Al pettine i primi nodi della gestione Covid. L’ex premier e l’ex titolare della Salute saranno interrogati dal Tribunale dei ministri a Brescia il 10 maggio. Molte le risposte da dare, a partire dal mancato aggiornamento e dalla mancata adozione del piano pandemico. Stop alle mascherine. Restano obbligatorie solo in pronto soccorso, reparto infettivi e Rsa.
Quando,il primo marzo, si era appreso che i pm di Bergamo, Maria Cristina Rota, Silvia Marchina e Paolo Mandurino, coordinati dal procuratore Antonio Chiappani, erano intenzionati a metterlo alla sbarra, Giuseppi si era dichiarato «pronto a collaborare e tranquillo di fronte ai cittadini». Le toghe avanzano contestazioni gravi: «La diffusione del virus», sostengono, «fu sottovalutata», nei primi mesi del 2020, «nonostante i dati a disposizione da settimane indicassero che la situazione stava precipitando, in particolare in Val Seriana». Ed è dalle mancate zone rosse della Bergamasca che muove l’accusa, dopo essersi avvalsa della consulenza di Andrea Crisanti. Arruolato nel Pd, gratificato con un seggio in Senato, il prof ha però contribuito a inguaiare proprio il compagno Speranza. Dalla sua relazione, è venuto fuori che agire con più tempestività avrebbe potuto salvare 4.000 vite.
L’avvocato del popolo e il leader comunista sono protagonisti di diversi pasticci. In primis, appunto, le chiusure dei paesi investiti dai focolai: quelli del Lodigiano vennero blindati, Alzano e Nembro no, sebbene le forze dell’ordine si fossero acquartierate per due giorni nell’area, in attesa della disposizione di sbarrarla, che non arrivò mai.
Poi, ci sono i decessi nelle Rsa della Val Seriana e il caso dell’ospedale di Alzano, prima chiuso e poi riaperto. Ciò spiega perché siano stati chiamati in causa anche i vertici della Regione Lombardia, dal presidente Attilio Fontana all’ex assessore al Welfare, Giulio Gallera. È durato a lungo il rimpallo di responsabilità tra Pirellone e governo: chi poteva e doveva decidere sul lockdown nelle zone infette?
È il quarto punto, però, quello dirimente, quello che più da vicino tocca Speranza, l’uomo passato dallo stato confusionale, al machiavellico proposito di ricostruire l’egemonia della sinistra grazie al Covid. Da un lato, il mancato aggiornamento del piano pandemico; dall’altro, l’incomprensibile rifiuto di applicare quello del 2006. L’ex assessore di Potenza l’aveva liquidato come «non adeguato».
Il nodo del vademecum antivirus è centrale: esso era il «manuale» che Conte & c. dicevano di non avere e che, semmai, era stato sigillato in un cassetto. Utilizzarlo avrebbe fornito perlomeno un’idea sulle misure da attuare e su quelle da evitare (ad esempio, la serrata nazionale dell’8 marzo 2020), sulla disponibilità di dispositivi medici e terapie intensive. Invece, tecnici e politici non sapevano nemmeno su quanti posti letto si potesse fare affidamento.
Lo svelava una comunicazione della dottoressa Flavia Petrini, dell’Università di Chieti, a Silvio Brusaferro, numero uno dell’Istituto superiore di sanità, finita agli atti della Procura bergamasca. Il capo dell’Iss venne informato che il ministero aveva elaborato una stima contenente «sia unità non esistenti in alcuni istituti di cura che posti letto in numero diverso sulle unità rilevate». E a proposito di ospedali, Pierpaolo Sileri, ex sottosegretario di Speranza, alla Verità ha riferito che nessuno provò a sopperire alle carenze di personale facendo lavorare 38 ore a settimana, anziché 20, gli ambulatoriali. Nel frattempo, uno dei boiardi del dicastero, Francesco Maraglino, rifiutava stizzito «le numerose richieste di infermieri, anche italiani, che si sono diplomati all’estero e che vogliono mettersi a disposizione ma non hanno titoli riconosciuti». Furono snobbati pure i professionisti con cittadinanza straniera, attivi nel privato ma esclusi dal Servizio sanitario nazionale.
Per fingere che esperti ed esecutivo fossero «prontissimi», come aveva giurato Conte, ad aprile 2020, il direttore della Programmazione in lungotevere Ripa, Andrea Urbani, blaterò sul Corriere di un «piano secretato per non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio». In realtà, il presunto programma top secret era incardinato su calcoli inesatti della Fondazione Kessler: per intenderci, lo scenario peggiore prevedeva 1.000 positivi a 38 giorni dalla scoperta del paziente 1. Eppure, quella soglia fu sforata già nove giorni dopo il primo positivo di Codogno. E perché fossero occupati 60 posti letto di terapia intensiva, bastò una settimana.
In effetti, al di là dei reati, è la miseria politica e amministrativa l’elemento che, nelle paginate di Bergamo, colpisce di più. Le conversazioni private in cui il sottosegretario piddino, Sandra Zampa, ammetteva che lo stop ai voli dalla Cina era stato inutile e definiva «non all’altezza» i dirigenti del ministero della Salute; la guerra per bande nel Comitato tecnico scientifico, con Giovanni Rezza che si spingeva a equipararlo a «una mafia»; i documenti che i burocrati si nascondevano a vicenda, come aveva fatto Miozzo con Brusaferro; e, soprattutto, le decisioni spacciate per scientifiche, tipo quella sul divieto di messe e funerali, ma in realtà imposte da Speranza. Quello che, al presidente dell’Iss, ordinava di «non dare troppe aspettative positive» agli italiani, così da poterli tenere rinchiusi. A domande su questi argomenti, l’ex ministro non ha mai voluto rispondere. Chissà che stavolta non sia quella buona.
Al pettine i primi nodi della gestione Covid. L’ex premier e l’ex titolare della Salute saranno interrogati dal Tribunale dei ministri a Brescia il 10 maggio. Molte le risposte da dare, a partire dal mancato aggiornamento e dalla mancata adozione del piano pandemico. Stop alle mascherine. Restano obbligatorie solo in pronto soccorso, reparto infettivi e Rsa.