Matteo Piantedosi (Ansa)
Il ministro: «Sulle keybox applichiamo una norma esistente». Il Carroccio è contrario.
«Non mi spingo a dire che Milano è una città sicura». E se non si spinge nemmeno Beppe Sala a dirlo, chi può farlo?
Una dichiarazione del genere, dopo la mezza sommossa degli stranieri al Corvetto, sarebbe sufficiente per invitarlo a riporre gli oggetti personali in uno scatolone e a lasciare Palazzo Marino. Sì: è sindaco da più di otto anni, ora si accorge che Milano non è sicura. Tutto normale? Ed è normale che l’eurodeputata Ilaria Salis, su Instagram, benedica le barricate? L’onorevole, ieri, ha rilanciato il post di una pagina di «giovani di origine migrante e operaia», «da leggere tutto d’un fiato»: «La rivolta è l’ultima e la prima arma di chi non ha nulla». Maurizio Landini deve aver fatto scuola, anche se lei era già ben istruita. Salis chiede «verità e giustizia. Ramy vive». Ramy Elgaml era l’egiziano di 19 anni morto in un incidente in motorino: insieme a un giovane tunisino, stava scappando dai carabinieri. Domani sera, sarà ricordato con una fiaccolata nel quartiere sudorientale del capoluogo lombardo. «Si sentiva italiano», ha commentato il padre.
«Non serve a nulla crocifiggere questa città», si giustifica Sala. «Sta facendo uno sforzo per un modello che non è del centrosinistra, ma che caratterizza tutte le città internazionali». È un modello che forse accontenta chi risiede entro la Cerchia dei Bastioni, chi compra appartamenti panoramici nei grattacieli, le multinazionali, le modelle , i viveur. Tutto bellissimo. Ma poi ci sono le periferie. Anzi: il sindaco non vuole si parli «in senso generico di periferie»; semmai, di «problemi in alcuni specifici quartieri». D’accordo. Fatto sta che al Corvetto, situato a soli due chilometri e mezzo dalla centralissima Porta Romana, di problemi ce ne sono parecchi. È «molto esagerato» assimilarlo alle banlieue, sostiene il ministro dell’Interno, che ieri era in Prefettura per un vertice con lo stesso Sala, il prefetto Claudio Sgaraglia e il questore Bruno Megale. Ne è scaturito un piano stile San Siro: un misto di controlli, sgomberi e progetti sociali. Il sospetto è che a separarci dall’inferno dei ghetti francesi, ormai, ci sia solo il tempo: da noi gli immigrati sono il 10% della popolazione, Oltralpe già più del 14. Appunto: con i confini permeabili e i magistrati poco collaborativi, è questione di tempo. «Non si può dire che Milano sia una città fuori controllo», ribadisce Matteo Piantedosi. E il Viminale promette 600 agenti in più da gennaio 2025.
Il primo cittadino, ovviamente, non è uno sceriffo. E i guai di Milano non sono solo colpa sua. Però, dalla sua posizione, ha il compito di sorvegliare, segnalare, tampinare l’esecutivo per risolvere le emergenze di ordine pubblico. In otto anni e mezzo, sono stati affrontati quei famigerati «problemi specifici di alcuni quartieri»?
Sala conferma la propria linea: non basta «agire solo con la repressione». «Milano è una città che vuole continuare a essere accogliente e a integrare». Lo racconti a chi ha paura di uscire di casa, perché magari mentre è fuori gliela occupano. La metropoli, aggiunge, ha bisogno degli stranieri: se no, chi la «manda avanti nei lavori che i nostri figli non vogliono più fare?». Il luogocomunismo danza con le frasi precotte: l’integrazione «non deve essere in contrapposizione al fatto che le regole devono essere rispettate». Già. Si rivolge ai milanesi o ai figli degli immigrati? Sala parla da chi ha il polso della situazione: «Io ci sono stato», al Corvetto, «con il comandante dei vigili, in pattuglia, tre settimane fa». Ma non ha dovuto inseguire un egiziano e un tunisino in scooter, com’è successo ai carabinieri il 24 novembre. L’altro ieri aveva accusato la destra: le piace «fomentare queste situazioni». Gli ha risposto il governatore della Lombardia, il leghista Attilio Fontana: «Bisogna prendere atto di una incapacità di integrare alcune fasce dell’immigrazione. Fintanto che si cerca di scaricare le responsabilità, non si va da nessuna parte».
«Il ministro dell’Interno Piantedosi ha confermato la grave e preoccupante situazione che vede, in città, il 65% dei reati commessi da stranieri», ha sottolineato il meloniano Riccardo De Corato, vicepresidente della commissione Affari costituzionali alla Camera ed vicesindaco nelle giunte milanesi di centrodestra. Vero. Il titolare del Viminale critica un sistema di integrazione che passa solo per «un pezzo di carta». «Non basta essere munifici con il rilascio di permessi di soggiorno». Piantedosi, comunque, smorza i toni. Forse, per evitare che si riaccenda la miccia della sedizione, capeggiata da un montenegrino clandestino, trasferito ieri dalla cella ai domiciliari.
A margine della riunione in Prefettura, a proposito dell’incidente di domenica, il ministro si limita a invocare «comprensione per la difficoltà del lavoro delle forze di polizia». Concede che le proteste del Corvetto sono «segnali che vanno tenuti in considerazione», giura che «non sono stati sottovalutati e non verranno sottovalutati», «perché sono segni di un disagio». Chi scende in strada a dare fuoco alle auto si ritrova compatito dalle istituzioni; chi in quel «disagio» ci affonda da anni in silenzio continua a essere ignorato. Piantedosi rassicura: il fenomeno di «effervescenza» del Corvetto è «in regresso». Il Corvetto non è una banlieue. Non ancora?