Con grottesco ritardo l’Organizzazione mondiale della sanità, e di conseguenza i giornali, si baloccano con l’idea della «fine della pandemia», senza nemmeno rendersi conto di quanto sia patetica la pretesa di lasciarsi tutto alle spalle grazie ai timbri e alla burocrazia sanitaria. Persino in questo umiliante spettacolino, tuttavia, si potrebbero trovare note positive: mettere la parola fine a un delirio politico durato tre anni potrebbe condurre finalmente a una rielaborazione seria - e scientifica, una buona volta - dell’accaduto e magari (vogliamo essere inutilmente ottimisti) al rischiaramento di qualche luogo oscuro del marchingegno medico in cui siamo stati infilati a forza.
Certo, ciò potrebbe accadere se solo i cosiddetti esperti, la classe medica e, appunto, l’orripilante burocrazia sanitaria non fossero del tutto incuranti della realtà, e non procedessero secondo logiche al limite del diabolico che trascurano prima di tutto il metodo scientifico.
Un radioso esempio di tale meccanica ottusità ce lo forniscono il Technical Report dell’Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, e soprattutto coloro che lo hanno recepito. Si tratta di un breve documento il cui pensiero conduttore sarebbe il seguente: «Prima di tutto imparare dagli errori e dalle esperienze fatti con il Covid».
Fantastico, bellissimo principio e ancor più bella idea. Ma quali sarebbero allora questi errori commessi durante la gestione del virus? Forse i lockdown inutili o peggio dannosi? Forse la caterva di balle che i politici di ogni ordine e grado ci hanno riversato addosso? Forse la violenta discriminazione con cui è stata martoriata la popolazione italiana? Macché.
Quali siano le preoccupazioni dell’Ecdc lo ha spiegato ieri La Stampa in un editoriale di Eugenia Tognotti, o forse di Chiara Saraceno (in prima pagina appariva una firma, all’interno un’altra: quando si parla di Covid sono confusi persino sull’identità dei loro collaboratori).
Leggiamo: «Il Centro ha individuato nove aree tematiche e quattro grandi aree che rimandano ciascuna a punti di criticità nella risposta a una minaccia per la salute: gli investimenti nella forza lavoro della sanità pubblica; la preparazione alla prossima crisi di salute pubblica; la comunicazione del rischio e il coinvolgimento della comunità; la raccolta e l’analisi di dati e prove». Capito? Il problema è la prossima crisi di salute pubblica. Non hanno nemmeno finito questa e già pensano a quella ventura, nemmeno fossero dei piccoli Bill Gates. Del resto ci pensa pure l’immunologo in odore di Nobel Alberto Mantovani, che - intervistato sempre dalla Stampa - si lamenta delle carenze del sistema sanitario e della mancanza di potente sostegno alla ricerca (come se il problema, fin dall’inizio, non fosse stato quello della assenza di risorse per la tutela della salute).
Nell’editoriale, Eugenia Tognotti (o forse Chiara Saraceno, chi lo sa) insiste proprio sul nodo economico. A suo dire servono «più risorse, più personale, più formazione, per usare tre parole chiave. Da noi, in Italia», prosegue la firma misteriosa, «non si stanno neanche disponendo i primi mattoni per creare queste condizioni, data la realtà che è sotto i nostri occhi: un’emergenza che sopravvive al Covid, la crisi di sistema della sanità pubblica, la mancanza di risorse, l’ostinato rifiuto del Mes sanitario che avrebbe consentito investimenti a tassi favorevoli».
Semplicemente meraviglioso: si accorgono che i soldi mancano quando governa la destra, e arrivano a invocare il Mes giusto per darci il colpo di grazia.
Ecco, questo è il tenore delle analisi che si sentono dalle nostre parti. Questa è la profonda elaborazione sugli errori commessi durante il Covid. E aspettate che non è finita: il meglio arriva quando la Tognotti (o la Saraceno?) parla del rapporto fra cittadini e istituzioni. «Un altro punto debole», scrive, «è l’attività di comunicazione del rischio e il coinvolgimento delle comunità, «fondamentali durante la risposta alle epidemie e nella maggior parte dei piani di preparazione», per riprendere le parole del Rapporto. La fiducia nel governo e nelle istituzioni è indicata come un fattore importante nell’influenzare. E le sue basi, chiarisce il rapporto, devono essere gettate in tempo di pace, prima della risposta alla pandemia».
Già, il coinvolgimento delle comunità: ci ricordiamo bene come siano state coinvolte: tramite multe e sospensioni. Secondo La Stampa, tuttavia, il vero danno alla relazione fra cittadini e istituzioni ha un’altra origine: «Non si può dire che il clima del Belpaese sia quello propizio a mettere in campo e rafforzare la preparazione e la risposta a potenziali future pandemie. La delegittimazione della task force e di singole personalità impegnate nella lotta al virus, insieme ai veleni dell’inchiesta della Procura di Bergamo, hanno ingenerato sfiducia nelle istituzioni e nella stessa comunità scientifica».
Se non fosse atroce ci sarebbe da sghignazzare fino allo sfinimento. A fare perdere fiducia nella comunità scientifica sarebbe stata la delegittimazione degli esperti? Ma di che esperti stiamo parlando? Del cacciatore di somari che insultava le ragazze online? Dei mentitori seriali che poi sono scesi in politica? Della starlette che tira in ballo i no vax persino quando ci sono di mezzo omicidi? O del ministro che si è censurato da solo il libro? O dell’alto dirigente sanitario che da quel ministro prendeva ordini via chat? O della Agenzia del farmaco dove modificavano i grafici e nascondevano i dati sulle segnalazioni di reazioni avverse? O per esperto intendiamo il Supremo Presidente del «tivaccinitiammalimuori»?
Questa gente, dal primo all’ultimo, si è screditata da sola. E purtroppo ha screditato la scienza, ha trascinato nel fango le istituzioni, ha umiliato la logica e il buonsenso, ha violato la dignità umana. Quale fiducia dovremmo avere in un sistema che li ha coccolati e protetti e ancora oggi lavora secondo le loro logiche? Quale rispetto dovrebbe avere la popolazione per chi l’ha insultata e presa in giro per anni?
La pandemia è finita? Sia pure. Ma i residui del marcio che costoro hanno sparso in giro sono ancora ben visibili. E nessun ridicolo decreto li può cancellare.
L’Oms spinge per il fine emergenza ma Tedros si oppone alla realtà
Sulla dichiarazione di fine pandemia, in America stanno organizzando addirittura spettacoli comici. Lo ha fatto Jimmy Kimmel, conduttore dell’omonimo show, che ha accolto la dichiarazione di fine dell’emergenza nazionale (promulgata dal Presidente degli Stati Uniti con decorrenza 11 maggio) ironizzando sul fatto che Joe Biden l’abbia «decisa circa un anno dopo che lo abbiamo fatto noi cittadini».
La dichiarazione di fine pandemia, di cui mentre il giornale va in stampa stanno discutendo gli esperti dell’Oms nella quindicesima riunione del Comitato di emergenza, è in effetti una comunicazione totemica senza alcun valore concreto: il mondo ha ripreso a funzionare già con l’arrivo della benevola variante Omicron, e in tutti i Paesi l’emergenza è finita da un pezzo. Ma, sebbene il Comitato emergenze risulti propenso a dichiarare la fine della pandemia, il direttore generale Tedros Ghebreyesus - al quale spetta la decisione finale - avverte che varie sono le criticità ancora presenti «che rendono difficile il poter prevedere le dinamiche future di trasmissione del virus o la sua stagionalità». In alcuni Paesi occidentali, come ad esempio la Gran Bretagna, le (poche) misure antipandemiche adottate sono state revocate già tra fine 2021 e inizio 2022, da quando cioè ha cominciato a diffondersi Omicron. In altri Paesi del Nord Europa, primo fra tutti la Svezia, la fine ufficiale delle misure di contenimento non è stata registrata, semplicemente perché non hanno mai avuto inizio; in compenso, Stoccolma ha contato un numero di decessi per milione ben inferiore a quello che noi italiani siamo riusciti a raggiungere tra lockdown di due mesi e mezzo (contro i 15-30 giorni di media occidentale), chiusure a zone, mascherine a scuola fino a giugno 2022 e il grottesco coprifuoco, restato in vigore per ben otto mesi. In Svizzera è dall’inizio del 2022 che di covid non si parla più. In altri Paesi ancora, come l’America, l’emergenza si è concretizzata schizofrenicamente a macchia di leopardo: laddove (in Texas) già nel 2021 si multava l’uso inappropriato delle mascherine, altrove (a New York) le chirurgiche sono state raccomandate anche a neonati e animali domestici. Non è un caso che Washington ci faccia compagnia in cima alla classifica dei decessi per milione.
Non si capisce, dunque, per quale motivo il mondo stia con il fiato sospeso per la dichiarazione ufficiale di fine pandemia dell’Oms, che ha suonato per la prima volta il suo più alto livello di allarme sul «nuovo coronavirus» il 30 gennaio 2020. Il direttore generale dell’Organizzazione, Tedros Ghebreyesus, ancora ieri dichiarava di «sperare» di porre fine all’emergenza internazionale «quest’anno». Ai suoi auspici, comunicati con piglio liturgico, hanno fatto seguito le dichiarazioni degli esperti del panel, che stanno ancora discutendo non soltanto sul «quando» dichiarare la fine della pandemia, ma anche sul «se». Ratificare la chiusura dell’era Covid «non deve significare un liberi tutti», ha ammonito giorni fa Walter Ricciardi, ex consulente di Roberto Speranza: non sia mai. E allora, via con la linea cerchiobottista: sì, la pandemia è finita, «ma». E in quel «ma» c’è il progetto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che, mentre studia il nuovo Regolamento Sanitario Internazionale e aggiorna il Piano strategico globale di preparazione per il 2023-2025, cerca di far scivolare il mondo dall’emergenza acuta a quella cronica, senza soluzione di continuità.
Sono diversi mesi, infatti, che l’Oms tenta di sdoganare il concetto di «permacrisi», la crisi sanitaria permanente annunciata dal direttore dell’Oms Europa Hans Kluge già a settembre 2022. Proclamare la fine della pandemia rappresenta per l’organizzazione di Ginevra un atto potentemente simbolico che i cultori dell’emergenza perenne non possono permettersi senza considerarne i rischi, riassunti nelle dichiarazioni a porte chiuse dei membri del panel, raccolte ieri dall’agenzia Reuters. Se la virologa olandese Marion Koopmans ha detto che «occorre continuare a comunicare che il covid rimane una complessa sfida di salute pubblica», il direttore dell’Organizzazione Panamericana della Sanità Jarbas Barbosa ha affermato di essere preoccupato perché «un cambiamento di status causerebbe indifferenza, sorveglianza più debole e calo delle vaccinazioni», aggiungendo che il Pheic (acronimo di Public Health Emergency of International Concern, emergenza sanitaria pubblica di livello internazionale) «non comporta danni, ma allo stesso tempo mantiene alta l’attenzione». È utile, insomma, per tenere la popolazione mondiale terrorizzata.
Il problema, come sempre, è politico. Ed economico, come ha spiegato una fonte vicina ai negoziati, chiarendo che la revoca dell’etichetta Pheic potrebbe «avere un impatto sui finanziamenti globali o sugli sforzi di collaborazione». Con molta probabilità, si riferiva a chi consente all’Oms di esistere, quel Bill Gates che con i suoi 375,5 milioni di dollari rappresenta il maggiore finanziatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, che da lui riceve più ancora della quota che versano gli Stati Uniti (352,5 milioni), secondo maggior sostenitore. Ed è proprio Gates ad aver spiegato, in uno spericolato passaggio (il)logico, che «per uscire da questa emergenza pandemica bisogna prepararsi alle prossime» (attraverso la vaccinazione, ça va sans dire), come recita anche il Thecnical Report dell'Ecdc, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Non bisogna infine dimenticare che, per alcuni Paesi come l’America, la fine ufficiale della pandemia significa che le spese di contenimento torneranno a pagamento, a cominciare dai vaccini e dall’antivirale Paxlovid, prodotto da Pfizer, che rimarranno gratuiti per la popolazione soltanto fino a quando l’attuale scorta non si esaurirà. La decisione finale che deve prendere l’Oms, insomma, non è se la pandemia è finita o no, ma se a farsene carico devono continuare ad essere gli Stati o i cittadini.