Più d’uno sperava che finisse come con Zelensky, cioè a schiaffoni. Una conferenza stampa con rissa, davanti ai giornalisti di mezzo mondo infatti, avrebbe mandato in sollucchero i gufi della stampa e dell’opposizione che, pur di vedere sconfitta Giorgia Meloni, sarebbero pronti a passare anche sul cadavere dell’Italia.
Invece non è andata come i compagni, in redazione e in Parlamento, auspicavano e nel muro di dazi che Donald Trump ha eretto il 2 aprile, con l’intenzione di riequilibrare gli scambi commerciali e reindustrializzare l’America, si è aperto uno spiraglio. Ovvero la possibilità di negoziare per raggiungere un’intesa che consenta di ridurre le aliquote sulle esportazioni. «Abbiamo parlato di energia, di Difesa, aumenteremo le importazioni di gas, le nostre imprese investiranno 10 miliardi», ha detto Meloni. «Abbiamo parlato di commercio e di tante cose. È un’amica, ha fatto grandi cose. È una grande leader», ha replicato Trump. Nei fatti il presidente americano accetta il negoziato sui dazi e la premier ne ha approfittato per invitarlo a Roma, a un incontro anche con un rappresentante dell’Europa, dicendo che Stati Uniti e Italia hanno l’obiettivo comune di difendere l’Occidente, non inteso come area geografica ma come blocco culturale e politico.
Che il clima fosse quello di una possibile intesa e non di una cacciata dalla Casa Bianca, come accaduto in diretta tv con il presidente ucraino, lo si era capito già prima che il vertice tra Trump e Meloni iniziasse. Le dichiarazioni che arrivavano da Washington lasciavano intendere che la visita del presidente del Consiglio negli Stati Uniti, primo incontro di un leader europeo con il nuovo presidente americano, era stata preparata con cura. Funzionari dell’amministrazione Usa avevano infatti lasciato filtrare giudizi molto positivi nei confronti del premier. «Gli Stati Uniti», aveva fatto sapere un funzionario della Casa Bianca, «sono orgogliosi dell’alleanza strategica con l’Italia. Non vediamo l’ora di farla evolvere e continuare il rapporto stretto tra il presidente Trump e il presidente Meloni». Il premier italiano può essere un «ponte» per il negoziato commerciale tra Stati Uniti e Unione europea, aveva fatto sapere un altro funzionario dell’amministrazione Trump durante un briefing con un gruppo ristretto di giornalisti.
Insomma, il clima in vista dell’appuntamento appariva da subito diverso da quello di due mesi fa con Volodymyr Zelensky. Nessuna polemica, zero rimostranze. Anzi, lo stesso Trump, prima che iniziasse il vertice bilaterale ha voluto rilasciare una serie di dichiarazioni positive, con giudizi entusiastici sul presidente italiano. E Giorgia Meloni, interpellata, ha parlato di un possibile accordo nell’interesse dell’Italia, senza dimenticare l’Europa, per cui la premier non aveva alcun mandato ufficiale a trattare, ma di cui evidentemente ha ben presente priorità e interessi.
Trump è apparso per niente bellicoso, a differenza di quanto auspicavano giornalisti e opposizione. Rispetto al gelo che era calato nella sala della Casa Bianca durante l’incontro di Zelensky, il clima era totalmente disteso. Giorgia Meloni in pratica ha aperto uno spiraglio per una trattativa diretta con l’Europa, da tenersi a Roma allo scopo di ridurre o annullare i dazi. E Trump ha replicato con parole di apprezzamento.
Una sinistra mortificata da risultati assai diversi da quelli attesi si è ovviamente subito impegnata a sminuire la portata dell’incontro, parlando di risultati pressoché inesistenti. Tuttavia, se si pensa che l’Alta rappresentante dell’Unione per le relazioni internazionali, ovvero Kaja Kallas, pur essendo volata negli Stati Uniti non è stata ricevuta nemmeno dal segretario di Stato, Marco Rubio, e che il commissario Ue per il commercio e la sicurezza economica, Maros Sefcovic, negli States ha fatto un buco nell’acqua, mentre Ursula von der Leyen nemmeno ha provato a organizzare una missione a Washington, quello di Meloni appare un viaggio non solo utile, ma di successo. Con buona pace di chi, come la segretaria del Pd, Elly Schlein, (ma potremmo aggiungere anche altri, tra i quali Nicola Fratoianni) ha intimato al premier di non trattare nell’interesse dell’Italia, perché qualsiasi negoziato avrebbe rappresentato una rottura nel blocco europeo. Il Partito democratico e i suoi alleati probabilmente preferiscono una guerra dei dazi a un’intesa. Forse convinti che le tariffe doganali avrebbero potuto aiutarli a mettere in difficoltà il governo. Un vero esempio, il loro, di tutela degli interessi nazionali. Più che politici, iettatori. Ma il giorno 17 a Meloni ha portato bene.