Ansa
Politica e magistratura lanciano l’allarme nella quinta commemorazione del crollo: il processo rischia di saltare, ora si acceleri. Giorgia Meloni: «Sarebbe imperdonabile se questo dramma restasse impunito».
Ogni giorno che passa, il processo per il crollo del ponte di Genova in cui morirono 43 persone ci riserva una sorpresa. L’ultima è di ieri: una telefonata fra Gianni Mion e Alessandro Benetton intercettata dagli investigatori. L’uomo chiave della famiglia di Ponzano Veneto e il figlio del patriarca della dinastia di magliai discutono delle pressioni esercitate dal governo affinché i Benetton lascino Autostrade per l’Italia. Siamo nel 2020 e Giuseppe Conte, quello della caducazione della concessione, è presidente del Consiglio. Da mesi, mentre l’inchiesta della procura langue, Palazzo Chigi prova a trovare una via d’uscita.
Il governo vuole salvare la faccia ed evitare di celebrare il secondo anniversario della strage con il gruppo di imprenditori veneti sempre al comando. Dunque, urge trovare una soluzione che ne agevoli l’uscita. Da quel che si capisce, la possibilità di sbloccare la situazione d’impasse esiste e consiste nel pagare di più. Non ne fa mistero Mion il quale se in aula, quando è sotto il fuoco di fila delle domande di pm e avvocati, sembra un agnellino stupito di fronte all’avidità dei suoi datori di lavoro e di alcuni suoi collaboratori, dall’altro invece svela il vero volto di manager scafato, pronto a negoziare fino all’ultimo pur di spuntare un centesimo in più. In questo caso non si parla di centesimi, ma di miliardi e dunque Mion punta i piedi per conto dei suoi padroni: se i Benetton se ne devono andare, qualcuno deve sborsare una montagna di quattrini. Alla domanda se alla famiglia di Ponzano non convenga mollare Aspi dopo quanto è successo, Mion replica deciso: «Beh, certo, però non con l’esproprio proletario che stanno organizzando». Alessandro concorda. E Mion rincara sostenendo che l’operazione è orchestrata da Cassa depositi e prestiti, che si farebbe proporre condizioni che rendono non interessante l’investimento con lo scopo di abbassare il prezzo. «D’altra parte», dice colui che è sempre stato l’uomo della finanza e delle strategie del gruppo, «in caso di revoca della concessione, l’indennizzo è uguale al patrimonio netto, quindi praticamente niente».
Stiamo parlando di miliardi e di soldi di cui si discute dopo che il ponte è venuto giù e ha travolto la vita di 43 innocenti che hanno avuto il solo torto di passare di lì il 14 agosto del 2018, per andare al mare o al lavoro. Ma Mion, colui che all’improvviso si è ricordato di una riunione in cui si parlò senza fare niente del possibile crollo del Morandi, dice che pagare Aspi al valore del patrimonio netto, riconoscendo cioè l’intero patrimonio lordo meno i debiti, è un esproprio proletario. Cioè, lui sa che alla famiglia conviene la ritirata per poter far dimenticare la strage (e Alessandro Benetton concorda), ma poi tutto si riduce a quanto lo Stato è disposto a pagare come buonuscita. Se azionasse la revoca della concessione, come minacciato all’inizio da Giuseppe Conte, l’indennizzo - dice Mion - equivarrebbe a un esproprio proletario. Insomma, sepolti i morti, un anno e mezzo dopo il disastro la questione si riduceva ai soldi. Attenzione: non quelli che il concessionario doveva riconoscere allo Stato per non essersi accorto del rischio di crollo del viadotto. E nemmeno il denaro necessario a «risarcire» i famigliari delle vittime. No, i quattrini di cui si discute sono quelli che i Benetton vogliono per farsi da parte e che Mion, il pentito, colui che in tribunale ha vuotato il sacco forse nella speranza che nessuno gli chieda conto delle sue responsabilità, vuole portare a casa per far contenti i suoi danti causa.
Alla fine, come si sa, la trattativa sulla pelle dei morti si concluderà con una plusvalenza miliardaria per la famiglia Benetton. Verità&Affari calcolò che tra incasso dalla cessione di Autostrade e riduzione dei debiti consolidati di Aspi, il vantaggio per la holding del gruppo è stato di 16 miliardi. Una cifra monstre, il cui impatto sui conti della famiglia, proprietaria del 30 per cento della società, è stato certamente importante. In altre parole, nel momento in cui il governo ha deciso di liquidare i Benetton, invece di togliere loro la concessione autostradale, ha fatto agli imprenditori di Ponzano uno straordinario regalo. Che si unisce a quelli ricevuti sottoforma di dividendi per oltre 14 anni. È proprio Mion, in un’altra intercettazione, a ricordare i manager che, pur non godendo della sua stima, hanno fatto contento il signor Gilberto (cioè tra i quattro fratelli, quello che si occupava degli investimenti fuori dal settore dell’abbigliamento) con i loro «dividendini». Sì, li chiama così, usando il diminutivo, quasi fossero spiccioli. Ma non stiamo parlando di argent de poche, bensì di miliardi. L’inchiesta della Procura li quantifica in 9,875 miliardi. Una montagna di soldi. Perché alla fine si ritorna sempre lì, al denaro, che è causa ed effetto di tutto quello che è successo. Ormai è chiaro. Se il ponte è andato giù è perché nessuno ha fatto le opere di manutenzione e non sono state fatte perché qualcuno ha risparmiato. Che altro c’è da aggiungere? Soprattutto: quanto altro tempo dobbiamo aspettare per avere una sentenza che identifichi i responsabili senza aspettare che la prescrizione mandi tutti assolti? Dalla strage sono trascorsi cinque anni: non bastano per avere giustizia?
Ogni giorno che passa, il processo per il crollo del ponte di Genova in cui morirono 43 persone ci riserva una sorpresa. L’ultima è di ieri: una telefonata fra Gianni Mion e Alessandro Benetton intercettata dagli investigatori. L’uomo chiave della famiglia di Ponzano Veneto e il figlio del patriarca della dinastia di magliai discutono delle pressioni esercitate dal governo affinché i Benetton lascino Autostrade per l’Italia. Siamo nel 2020 e Giuseppe Conte, quello della caducazione della concessione, è presidente del Consiglio. Da mesi, mentre l’inchiesta della procura langue, Palazzo Chigi prova a trovare una via d’uscita.