Da quando ha vinto le elezioni, pare che Giorgia Meloni non riesca a dormire la notte. Non so se sia vero, anche perché mi risulta che dal 25 settembre sia sostanzialmente in silenzio stampa e dunque faccio fatica a comprendere come i giornali possano pubblicare ogni giorno delle sue dichiarazioni tra virgolette. Tuttavia, a prescindere dalle notti insonni vere o inventate, se la leader di Fratelli d’Italia non riuscisse a prendere sonno la capirei: con il carico che si è presa sbancando le urne, anche a me le preoccupazioni non darebbero tregua. Anzi: al solo pensiero di varcare la soglia di Palazzo Chigi e di insediarmi sulla poltrona di presidente del Consiglio mi verrebbe la tremarella. E non soltanto perché passare dall’opposizione al governo comporta delle responsabilità, ma anche perché quel che le viene lasciato in eredità è tutt’altro che a posto.
Lo si è capito l’altro giorno, quando a costo di indispettire Mario Draghi, con il quale nei mesi passati ha costruito un rapporto di reciproca stima, si è fatta sfuggire che i ritardi nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono evidenti e difficilmente recuperabili. Al premier uscente, ovviamente la frase non è piaciuta e non ha mancato di farlo sapere. Tuttavia, quando dice che la situazione è preoccupante, Giorgia Meloni non sbaglia. Per capirlo è sufficiente dare un’occhiata alla Nadef, ossia alla Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza disposta da Daniele Franco, ministro alter ego dell’ex governatore della Bce. Nel rapporto presentato alle Camere, il governo Draghi ha stimato che entro la fine di quest’anno l’Italia spenderà 20,5 miliardi di euro dei quasi 46 ricevuti dalla Ue per finanziare i progetti del Pnrr, vale a dire 13 miliardi in meno di quelli che lo stesso esecutivo ad aprile prevedeva di spendere e 21 miliardi di meno rispetto alla tabella di marcia. «Detta altrimenti», scrive «Pagella politica», sito indipendente di fact-checking, «dopo il secondo anno di vita del Pnrr, la spesa effettiva delle risorse ricevute si ferma sotto al 50 per cento rispetto alle previsioni iniziali». Giorgia Meloni ha detto che non sono certo colpa di chi non solo non si è ancora insediato, ma neppure ha ancora ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo. E questo è ovvio, come è ovvio che già ora c’è chi prova ad addossare la responsabilità di una possibile contestazione da parte dell’Europa all’esecutivo che non c’è.
Ma a essere lasciati in eredità non sono solo i ritardi nell’applicazione del Pnrr, bensì anche le mancate decisioni per frenare l’aumento delle bollette e per mettere in sicurezza le forniture energetiche. Il governo ne parla da mesi, per l’esattezza da prima dell’estate. Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, ha più volte assicurato che l’Italia non avrebbe avuto problemi e Mario Draghi si è impegnato a convincere la Ue a porre un tetto al prezzo del gas. Arrivati all’autunno si può dire che né il primo né il secondo hanno centrato l’obiettivo. Gli stoccaggi di metano, infatti, non ci consentono di guardare con serenità all’inverno e a dirlo non è stata la leader di Fratelli d’Italia, ma Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, uno dei pochi che abbia titolo per parlare dell’argomento. Quanto al price cap che avrebbe dovuto consentirci di riportare alla normalità le bollette, con la Ue siamo ancora nel mondo dei sogni, ma se si legge l’intervista che Davide Tabarelli ha concesso a Luca Telese per Tpi, si capisce che sognare è inutile. Dice il presidente di Nomisma Energia: «Dato che non si può imporre un tetto, l’unica via possibile è quella del sostegno diretto del governo a imprese e famiglie». Chiaro no? Per mesi l’esecutivo ha cincischiato inseguendo una soluzione impossibile e adesso che se ne va lascia la patata bollente nel pieno dell’autunno a chi subentra. E quando in inverno mancheranno il 10 per cento della fornitura di metano o la corrente, con chi credete che se la prenderanno gli italiani? Con Draghi e Cingolani che non ci saranno più o con chi avrà preso il loro posto? La risposta la sapete da soli. Infine, ci sono altre due buone ragioni per non essere tranquilli. La prima è costituita dalla cena riservata tra Emmanuel Macron e Olaf Scholz, quella per intenderci con il maglioncino presidenziale e la «sobrietà energetica». Nei mesi scorsi ci era stato dato a bere con il patto del Quirinale un asse fra Francia e Italia, ma di recente, con il taglio delle forniture elettriche da parte della Francia, si è capito che l’unico asse in vigore è quello che corre da Parigi a Berlino e per noi non promette nulla di buono. Soprattutto se - ed ecco la seconda ragione che ci fa rimanere sulle spine - Christine Lagarde, la donna che è subentrata a Draghi al vertice della Bce, rallenta gli acquisti dei titoli di debito pubblico e dunque dell’Italia. Questo vuol dire che nel momento di massima necessità, il nuovo esecutivo, quello che tanto non piace alle cancellerie europee, potrebbe trovarsi a corto di liquidità.
Mi pare che basti per capire che i guai per Giorgia Meloni non riguardano la composizione della squadra di governo, come ci vogliono far credere i giornaloni, ma ciò che le viene lasciato in eredità. Io, come lei, non chiuderei occhio.