Da quando esiste la Repubblica, abbiamo avuto 64 crisi di governo e 30 presidenti del Consiglio e in 74 anni la legislatura è stata sciolta nove volte prima del termine. In altre parole, non è mai accaduto che un premier restasse in carica fino alla fine e così il più longevo a Palazzo Chigi rimane a tutt’oggi Silvio Berlusconi, che nei primi anni Duemila governò per tre anni, 10 mesi e 12 giorni. Tutto ciò per dire che la caduta di un esecutivo e lo scioglimento del Parlamento per andare a nuove elezioni, in Italia non sono un’eccezione, ma la regola. Non voglio indagare sulle ragioni che nel nostro Paese generano un’alta instabilità politica, mi limito a osservare che è un problema congenito della nostra democrazia. E però, nonostante in media i governi non siano mai durati più di un anno e pochi mesi, mentre i premier abbiano resistito poco più di due, le dimissioni di un premier paiono ogni volta una tragedia.
Ho il massimo rispetto per Mario Draghi, che considero un abile banchiere (ma un meno abile politico), tuttavia che il suo addio venga dipinto da gran parte della stampa come una catastrofe mi pare un po’ eccessivo. L’Italia ha attraversato tempeste di ogni tipo, con passaggi a rischio come la svalutazione della moneta e l’ingresso nell’euro. Ciononostante, ha sempre superato i problemi senza disastri irreparabili. Siamo il malato d’Europa, come scrivono da anni i principali quotidiani stranieri (ma anche quelli italiani)? Probabilmente sì, ma se guardiamo agli ultimi trent’anni, nessuno dei 12 presidenti del Consiglio che si sono succeduti è riuscito a curare il paziente. E dire che dal 1992 abbiamo avuto fior di tecnici come Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Mario Monti e Draghi. E politici come Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Enrico Letta e Matteo Renzi, tanto per restare ai più noti. Voglio dire che i governi, anche quelli considerati migliori, passano, ma l’Italia resta. Con i suoi vizi e anche le sue innegabili qualità.
Tanto per parlare dell’ultimo esecutivo, quando l’ex presidente della Banca centrale europea arrivò circonfuso da un’aura di prestigio, il debito - che è il nostro grande problema - ammontava a 2.640 miliardi di euro. Oggi che Draghi se ne va siamo a 2.756, all’incirca 6,5 miliardi in più per ogni mese che Super Mario ha trascorso a Palazzo Chigi. Quanto allo spread, quando Mr. Bce prese il posto di Giuseppe Conte viaggiava intorno ai 100 punti e prima che scoppiasse la crisi eravamo poco sotto i 200. In Borsa, a febbraio del 2021 l’indice Mib si aggirava intorno a quota 22 mila, ora è sotto la soglia di 21 mila. Nessuno sa dire se senza di lui avremmo fatto peggio, ma la realtà è che sui numeri macroeconomici la sua presenza non ha fatto la differenza, perché l’azienda Italia, con le sue zavorre, ha proseguito imperterrita la marcia come se alla guida non ci fosse il più importante banchiere europeo. E, ahinoi, anche l’inflazione a causa della guerra ha continuato la corsa. Insomma, con Draghi non abbiamo sterzato e probabilmente non sterzeremo neppure senza di lui.
I giornali scrivono che con le sue dimissioni sono a rischio i 46 miliardi del Pnrr, ma anche in questo caso esagerano. Innanzitutto, a dire che con lui o senza di lui nulla sarebbe cambiato fu lo stesso Draghi quando pensava di diventare presidente della Repubblica. Era il 22 dicembre dello scorso anno e il premier in conferenza stampa annunciò che i 51 progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza erano stati raggiunti e non era rilevante quale sarebbe stato il premier che li avrebbe attuati. Tuttavia, qualcuno punta il dito sui ritardi che probabilmente si accumuleranno in campagna elettorale. In realtà, eravamo in ritardo anche prima che il governo cadesse, perché nonostante l’impegno dell’ex governatore della Bce, le pratiche poi passano nelle mani delle Regioni e della burocrazia ministeriale. Tuttavia, il regolamento per l’erogazione dei fondi prevede che il rispetto degli impegni possa slittare a causa di circostanze oggettive o eccezionali. Dunque, non si perde nulla, anche perché il calendario del raggiungimento degli obiettivi è indicativo e non perentorio. Dovrebbe passare un anno e mezzo senza far niente per vedersi tagliare i fondi, e la tesi che potremmo perdere la rata del primo semestre 2022, ossia i 24 miliardi che sono già stati richiesti dal governo in carica, come ha scritto il Sole 24 Ore, non ha alcun fondamento e neppure un gran senso logico. Che le elezioni rischino di far slittare l’attuazione di alcuni progetti è vero, ma tre mesi di campagna elettorale non faranno la differenza. Basti pensare che l’Olanda ha appena votato, presentando i suoi progetti meno di 15 giorni fa senza che Bruxelles trovasse nulla da eccepire.
Sarà che il voto spaventa una classe politica e burocratica attaccata al potere e refrattaria a cambiare, sarà che qualcuno è più preoccupato per l’Ucraina che per l’Italia e teme un cambiamento di linea. Sta di fatto che qui, più che perdere i fondi della Ue, qualcuno rischia di perdere la testa e anche la poltrona.