«Non temo uno scisma». papa Francesco pronuncia la parola proibita per negarne l’effetto e tranquillizzare il mondo cattolico. Lo fa con un’intervista a La Stampa che ricalca a grandi linee quella televisiva rilasciata due settimane fa a Fabio Fazio. Ripetersi è il destino del più mediatico dei pontefici, anche perché i grandi temi della Chiesa hanno un respiro di decenni, talvolta di secoli, non certo di giorni. Lui ovviamente lo sa, ma ritiene che il suo magistero sia testimonianza pubblica quotidiana, «un illuminare continuo le parole chiave del nostro tempo» come disse davanti a un milione e mezzo di ragazzi sei mesi fa nella Giornata mondiale della gioventù a Lisbona.
Allora fra «pace», «misericordia», «fratellanza», «futuro» non c’era spazio per il termine scisma, uscito prepotentemente allo scoperto dopo la controversa dichiarazione Fiducia supplicans sulle benedizioni delle unioni gay (tecnicamente coppie irregolari dello stesso sesso) firmata da un suo fedelissimo, il cardinale ultra progressista Victor Manuel Fernández, prefetto del dicastero per la Dottrina della Fede. La lettera ha avuto l’effetto di un terremoto che il pontefice decide di derubricare a starnuto, colpa di «piccoli gruppi ideologici che protestano con veemenza. Non temo uno scisma. Sempre nella Chiesa ci sono stati gruppetti che manifestavano riflessioni di colore scismatico. Bisogna lasciarli fare, e passare, e guardare avanti».
Il Papa ha deciso di chiudere gli occhi. In realtà a sollevarsi è stato tutto il clero africano più teologi e alti prelati di Francia, Spagna, Sudamerica, un’icona del cattolicesimo cinese come il cardinale emerito Joseph Zen («La dichiarazione costituisce un grave disprezzo per l’ufficio dei vescovi»). Lo stesso segretario di Stato, Pietro Parolin, non ha risparmiato distinguo: «La Chiesa è aperta e attenta ai segni dei tempi ma deve essere fedele al Vangelo, le reazioni ci dicono che quel documento ha toccato un punto molto sensibile».
Per Francesco tutto ciò è un equivoco. Nell’intervista spiega ancora una volta che «il Vangelo è per santificare tutti. Certo, a patto che ci sia la buona volontà. E occorre dare istruzioni precise sulla vita cristiana: sottolineo che non si benedice l’unione ma le persone». È il cuore del problema, una tempesta perfetta. È l’appiglio più forte regalato ai critici: poiché a chiedere la benedizione è la coppia, di fatto il sacerdote con il sacro gesto non legittima il singolo ma l’unione stessa. In un altro passaggio il Santo Padre torna sullo spinoso e divisivo argomento, lo fa quando ricorda il «todos, todos, todos» scandito a Lisbona, testimonianza dell’inclusione assoluta.
«Cristo chiama tutti dentro. Tutti. C’è proprio una parabola, quella del banchetto nuziale al quale nessuno si presenta, e allora il re manda i servi ai crocicchi delle strade “e tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze”. Il figlio di Dio vuol far capire che non desidera un’élite». I sacerdoti contrari alla Dichiarazione di Fernández continuano a rispondere che la porta d’ingresso per meritare il grande abbraccio sono i sacramenti, è il battesimo, non una benedizione frettolosa. Toccata con mano la ribellione, lo stesso pontefice un mese fa aveva corretto il tiro: «Le benedizioni siano velocissime, da 10-15 secondi e senza rituale, non sono matrimoni». Come a dire: fateli passare dal retrobottega. E se non se ne accorge nessuno meglio.
Di fronte ai numerosi Non possumus, Francesco sembra in imbarazzo. Più spiega, meno spiega. Fino ad arrivare a distinguere antropologicamente quelli che definisce «piccoli gruppi ideologici». Poiché fra loro c’è un gruppo grande come un continente (l’Africa), decide di offrire a quest’ultimo l’indulgenza plenaria. E questa è geopolitica. «Un caso a parte sono gli africani, per loro l’omosessualità è qualcosa di brutto dal punto di vista culturale, non la tollerano». Una posizione curiosa: gli africani sono tanti e meritano la dispensa, gli altri sono pochi e meritano l’oblio. Gli africani sono culturalmente diversi (in che senso?) e vanno capiti, gli altri sono più occidentali e vanno puniti.
Di intervista in intervista si coglie il dolore del Papa per un incaglio dottrinale che rischia di diventare un cuneo dentro la già precaria unanimità della Chiesa. Non resta che la preghiera, la chiamata in causa dell’Altissimo per riuscire ad andare oltre uno stallo con poche vite d’uscita. Nel parlare a La Stampa, Francesco auspica una condivisione nel segno della saggezza: «Confido che gradualmente tutti si rasserenino sullo spirito della Dichiarazione. Vuole includere, non dividere. Invita ad accogliere e poi affidare le persone - e affidarsi - a Dio». Non teme uno scisma ma è seriamente preoccupato. E non solo per la guerra mondiale a pezzi. Ora è ancora più chiara l’invocazione con la quale da qualche tempo il pontefice ama concludere i discorsi: «Pregate per me. Ma per piacere pregate a favore, non contro».