Il telescopio spaziale James Webb (Jwst) è un oggetto del valore di dieci miliardi di dollari che nonostante il costo non è affatto immune da malfunzionamenti e guasti. Ma come molti altri marchingegni che inviamo nello spazio, se ha un problema deve anche saperlo risolvere senza che l’uomo possa intervenire fisicamente.
Più è complesso un dispositivo, maggiore è la probabilità che si guasti. Questa è una delle dure leggi della tecnologia. Ce ne sono molte altre, spesso coniate da tecnici e ingegneri, e una in particolare trova nella realtà quotidiana la sua realtà: «mai far capire a un congegno meccanico (o elettronico) che hai fretta». La prova è anche in uno degli strumenti più costosi mai creati dall’uomo, il telescopio spaziale James Webb (Jwst), un oggetto del valore di dieci miliardi di dollari che nonostante il costo non è affatto immune da malfunzionamenti e guasti. Ma che come molti altri oggetti che inviamo nello spazio, se ha un problema deve anche saperlo risolvere senza che l’uomo possa intervenire fisicamente. Come è accaduto nell’agosto scorso a un componente posizionato all'interno dello strumento a infrarossi (Miri), che aveva iniziato a deteriorarsi.
A novembre gli ingegneri avevano identificato la causa del problema iniziando a sviluppare un nuovo modo per usarlo, inviando a Webb soltanto delle modifiche software. Inoltre, a dicembre, il telescopio subì un malfunzionamento per due settimane passando in modalità provvisoria e interrompendo le osservazioni scientifiche. Gli ingegneri avevano immediatamente identificato il problema: era stato un guasto del software presente nel sistema di controllo dell'orientamento degli obiettivi di bordo. Secondo una dichiarazione della Nasa, l'osservatorio era comunque tornato al normale funzionamento il 20 dicembre. Ancora, il 15 gennaio scorso si è verificato un ritardo di comunicazione del sistema Niriss, ovvero ciò che permette al James Webb di «vedere» determinate frequenze, con una conseguente paralisi del software che lo gestisce e il ritardo nell’inizio di talune osservazioni. Anche in questo caso la problematica è stata risolta e il 30 gennaio il telescopio è tornato in piena efficienza. Ma se nessuno lo raggiunge per ripararlo, come è possibile che torni a funzionare? La risposta sta sia nella presenza di sistemi ridondanti e di auto-diagnosi, sia nella capacità del «cervello» dell’osservatorio di gestire quelle che in gergo si chiamano «silent failure» (avaria silente), sia mediante la logica di controllo dei molteplici sotto-sistemi, sia inviando pacchetti software, ma anche nel funzionamento del modello di apprendimento automatico noto come Morpheus creato dai ricercatori per valutare le immagini riprese, identificare oggetti sullo sfondo del cosmo, valutare se si tratta o meno di galassie e, in tal caso, di che tipo siano. In parole semplici Morpheus consente la classificazione delle immagini cosmologiche sulla base del tipo di pixel che si sviluppano dalle immagini. Morpheus, a sua volta, è stato addestrato sul supercomputer Lux situato presso l’università di Santa Cruz, un cervellone che per i lettori amanti dell’informatica è un sogno: si tratta di un elaboratore dotato di 80 centri di calcolo soltanto per la Cpu (unità centrale), ciascuno contenente due processori Intel Cascade Lake Xeon A 20 insieme a 28 altre Cpu e due unità di elaborazione grafica Nvidia V100 ciascuno.
Secondo Brant Robertson, professore di astrofisica dell’ateneo di Santa Cruz e uno dei principali ricercatori che hanno consentito di creare Morpheus, il James Webb Space Telescope ci permette effettivamente di vedere l'universo come mai l’abbiamo visto prima. E di reinterpretare quanto scopriamo. E chiedendoci come sia nato questo strumento eccezionale, possiamo rispondere dicendo che il sussidiario sul quale ha studiato il super computer di Webb prima del lancio è stato scritto con 7.600 fotografie catturate dal telescopio spaziale Hubble della Nasa dal 1991 fino a poco prima di quando Webb è stato preparato per il lancio. E mentre lui già lavora, in California si preparano le nuove funzioni intelligenti come il «Deblending», ovvero la possibilità di distinguere gli oggetti astronomici che sembrano essere tra loro sovrapposti.