«Le indagini hanno permesso di raccogliere plurimi e convergenti elementi indiziari circa la stabile residenza in Italia, almeno a partire dall’anno 2010, di Marella Caracciolo». La Procura di Torino, alla cui guida è approdato da pochi giorni il combattivo ex procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, ieri ha ottenuto un decreto di sequestro finalizzato alla confisca da 74,8 milioni di euro, firmato dal giudice per le indagini preliminari, nei confronti di John, Lapo e Ginevra Elkann, nipoti di Giovanni Agnelli, del commercialista Gianluca Ferrero (presidente della Juventus) e del notaio Urs Robert von Grunigen. Questi ultimi due pure indagati nel procedimento giudiziario che procede per le ipotesi di «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici» e «truffa ai danni dello Stato». La Procura ritiene di aver svelato «l’esistenza di un’articolata strategia, tesa a rappresentare, sotto il profilo strettamente formale, la residenza elvetica della Caracciolo». Ovvero un intricato gioco di specchi con la residenza elvetica che sarebbe stata solo formale. Gli investigatori della Guardia di Finanza di Torino hanno ficcato il naso nella spinosa vicenda della successione ereditaria di Marella, deceduta nel 2019.
Un’eredità che ha visto scontrarsi gli Elkann, figli della defunta, e Margherita Agnelli, madre degli eredi, perché per il diritto italiano Marella non poteva saltare Margherita nella successione ereditaria. Il contesto è quello di una gigantesca fortuna che sarebbe sfuggita per anni ai radar del fisco italiano. Nel corso dell’inchiesta sono stati acquisiti documenti, contabilità parallele, e una mole di dati digitali che confermerebbero, secondo l’accusa, l’ipotesi iniziale: la residenza fittizia della Caracciolo in Svizzera era parte di un più ampio disegno criminoso per sottrarre il suo patrimonio e i relativi redditi all’imposizione fiscale italiana. E tra la documentazione sequestrata c’era un «memorandum», conservato nello studio di uno degli indagati, che sembra scandire «dettagliatamente», scrive la Procura, «gli accorgimenti ritenuti necessari a sostenere la residenza svizzera». Accorgimenti, come l’assunzione di collaboratori domestici della Caracciolo da parte di uno dei nipoti, «in concreto riscontrati nel corso delle indagini». Dal 2010 le prove suggerirebbero che la Caracciolo aveva radici stabili in Italia. Al centro delle indagini, infatti, sono finite le disposizioni impartite dai più stretti collaboratori italiani della famiglia nei confronti di un Family office svizzero che provvedeva, stando alla ricostruzione della Procura, a tutte le incombenze relative alla gestione della posizione svizzera della Caracciolo come il ritiro della corrispondenza e l’effettuazione di pagamenti dai conti svizzeri. E i collaboratori impiegati per le operazioni avrebbero confermato tutto. Tutto insomma sembrerebbe essere stato orchestrato con precisione.
Gli investigatori hanno quindi fatto due conti: a partire dal 2015, ultimo anno utile ai fini dell'accertamento fiscale. Per le imposte sui redditi è stata quantificata un’Irpef evasa (provento del reato di frode fiscale, ritiene la Procura) per complessivi 42,8 milioni di euro, provenienti dall’occultamento all’imposizione di una rendita vitalizia percepita dalla Caracciolo (ammontante, dal 2015 al 2019, a oltre 29 milioni) e di redditi di capitale per circa 116,7 milioni derivanti da attività finanziarie detenute da un trust (un fondo fiduciario) con sede alle Bahamas. Non solo. Per le imposte sulle successioni e per le donazioni sono stati calcolati tributi evasi per oltre 32 milioni, su una massa ereditaria ricostruita da oltre 800 milioni. È quanto risulterebbe dalle disponibilità indicate nell’inventario dell'eredità redatto dall'esecutore testamentario svizzero, dalle quote di un fondo di investimento lussemburghese, dalle rilevate spartizioni post mortem tra gli eredi di opere d’arte e gioielli di ingente valore e dagli elementi patrimoniali di una società immobiliare lussemburghese. Un certo peso deve averlo avuto la decisione del Tribunale del Riesame sul sequestro degli apparecchi informatici degli Elkann: «La frode», valutarono i giudici lo scorso aprile, «è stata verosimilmente oggetto di dolo in capo a tutti i tre fratelli Elkann, i quali si è visto come fossero in ottimi rapporti con la nonna e come ne conoscessero abitudini e problematiche di salute che rendevano prevalente la sua permanenza in Italia anziché in Svizzera».
E ancora: «Di fronte al decesso della congiunta è verosimile che abbiano avallato, con dolosa volontà adesiva, le strategie già suggerite e realizzate con la fattiva assistenza di Ferrero (il commercialista di famiglia, ndr)». E per i giudici c'era una circostanza, in particolare, che avrebbe rivestito carattere indiziario: «Solo nel 2023, quasi quattro anni dopo il decesso, gli Elkann si sono precipitati a dichiarare in tutta fretta (al fisco, ndr) le risorse incamerate dalla defunta nonna». Un passo falso. Come quello di aver conservato al Lingotto una lettera datata 25 ottobre 2018 e firmata da tale Mimma che conterrebbe indicazioni «sull’origine della decisione presa dalla famiglia Agnelli di far transitare l’eredità dell’Avvocato direttamente in capo a John Elkann, escludendo la figlia Margherita». Ma non è l’unico documento ritenuto d’interesse investigativo: dal caveau della residenza di John Elkann è saltata fuori una busta con una lettera firmata da Margherita nel 2003. Un «manoscritto che verte su argomenti di interesse», annotano gli investigatori, quali la successione nelle quote della società Dicembre, la cassaforte di famiglia. «Il sequestro è un passaggio procedurale che non comporta alcun accertamento di responsabilità dei nostri assistiti», precisano dal collegio difensivo dei fratelli Elkann, aggiungendo: «le circostanze, come ricostruite dalla Procura, non sono condivisibili e restiamo convinti di poter dimostrare la loro estraneità». Parole che sembrano anticipare un nuovo scontro al Riesame.