Nel 2021 a livello consolidato ha prodotto ricavi per 1,17 miliardi con un margine operativo lordo salito a 179 milioni dai 109 milioni del 2020. Un margine operativo netto a 103 milioni dai 30 milioni dell’anno prima e un utile netto triplicato a 51 milioni dai 16 milioni del 2020.
Non solo; il gruppo ha azzerato completamente il debito finanziario rilevando una posizione finanziaria netta positiva per 37 milioni a fine dello scorso anno. La parte del leone la fa ovviamente Rcs, che Cairo ha completamente risanato sul piano dell’imponente debito da mezzo miliardo che si ritrovò in capo quando rilevò il primo gruppo editoriale del Paese nell’agosto del 2016. Ma oltre alla situazione finanziaria, riportata in piena salute, Cairo ha fatto correre Rcs sul fronte dei ricavi e dei margini. Nel 2021 l’editrice di Corriere e Gazzetta ha prodotto ricavi per quasi 100 milioni in più rispetto al 2020 a quota 846 milioni. Ma è la marginalità il vero capolavoro di Cairo.
LA RISCOSSA DI RCS
Rilevata una Rcs in perdita pluri-milionaria da anni, ora il gruppo sforna un margine lordo al 17% dei ricavi e un utile di 72 milioni, oltre l’8% del fatturato. Numeri che era impossibile profetizzare quando Cairo conquistò Rcs ormai sei anni fa. Ma anche sull’editoria periodica, il primo business su cui si è esercitato come imprenditore per anni, Cairo continua a tenere botta, benché tale segmento in questa fase sia caratterizzato da perdite e chiusure di testate.
I PERIODICI
La sua prima creatura, la Cairo Editore, non ha mai chiuso in perdita nemmeno nel decennio più tragico della crisi dell’editoria e nel 2021 su ricavi per 88 milioni ha prodotto una marginalità lorda sopra il 10%. Anche l’editoria televisiva con La7 vede ricavi per 115 milioni con un margine lordo di oltre 15 milioni. Il peso degli ammortamenti, più incisivo che su altri business, porta il reddito operativo netto in perdita per 700 mila euro. Nel complesso il gruppo Cairo Communications con i suoi 51 milioni di profitti netti, pari a quasi il 5% dei ricavi, è a buon diritto l’editore più profittevole in un mercato devastato da ricavi in calo costante e perdite che si susseguono da anni. Le remunerazioni dei suoi uomini-guida sono certo elevate, ma conta anche la capacità di saper creare valore. E qui il successo è indubbio.
Chi è Edoardo Mercadante, salito al 5% di Unicredit con il fondo Parvus
Edoardo Mercadante con il suo fondo londinese Parvus ci riprova. Per la seconda volta, sempre su banche e in Italia. Dopo l’investimento in Ubi, dove era arrivato a detenere oltre l’8% e che ha finito per consegnare i titoli a metà del 2020 nell’Opa di Intesa sulla banca bergamasca-bresciana, ora eccolo spuntare quasi a sorpresa dal 6 maggio nell’azionariato di UniCredit, con una quota del 5,059% di Unicredit attraverso il fondo Parvus Asset Management.
Nei giorni precedenti la comunicazione alla Consob del 16 maggio, l’hedge fund si era già portato al 5,2%, anche grazie a un contratto di prestito titoli sullo 0,89% del capitale, partecipazione poi limata definitivamente al 5,059%. Di fatto Parvus con i suoi fondi diventa il secondo socio forte di UniCredit, la public company per eccellenza tra le banche italiane. E come nel caso di Ubi, dove aveva rastrellato titoli fino a divenire il secondo socio forte dopo Silchester, anche per UniCredit fioccano gli interrogativi.
GLI INTERROGATIVI
Chi è Mercadante? Si muove come un normale investitore alla ricerca di rendimenti o punta ad altro? C’è qualcuno dietro di lui? Domande che erano emerse con forza nel caso di Ubi, dove molti pensavano che dietro a Mercadante, finanziere franco-italiano, 55enne ex Merril Lynch e fondatore di Parvus asset management Ltd nel lontano 2004, ci fossero alcuni soci forti delle compagini bergamasca-bresciana che si erano opposti all’operazione di acquisizione della terza banca italiana da parte di Intesa.
Spuntarono esposti e anche un fascicolo presso la Procura di Milano. Finì tutto in una bolla di sapone. I soci forti, riottosi alla conquista di Ubi, consegnarono i titoli a Intesa e con loro anche la quota di oltre l’8% gestita da Parvus. Pensare a un possibile scalatore è pura fantafinanza. UniCredit per le dimensioni, oltre 21 miliardi di capitalizzazione, non è facilmente aggredibile.
La quota di Parvus vale poco più di 1 miliardo. Mercadante nelle scarne dichiarazioni rilasciate ai tempi di Ubi e ora di UniCredit sostiene di essere un fondo che opera su strategie long only e di individuare titoli che ritiene sottovalutati per portare a casa plusvalenze. Del resto la presenza di Parvus in UniCredit non data dai primi di maggio, quando dalle comunicazioni Consob diffuse l’altro ieri, è emersa la quota di poco più del 5% raggiunta il 6 maggio scorso.
Parvus era già nel capitale della banca di Piazza Gae Aulenti da anni. Nell’assemblea di UniCredit del dicembre 2017, con Mustier da poco alla guida della banca, Parvus compare con una quota piccola, di meno di 20 milioni di titoli della banca (poco meno dell’1%) posseduto da suoi due fondi, il Parvus euro Absolute opportunities e il Parvus euro opportunities master fund. Quote da puro investitore finanziario. Posizione che crescerà a piccole dosi. Nell’ultima assemblea a guida Orcel dell’8 aprile scorso la quota nei fondi Parvus raddoppia a 40 milioni di azioni, cui si aggiungono altri 10 milioni di titoli in capo a un altro fondo di Parvus, l’Armadillo fund, fondo della scuderia londinese di Mercadante ma domiciliato alle Cayman.
Quindi ancora ad aprile scorso Parvus nel complesso aveva racimolato 50 milioni di azioni UniCredit, una quota intorno al 2,5% e quindi ancora sottotraccia nelle comunicazioni al mercato. Poi evidentemente ecco lo strappo con gli acquisti del 6 maggio che hanno portato Mercadante a divenire il secondo socio forte di UniCredit rendendo visibile la sua posizione. Gli ultimi acquisti sono stati fatti con il titolo ai suoi minimi di poco più di 8 euro, dopo lo choc dell’esposizione di UniCredit in Russia che ha portato tra l’altro a una svalutazione di bilancio di oltre 1,3 miliardi nei conti del primo trimestre.
LA GALOPPATA
Evidentemente Mercadante confida che la cura di Andrea Orcel, pulito il bilancio dalle scorie russe, possa dare slancio al titolo. In effetti UniCredit dopo la galoppata pre-guerra che aveva portato il titolo a quota 15 euro, ha subito più di altri il contraccolpo della guerra in Ucraina. Ma l’avvio proprio oggi dell’atteso buy back da 1,6 miliardi, la politica dei dividendi da 16 miliardi nei prossimi 4 anni promessi da Orcel e il recupero dei ricavi messi già a segno dal banchiere romano nel primo anno alla guida di UniCredit, fanno sperare in un re-rating del titolo. Per ora però la posizione costruita da Parvus nel tempo è ancora in rosso, vista la caduta del titolo UniCredit di oltre il 40% negli ultimi 5 anni.
È plausibile che i primi pacchetti acquisiti già prima del 2017 siano in carico a prezzi ben più alti degli attuali corsi di Borsa. Già ma come opera in genere Parvus? Di solito costruisce le sue posizioni con derivati, tramite equity swap che gli danno posizioni lunghe sui titoli. L’ha fatto con Ubi ad esempio. In Ubi la sua scommessa l’ha vinta sicuramente regalando ai suoi investitori una sonora plusvalenza.
Per UniCredit occorrerà aspettare per rivedere il titolo ai livelli pre-guerra. Dati su performance, risultati, masse in gestione sono difficili da reperire. Per Parvus, come per tutti gli hedge fund, i rendiconti sono forniti solo ai clienti. Secondo la ricostruzione di alcuni siti finanziari inglesi Parvus sarebbe accreditata di 4,5 miliardi di sterline di masse gestite tra i suoi fondi.
HEDGE FUND
La sede londinese è in 7 Clifford Street, dove Mercadante condivide l’indirizzo con un altro gestore di hedge fund, ben conosciuto nel mondo della finanza Oltremanica. Quel Chris Hohn fondatore tra le altre cose del The Children Investment fund e noto per le sue iniziative caritatevoli. Una passione che condivide con Mercadante che compare come Trustee nella CrEdo Foundation, un ente benefico attivo sulle povertà in genere. L’ultimo rendiconto consultabile del 2019 ha visto donazioni per 93mila sterline, di cui 86mila devolute in iniziative benefiche.
L’anno prima le donazioni furono di 106mila sterline. Spesi in beneficienza solo 53 mila con un utile di importo analogo. Mercadante con i suoi fondi è particolarmente attivo nei paesi nordici e anglosassoni. Ha battagliato come investitore attivista sul titolo delle scommesse sportive William Hill e si è opposto come azionista di G4s con il 3,7% alla conquista della danese Iss. La stampa irlandese di recente l’ha accreditato come azionista con meno del 3% della compagnia aerea Ryanair. Anche in questo caso evidentemente Mercadante si attende un ritorno alla piena redditività della compagnia aerea dopo gli sconquassi del Covid, che ridarebbe forza in Borsa al titolo.
Quanto alla sua società di gestione che annovera una dozzina di fondi pare che le cose non vadano affatto male. Secondo la banca dati di S&P Global Market Intelligence, la sua Parvest Asset Management Europe Ltd avrebbe avuto ricavi nel 2020 per 86 milioni di sterline con utili netti per 47 milioni. Negli ultimi 6 anni ha incrementato di tre volte i ricavi da commissioni di gestione con un utile passato da 18 milioni del 2015 ai 47 milioni del 2020.
Trevi tratta con le banche per ristrutturare ancora il debito
Quella ciambella di salvataggio, lanciata dallo Stato via Cdp anni fa alla Trevi sta costando sempre più cara. La società cesenate, specializzata in ingegneria del sottosuolo, continua a navigare in acque perigliose da quando Cdp è entrata nel capitale nel lontano 2014.
Giorni fa la società ha dovuto annunciare il rinvio della pubblicazione del bilancio del 2021. Di solito non è quasi mai una buona notizia. In ballo ci sono le rinegoziazioni con le banche, divenute azioniste con oltre il 30% delle quote dopo le conversioni dei crediti in capitale. È scaduto infatti a inizio dell’anno l’accordo di moratoria e standstill con gli istituti di credito sottoscritto nell’estate del 2021.
E il gruppo ingegneristico, posseduto al 25% da Cdp e al 6,7% da Sace, sta provando a tutt’oggi a negoziare i termini di una nuova manovra finanziaria e di un rafforzamento patrimoniale con le banche. Si tratta di un nuovo giro di ristrutturazione, dopo il primo accordo con i finanziatori che data dal lontano 2019.
A oggi ancora non si sa se si troverà un’intesa che, nella prima versione dello scorso dicembre, prevedeva un aumento di capitale da 20 milioni; un ulteriore conversione di crediti in azioni da parte del pool di banche e un riscadenzamento del debito complessivo. Evidentemente la situazione continua a essere compromessa. Del resto basta vedere i numeri dell’indebitamento finanziario netto che ogni mese Trevi deve comunicare alla Consob, dato che figura nella lista nera delle società sotto stretta sorveglianza dell’Authority.
L’ultima fotografia è di fine marzo del 2022 e vede complessivamente un livello di indebitamento finanziario netto dell’intero Gruppo per 263 milioni di euro. Di cui a breve per ben 193 milioni. Tra l’altro a marzo risultavano scaduti debiti per un totale di 58 milioni, 20 finanziari e 38 commerciali. Subito dopo il primo accordo con le banche, a inizio del 2021 Trevi già non aveva rispettato il covenant sul rapporto tra mol e indebitamento.
Da qui la necessità di nuove rinegoziazioni che si trascinano da tempo. Anche il piano industriale ha dovuto essere rivisto, dimezzando di fatto la crescita annua dei ricavi attesa. E così il rinvio dell’approvazione dei conti la dice lunga sulla criticità della situazione. L’ultimo bilancio è quello lontano della semestrale del 2021 che vedeva una perdita per 29 milioni a fronte di ricavi per 216 milioni con un margine operativo lordo a 20 milioni. Non fa testo il bilancio precedente, chiuso con un utile di 250 milioni, frutto della plusvalenza dalla vendita della divisione Oil & gas, uno dei pilastri dell’accordo di ristrutturazione che ha visto l’azienda dimagrire cedendo asset. Sia i ricavi che il Mol erano in forte calo già a giugno del 2021 e si suppone che la seconda parte dell’anno sia stata ancora debole.
E così il peso di ben 263 milioni di debiti finanziari continua a pesare come un macigno sulla capacità dell’azienda (per anni proprietà della famiglia Trevisani) di andare avanti senza il sostegno di banche e Cassa depositi. Che ha visto il suo investimento complessivo di 140 milioni (101 milioni all’atto dell’ingresso nel 2014 e altri 39 milioni sotto forma di aumento di capitale nel 2020) andare di fatto bruciato. Oggi con il titolo che vale in Borsa solo 93 milioni, il 25% in capo a Cdp è valorizzato meno di 24 milioni. Un passivo per la Cassa di oltre 110 milioni per il salvataggio di Trevi. Un salvataggio non ancora andato in porto.