È stato un mese di gagliarde vittorie ma segnato anche da eventimai accaduti prima: un torneo itinerante, con il distanziamento, pieno di errori di arbitri e giocatori, e di ipocrisie. Ecco i nostri voti.
La folle corsa dietro al pallone è finita. Allora è giusto cercare il senso di un mese pazzo che non ha riguardato solo il calcio e che noi italiani abbiamo vissuto con la Nazionale di Roberto Mancini nella galoppata verso Wembley. Abbiamo negli occhi i gol di Manuel Locatelli e Andrea Pessina, di Federico Chiesa e Nicolò Barella; abbiamo nel cuore le parate decisive di Gianluigi Donnarumma. Ma la folle corsa è stata molto altro. La paura per il drammatico malore di Christian Eriksen, la caduta degli dei multirazziali e presuntuosi, il balletto degli inginocchiati, il torneo delle quarantene e dei divieti, l'Europeo degli svarioni, la formula folle con le squadre trasformate in palline da flipper. E rotolate con e senza mascherina dentro un destino comune.
Inchinarsi è un ordine. E i fischi a Spinazzola?
«Non ci inginocchieremo ma cercheremo di combattere il nazismo in altro modo». Era partito bene Giorgio Chiellini, per poi finire dentro una sceneggiatura surreale di Woody Allen con la gaffe bohémienne fra nazismo e razzismo. L'Italia con l'Austria non si è inginocchiata, qualche giorno prima con il Galles si era fatta trovare impreparata: cinque genuflessi e sei perplessi a guardarli. Quel quadretto aveva provocato il mal di fegato a Enrico Letta, precipitatosi a supplicare: «Vorrei vederli tutti in ginocchio». Ne è nato il più stucchevole e politico dei tormentoni, davanti al quale gli azzurri hanno fatto una scelta tartufesca, in sintonia con l'ésprit de finesse nazionale (camerieri forever). Davanti alla Nazionale metrosexual arcobaleno del Belgio hanno deciso: «Mettiamo il ginocchio a terra se ce lo chiedono loro». Nessuna responsabilità, sdraiati a comando. E se Romelu Lukaku vi avesse chiesto di mettervi le dita nel naso? È stato l'Europeo delle genuflessioni per sensibilizzare la lotta al razzismo, celebrando con quel gesto («take the knee») il movimento di estrema sinistra americano Black Lives Matter. La ricorderemo come una sceneggiata dem, consolandoci con il fatto che gli azzurri si sono inginocchiati solo per 10 secondi; poi hanno mostrato coesione nazionale, identità e spirito di gruppo.L'Uefa ha lasciato fare con uno sguardo materno: sono ragazzi. Il gotha che comanda il calcio europeo si è sempre definito «apolitico e apartitico». Ha bocciato l'arlecchinata studiata allo stadio di Monaco (cupola illuminata con luci arcobaleno) per mettere in imbarazzo Viktor Orban durante la sfida Germania-Ungheria; ha impedito che gli ucraini si presentassero con uno stemma nazionale che comprendeva la Crimea. Ma ha preferito non intervenire nel gioco della rotula e nei suoi cascami più innocenti, come la fascia arcobaleno mostrata da Manuel Neuer e Harry Kane, capitani di Germania e Inghilterra. Il gay pride è passato come acqua fresca e il club degli inginocchiati ha avuto pochi proseliti. Tre squadre si sono distinte per l'insistenza: Inghilterra, Galles e Belgio, regolarmente subissate di fischi da parte dei loro tifosi. Francesi e italiani sono andati a rimorchio, danesi e olandesi sono rimasti in piedi ad applaudire gli avversari. Ma tutti gli altri si sono tenuti alla larga dal simbolismo da terza media. I buoni si sono sentiti più buoni, salvo poi insultare e tirare bottigliette contro Leonardo Spinazzola (dalla curva belga multicult) a terra per la rottura del tendine d'Achille. Anche qualche arbitro si è inginocchiato, come Daniele Orsato. Ma non se n'è accorto nessuno. Le pantomime per politicizzare il pallone sono insopportabili. Voto 4.
Fuoriclasse in difficoltà. Vincono i campioni operai
La caduta degli dei. La prima è una caduta vera, drammatica. Avviene subito, quasi a sublimare in un'immagine lo sgomento di tutto il mondo del calcio: Christian Eriksen si accascia in campo durante Danimarca-Finlandia e rischia di morire. I suoi compagni gli si stringono attorno, fanno scudo alle telecamere occhiute, proteggono lo sfortunato campione dalla spettacolarizzazione del dolore. Simon Kjaer è il primo a soccorrerlo, si teme che il fantasista dell'Inter muoia sul prato. Poi lentamente si riprende, viene trasferito all'ospedale a Copenaghen, si salva anche grazie a un intervento a cuore aperto. Molto difficilmente tornerà a giocare, almeno in Italia. Le altre sono cadute di gran lunga più leggere ma lasciano traccia. È l'Europeo dei fenomeni sgonfiati, vanno casa innanzitutto le Nazionali multirazziali senza identità, formate da collezioni di giocatori fortissimi ma privi di ideali comuni. Il tonfo più rumoroso è quello della Francia di Paul Pogba, Kylian Mbappé, Antoine Griezmann eliminata dalla coriacea Svizzera che l'Italia aveva battuto 3-0. Con rissa finale fra madri e padri di campioni sugli spalti che si rimbalzano responsabilità esattamente come all'oratorio. Anche l'Olanda di Memphis Depay, Matthijs DeLigt e Frankie De Jong fa le valigie, seguita a ruota dalla Germania; qui va in scena il crepuscolo degli dei, un tramonto wagneriano dello squadrone teutonico e del suo allenatore Joachim Löw, dal mondiale brasiliano alla polvere.Il destino non fa sconti a nessuno, men che meno ai fuoriclasse giocolieri senza una squadra capace di soffrire in umiltà alle spalle. E allora a casa pure Cristiano Ronaldo nonostante i 5 gol e giocate da extraterrestre. Si accomodi pure la Croazia di Luka Modric, Ivan Perisic e Marcelo Brozovic, fuori subito la Russia peggiore della storia. L'ultimo monumento a tornare anticipatamente davanti alla Tv è Romelu Lukaku, il formidabile centravanti belga rimbalzato dall'Italia nella notte più spettacolare per gli azzurri. Con lui partono, accompagnati da un distratto saluto, campioni veri come Kevin De Bruyne e brocchi mascherati (buoni per titoli di giornale durante il calciomercato) come Axel Witsel. È l'Europeo delle squadre operaie, umili, capaci di oltrepassare ogni soglia della fatica durante i supplementari e di rimanere fredde e concentrate ai rigori. Come l'Italia, come l'Inghilterra, come le eliminate con onore Spagna e Danimarca, che senza Eriksen riesce a issarsi fino alla semifinale nel nome di un campione malinconico e sfortunato. Un mese di thrilling e di passione fuori dal copione. Voto 8.
Gran rassegna di papere e autogol. Mai visti tanti momenti di comicità
Il primo ci ha portato fortuna, quando il turco della Juventus Merih Demiral ha deviato nella sua porta un pallone velenoso aprendo la strada al galoppo dell'Italia. L'undicesimo, del milanista Simon Kjaer, ha stroncato la Danimarca in semifinale. Stiamo parlando degli autogol, vera specialità dell'Europeo itinerante: 11 fino alla finale di Wembley, un record assoluto. Per comprendere l'enormità del dato basta aggiungere che nelle precedenti 15 edizioni il bilancio totale arrivava a 9. Il nuovo sport del suicidio assistito è un segnale di schizofrenia agonistica. Gli stessi protagonisti lo hanno spiegato in modo curioso. Il francese Antoine Griezmann: «Abbiamo perso l'abitudine a vedere e sentire i tifosi sugli spalti, eravamo tutti meno sereni».Un problema che ha contagiato anche i portieri, protagonisti di papere imbarazzanti come quella omerica dello spagnolo Unai Simon contro la Croazia o quella del polacco Wojciek Szczesny nel derby perso contro la Slovacchia. Il mondo al contrario, i campioni in ginocchio anche dal dischetto: mai sbagliati tanti rigori (sette su 17 assegnati prima della finale). In Croazia-Turchia addirittura tre. Il più contestato resta quello su Raheem Sterling nella semifinale con la Danimarca, un mezzo regalo arbitrale. Con uno strascico singolare: l'Uefa ha aperto un procedimento disciplinare contro gli inglesi perché i tifosi di casa avrebbero usato un puntatore laser per disturbare il portiere danese Kasper Schmeichel. Esiste anche una petizione online per far rigiocare la partita perché al momento del fallo c'erano due palloni in campo. Tutto così comico, voto 9.
Beffe e pasticci: bocciato il torneo più pazzo del mondo
«Anche Einstein, se sollecitato tutti i giorni, avrebbe detto delle sciocchezze». Era la frase preferita di Michel Platini quando non voleva parlare con i giornalisti. Il problema è che lui l'ha lasciata in eredità, la sciocchezza. È stato l'Europeo itinerante, senza un centro di gravità, giocato fra Siviglia e Baku (6.200 chilometri come andare da Roma a Chicago o a New Delhi), 12 ore di aereo per disputare una partita, con Nazionali protette come Inghilterra, Germania, Italia e altre sballottate agli antipodi del pallone come Galles e Turchia che hanno dovuto fare la spola fra Roma e Baku. Inventato da Roi Michel, il torneo più pazzo del mondo aveva l'imprinting di Bruxelles, doveva sancire l'esistenza di una grande nazione «che contiene tutte le altre». Un format eurolirico mai metabolizzato dall'attuale numero uno dell'Uefa, Alexander Ceferin, che alla vigilia della finale ha ripetuto: «Non ero favorevole a questa formula, non la riproporremo presto». Traduzione dal linguaggio diplomatico: mai più un simile pasticcio. La passerella europeista è fallita per tre motivi: il virus cinese ha impedito a molti stadi di fare il pieno di spettatori, le final four sono state attribuite a Londra, capitale della Brexit, con un messaggio contrario rispetto al previsto. Ultima beffa: l'unico impianto con la capienza al 100% è stato quello di Budapest, la Puskas Arena (nella foto). Un successo per il leader meno europeista, Viktor Orbán. Nessun imbarazzo per l'Uefa, vera vincitrice dell'Europeo distopico: l'incasso è stato di oltre 2 miliardi. Nel 2024 basta rave party continentali, si gioca in Germania e basta. Formula bocciata, voto 3.
Il ritorno degli abbracci (nonostante i soliti gufi)
Va in archivio come Europeo 2020 ma si è disputato nel 2021 per colpa del Covid. Il pallone ha scandito il ritorno alla vita del continente ma non è rimasto immune da precauzioni, diktat e isterie. C'era una volta il torneo degli hooligans e delle risse arbitrali. Questo passa alla storia come il torneo delle quarantene e dei divieti. Molti stadi, come l'Olimpico di Roma, hanno dovuto limitare al 25% la capienza. Per entrare bisognava essere vaccinati, negativi o immuni. A metà competizione, la variante Delta in crescita in Inghilterra ha creato un vento di paura, due focolai a Copenaghen e San Pietroburgo hanno ridato fiato ai chiusuristi. Per qualche giorno le finali di Wembley (nella foto, tifosi britannici) sono state in dubbio. A spingere per cambiare la sede anche Mario Draghi, che da economista poco incline alle ripartenze dal basso ha lanciato un anatema a Boris Johnson: «Non vanno giocate dove c'è un picco di contagi». Qualcuno ha cominciato a pensare che, viste le prestazioni vincenti dell'Italia, spingesse per trasferirle a Roma. L'Uefa ha chiuso la querelle con un comunicato: «Non c'è nessun piano per cambiare sede». Le preoccupazioni hanno creato caos, i biglietti comprati dai tifosi inglesi per la partita contro l'Ucraina a Roma sono stati annullati ma qualche furbo è entrato passando dagli Emirati Arabi per non subìre la quarantena. I nostri virologi rockstar hanno bocciato il torneo prima e durante, anche quando la Nazionale vinceva a raffica. Su tutti Roberto Burioni contro l'Uefa: «L'ottusa irresponsabilità dell'Uefa, che si rifiuta di spostare le partite degli Europei da città dove esiste un grave pericolo di contagio, è inaccettabile. Inaccettabile anche che i Paesi sovrani lo accettino, mettendo a rischio la salute dei loro cittadini». I gol lo avevano emarginato, tutta invidia. Voto 8 nonostante i gufi.