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Buoni pasto. «Grano a chi vigila sulla grana!» L'ultima guerra dei dirigenti di Bankitalia
I dirigenti di Bankitalia chiedono buoni pasto spendibili anche all'estero
La lettera è arrivata nelle mani del presidente del Cida (il sindacato dei dirigenti della Banca d'Italia) Edoardo Schwarzenberg, nella prima settimana di maggio. A firmarla per delega del direttore generale è stato Luigi Managò, caposervizio logistica della banca centrale italiana.
Ed è venuto il segnale atteso: l'istituto guidato da Ignazio Visco si farà in quattro per venire incontro al dramma che stavano vivendo i dirigenti Bankitalia: da tempo stavano lavorando da remoto, magari cogliendo l'occasione per farlo dalla seconda casa al mare o in montagna. Ma lì non sempre erano utilizzabili i buoni pasto contrattualmente dovuti perché spendibili solo nella Regione di residenza.
I dirigenti avevano esigenze anche più larghe, visto che nella lettera inviata ai vertici dal presidente del Cida il 22 febbraio scorso si premetteva che «l’accordo sul lavoro ibrido prevede la corresponsione del buono pasto per ciascuno dei giorni nei quali la prestazione lavorativa è resa da remoto, modalità questa che- come noto- non prescrive che il dipendente operi da un luogo specifico, potendo addirittura lavorare dall'estero».
Come non averci pensato prima che uno di questo top manager di Bankitalia magari la casa al mare ce l'aveva a Saint-Tropez e quella in montagna a Sankt Moritz, e in nessuno dei due casi avrebbero mai accettato i buoni pasto forniti attraverso un regolare appalto della Consip?
Sono problemi, e bisogna applicarsi senza dubbio per arrivare a una soluzione: mica si può fare mancare il grano così all'improvviso a chi deve vigilare sulla grana di tutti gli italiani. Non c'è proprio riconoscenza. Però i dirigenti della banca hanno teso una mano comprendendo le difficoltà in questo momento di reperire buoni pasto internazionalmente validi. Pace per Saint-Tropez, ma almeno si capisca l'incoerenza del fatto «che i buoni pasto in erogazione siano ancora limitati nell'utilizzo alla regione (o all'area territoriale) nella quale il dipendente è incardinato, dovendosi invece necessariamente prevedere la possibilità di utilizzo in tutto il territorio nazionale».
Vogliamo farli usare anche nella masseria in Puglia, nelle vicinanze della villetta sul Monte Argentario o a Cortina indipendentemente dalla stagione? I collaboratori di Visco hanno preso un po’ di tempo per rispondere e altro ce ne vorrà per esaudire in pratica, ma alla fine i benedetti buoni pasto spendibili nella casa vacanze arriveranno, sia pure cercando di fare il meno danno possibile alle casse di Bankitalia: «È stata condotta una analisi delle criticità segnalate», scrive infatti Managò, aggiungendo che «gli esiti di tale analisi sono in corso di approfondimento con le strutture interessate, anche per valutare i conseguenti aggravi operativi connessi con l'adozione di nuove modalità di distribuzione dei buoni».
Dietro questa corrispondenza, che mai potreste rintracciare nel settore privato dove i dirigenti si vergognerebbero pure di chiedere i buoni pasto alla loro azienda, c’è in realtà un braccio di ferro che dura ormai da due anni fra i vertici della banca centrale e quasi tutti i sindacati dei dipendenti. Perché questi ultimi dopo avere storto il naso sullo smart working (e ottenuto primi in Italia un bonus da 100 euro per quel motivo), se ne sono poi innamorati e ogni volta insorgono quando la banca chiede il rientro in presenza. In teoria dal primo aprile scorso avrebbero dovuto tutti rientrare in sede, abbandonando quelle “sedute ergonomiche” che avevano ottenuto per stare a casa dalla banca e che ancora si lamentava non fossero arrivate a tutti.
Ma alla fine la banca ha ceduto alle richieste sindacali immaginando un piano di smart working al di là delle emergenze con presenza in ufficio ridotta. È stato ribattezzato «lavoro ibrido» in un accordo sindacale del dicembre scorso e prevede che solo una piccola percentuale lavori in presenza che per tutti gli altri sarà alternata a un «lavoro da remoto diffuso e ampio». C’è però una condizione posta sia pure in via sperimentale dai vertici Bankitalia: chi lavora in presenza ha diritto al suo ufficio in genere singolo, con la sua scrivania, la sua cassettiera, il suo piccolo armadio dove conservare i documenti oltre a tutte le attrezzature informatiche previste.
Chi invece lavorerà essenzialmente a casa dovrà di volta in volta per il rientro in ufficio prenotare la sua postazione lavoro. Niente scrivania personale, niente armadietto, niente cassettiera. Però ambienti avveniristici (ci sono anche alcuni disegni in bozzetto con poltroncine per una chiacchiera protette da un cactus fonoassorbente, tavoli dove lavorare con il proprio pc e consumare anche un pasto veloce) per rendere piacevole quel tuffo in ufficio, prenotando di volta in volta postazioni di tutto attrezzate meno di una cosa: il personal computer.
Quello, assegnato a ogni dipendente, dovrebbe essere utilizzato sia a casa che in ufficio con il piccolo disagio di doverselo portare nel tragitto magari a spalle in uno zainetto. Cosa che è diventata un dramma. Per capirlo basta citare passaggi dei comunicati sindacali piovuti sull'argomento. Eccone uno del Sibc che profetizza per questo viaggio con pc casa-ufficio addirittura l'aggravio di «sedute fisioterapiche» per i poveri dipendenti chiedendo un intervento dei medici competenti della Banca di Italia: «A parte i profili di sicurezza connessi con il trasporto pubblico, infatti qualcuno ha mai effettuato una analisi sugli effetti a medio e lungo termine del trasporto di un computer di quasi due chili per magari due ore al giorno?
Se sì, ci piacerebbe poterne leggere i contenuti. Se no, come viene giustificata questa dimenticanza?». La Uil Bankitalia ammette che «il pc non pesa come lo zaino del soldato», ma aggiunge: «Ricordiamo però che non è del tutto peregrina l'ipotesi di essere rapinati o derubati durante i tragitti casa-lavoro-casa, con un aumento esponenziale del rischio al moltiplicarsi dei viaggi...».
Drammoni, quelli del buono-pasto-vacanza del pc che pesa sulle spalle di 6.629 dipendenti - di cui 3.532 in area manageriale e alte professionalità - in cerca di autore e di funzione, viste che le più importanti sono state perdute negli anni e trasferite alla Bce. Ma non sembra essere questa la loro preoccupazione.
«Il Bitcoin può arrivare anche a 20 mila dollari. Il caso-Terra è una lezione per le criptovalute»
Per Debach, analista di eToro, Bitcoin potrebbe scendere fino a 20 mila dollari
I giorni di passione più intensi delle criptovalute sembrano essere terminati. Assorbito lo choc del collasso di TerraUSD e Luna, il mercato si sta riassestando senza sapere come la rumorosa scomparsa della stablecoin impatterà sull’attrattività del mercato.
In Italia, in particolare, i numeri erano in ascesa soprattutto tra i più giovani. «Essendo che il cliente retail si basa su entusiasmo e paura, mi aspetto che l’interesse per un periodo vada a scemare – spiega Gabriel Debach, italian market analyst di eToro intervistato da Verità&Affari – Come risponderà sul lungo periodo è la vera prova del 9».
Il momento per le criptovalute, però, era delicato anche prima di settimana scorsa.
«I fattori che incidono sono molteplici: dall’alta inflazione che fa tentennare gli investitori all’aggressività della Fed e alla mancanza di fiducia generalizzata. Le difficoltà stanno influenzando anche il mercato del mondo reale, non solo delle criptovalute, che non possono trascendere dalla situazione economica. In questo momento, le cripto sono gravate da una reazione eccessiva a un evento che ha riguardato una blockchain. Il collasso di TerraUSD e Luna non dovrebbe avere conseguenze dirette su altre criptovalute come il Bitcoin, se non una reazione di timore. È interessante il fatto che negli ultimi mesi sempre più soggetti, da Stati a compagnie aeree, stiano riconoscendo le criptovalute: si tratta di una certificazione del mondo delle valute virtuali».
Nell’ultimo periodo ha sofferto anche il Nasdaq, con un andamento molto simile a quello di Bitcoin. Condividono gli investitori?
«La correlazione tra Nasdaq e Bitcoin è sui massimi storici: 0,91 negli ultimi 30 giorni. È decisamente possibile che in questo momento ci siano gli stessi investitori, su scale di rischio e investimento diverse. In parte può essere un aspetto negativo, perché prima investire in Bitcoin offriva un’opportunità di diversificare rispetto al Nasdaq. Con una stretta correlazione cresce anche la necessità di intervenire per fare delle correzioni».
Bitcoin è tornato intorno ai 30 mila dollari, valore più basso dal luglio dell’anno scorso. È il suo plateau o ritiene possibile che la discesa continui ancora?
«Bitcoin, per sua natura, vive di momenti di crescita e di correzioni dei massimi raggiunti per lunghi periodi. Se guardiamo il suo andamento vediamo che è in un momento di correzione dal picco di novembre (69 mila dollari, ndr) da circa 180 giorni. Una correzione del 63% del valore che non rappresenta la discesa peggiore dalla sua storia: da dicembre 2017 a dicembre 2018 Bitcoin ha perso circa l’84%. Il rimbalzo di questi giorni è un bel segnale, ma non è detto che abbiamo toccato il fondo: potrebbe scendere anche intorno ai 20 mila dollari. L’alta volatilità del Bitcoin, nel bene e nel male, è il motivo per cui genera anche così tanto interesse».
Il collasso di Terra-Luna è il caso della settimana. Può spiegarci cos’è successo? Ritiene possibile che lo strumento “resusciti”?
«Partiamo dalla seconda: è difficile pensare che possa rinascere per una questione di fiducia nello strumento che ha un precedente così pesante alle spalle. Fare una ricostruzione dell’accaduto con precisione è difficile per il momento perché ci sono ancora molti elementi confusi. Quello che è certo è che c’è stato un attacco finanziario che ha generato le prime scosse. Da qui è partita una “corsa agli sportelli” simile a quella che hanno subito anche realtà della finanza tradizionale che ha fatto collassare l’intero sistema. Terra, basandosi su un algoritmo e sostenendosi con uno strumento volatile per natura come una criptovaluta, non ha retto».
Anche Tether ha tremato, ma nonostante l’oscillazione ha retto. È un segnale che le stablecoin possano effettivamente fare da architravi del sistema delle criptovalute?
«Sarà sicuramente una sfida da qui in avanti. La caduta di Terra potrebbe creare anticorpi nel mercato, farlo imparare dagli errori e correggere le falle evidenziate dal caso-Terra. Il Peg è difficile da mantenere anche per una banca centrale. Tether è stato avvantaggiato dal fatto di essere legato comunque a un valore reale. Non si tratta della prima oscillazione importante che subiscono le stablecoin. Tether, per esempio, nel 2017, aveva toccato i 92 centesimi. Penso che scosse “di assestamento” ce ne saranno ancora: sarà uno stress test per il mercato».
Il clamore suscitato dal caso-Terra ha fatto sollevare il tema di una possibile stretta della regolamentazione per dare più garanzie agli investitori. Pensa che arriverà? E nel caso, c’è il rischio di snaturare il mercato delle criptovalute?
«L’attenzione in questo momento è alta. Qualcuno ha definito Terra la Lehman Brothers delle criptovalute, il che è ironico considerato che Bitcoin è nato anche in risposta alla delusione creata dalla finanza tradizionale nel 2008. Io immagino che una restrizione arriverà visto che l’Europa sembrava già orientata in tal senso, mentre il caso Terra, negli Usa, è arrivato proprio nel momento in cui si stavano raccogliendo informazioni per prendere una decisione sulle criptovalute. Bisognerà trovare un compromesso tra gli interessi e la natura delle criptovalute, pensate per dare anche alti guadagni assumendosi rischi, e le necessità di una regolamentazione».
BioNTech ha triplicato ricavi e utile grazie ai vaccini
Il 2022 si apre con conti da sogno per BioNTech, l’azienda tedesca che insieme a Pfizer ha sviluppato il vaccino contro il Covid più diffuso al mondo. Il colosso di biotecnologia e biofarmaceutica ha più che triplicato ricavi e utili nei primi tre mesi del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
I ricavi totali sono passati da 2,048 miliardi di euro nel 2021 ai 6,374 miliardi di euro di ora, mentre l’utile netto è lievitato da 1,128 miliardi di euro a 3,699 miliardi di euro. L’utile per azione, quindi, è passato da 4,29 euro nel 2021 a 14,24 euro quest’anno. A far volare le prestazioni economiche di BioNTech sono stati, ovviamente, i vaccini e, in particolare, i grandi ordini arrivati sul finire del 2021.
IL FATTORE OMICRON
A incidere fortemente sulle partite di vaccini richieste nel mondo sono state le nuove ondate di contagi causate dal diffondersi di Omicron. L’arrivo di una variante in grado di aggirare la protezione delle due dosi ha spinto i governi a programmare una dose booster per i cittadini sul finire del 2021.
«Riteniamo che l'implementazione globale del nostro vaccino abbia probabilmente salvato milioni di vite e abbia avuto un impatto significativo sull'umanità – ha dichiarato Jens Holstein, cfo di BioNTech –. Come risultato di un aumento del volume degli ordini inizialmente piazzati alla fine del 2021 in seguito all'allora emergente variante Omicron, abbiamo iniziato l'anno 2022 con forti ricavi e utili, lasciandoci ben posizionati per raggiungere le linee guida finanziarie per il 2022 che abbiamo emesso alcuni mesi fa».
La performance finanziaria più che positiva per BioNTech, ha continuato Holstein, «ci aiuta anche a investire molto in ricerca e sviluppo negli anni a venire, alimentando il potenziale per guidare le future ondate di innovazione e crescita».
LE PREVISIONI PER IL 2022
Nel primo trimestre del 2022 BioNTech ha fatturato 750 milioni di dosi e ha firmato ordini per circa 2,4 miliardi di dosi da consegnare entro la fine dell’anno. Un numero inferiore rispetto al totale prodotto e fornito agli stati nel corso del 2021 (2,6 miliardi di dosi). Dai vaccini, quindi, l’azienda tedesca prevede di incassare dai 13 ai 17 miliardi di euro. Una previsione, anche in questo caso, al ribasso rispetto a quanto aveva incassato nel 2021: 19 miliardi di euro.
Non è un caso isolato. Anche Pfizer, azienda partner di BioNTech nella produzione dei vaccini, nelle sue previsioni per l’anno rilasciate settimana scorsa, ha considerato solo gli ordini già stipulati prevedendo per il 2022 entrate inferiori rispetto a quelle del 2021: 32 miliardi di dollari contro i 36,8 incassati l’anno scorso.
Chi invece scommette su una nuova ondata di richieste con l’arrivo dell’autunno è Moderna, che prevede vendite maggiori nella seconda metà dell’anno rispetto ai primi sei mesi.
QUARTA DOSE?
È chiaro, infatti, che a incidere sull’andamento dei conti delle big dei vaccini dipenderà l’andamento della pandemia, l’eventuale arrivo di nuove varianti in grado di superare la protezione del vaccino e, soprattutto, le scelte dei governi per un’eventuale quarta dose. In Italia, per fare un esempio, il secondo richiamo è previsto solo per over 80, per chi ha tra i 60 e i 79 anni e sia inserito nelle categorie a rischio e per fragili e immunodepressi. È chiaro che se venisse presa la decisione di allargare le platee di persone da sottoporre a una nuova vaccinazione, anche i guadagni delle case produttrici salirebbero.
VACCINO CONTRO OMICRON
BioNTech, intanto, è al lavoro con Pfizer per rilasciare una versione aggiornata del vaccino in modo che sia più efficace contro la variante Omicron, ormai dominante in tutto il mondo. «BioNTech e Pfizer stanno valutando i vaccini Covid-19», si legge nel comunicato sul sito dell’azienda tedesca, «tra cui un candidato adattato per Omicron e vaccini bivalenti diretti contro l'Omicron e altri ceppi di Sars-Cov-2».
Gli studi che le due aziende stanno portando avanti si pongono l’obiettivo di «fornire un'ampia protezione contro le varianti emergenti».