Stefania Craxi (Imagoeconomica)
La figlia di Bettino: «Quando il pool di Milano bazzicava il consolato americano, tutti zitti. Dalla sinistra due pesi e due misure. Oggi come ieri, i giudici esondano: serve una legge».
«Volete capirlo che questi di Milano stanno facendo una rivoluzione? E le rivoluzioni si sono sempre fatte con le ghigliottine e i plotoni d’esecuzione. Perciò cosa vuoi che sia qualche avviso di garanzia o qualche mandato di cattura di troppo? Eppoi Luciano mi ha detto che possiamo stare tranquilli, perché Mani Pulite non se la prenderà con noi». La frase è di 31 anni fa e Giovanni Pellegrino, ex parlamentare del Pci e del Pds, ma soprattutto ex presidente della giunta per le autorizzazioni a procedere durante il periodo di Tangentopoli, la attribuisce tra virgolette a Massimo D’Alema. L’intervista a uno dei protagonisti della stagione che decretò la fine della prima Repubblica, e la cancellazione del pentapartito con cui si sarebbe dovuta spianare la strada alla gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, è stata pubblicata ieri sul Corriere della Sera. Pellegrino rivela i retroscena dell’iniziativa giudiziaria che portò all’arresto di molti onorevoli e, di fatto, alla liquidazione del Psi e del suo leader Bettino Craxi, oltre che alla sparizione della Dc. A D’Alema, dice l’ex senatore, spiegai che «Mani Pulite non tendeva a colpire la corruzione amministrativa, ma il finanziamento irregolare della politica, per svuotare di forza i partiti. Tutti i partiti. Per renderli deboli finanziariamente e politicamente. E per realizzare così il primato del potere giudiziario». In pratica, Pellegrino nel colloquio con Francesco Verderami ricostruisce quello che potremmo definire un golpe, condotto per di più strizzando l’occhio alla sinistra, come lui stesso ammette facendo riferimento al ruolo di Luciano Violante, ex magistrato e a quei tempi esponente tra i più autorevoli del Pds. «Era stato Borrelli di fatto a teorizzarlo (il colpo di Stato, ndr) in un’intervista. Aveva detto che se l’Ottocento era stato il secolo dei parlamenti e il Novecento quello degli esecutivi, non escludeva che il secolo seguente sarebbe potuto essere il secolo della giurisdizione».
Le parole dell’ex presidente della commissione da cui passavano le richieste di autorizzazione a procedere della magistratura, sono gravi, ma ancor più grave è il silenzio con cui sono state accolte. Non si hanno notizie di reazioni da parte di Massimo D’Alema, forse troppo occupato a fare affari in Albania e negli incontri al Quirinale con Sergio Mattarella. Zero commenti anche da quest’ultimo, che pure è sempre pronto a esternare sull’Europa, sulle riforme e sui migranti. Zitto persino Achille Occhetto, che secondo Pellegrino fu sollecitato a riconoscere che il suo partito, cioè il Pci-Pds, riceveva «soldi irregolarmente». I finanziamenti che prima arrivavano tramite Mosca, con la caduta dell’Unione sovietica giungevano grazie al sistema delle cooperative rosse, spiega l’ex senatore, alle quali erano assegnati appalti pubblici nella misura del 10-15%, soldi che poi in parte venivano retrocessi tramite il sostegno alle iniziative di Botteghe oscure.
Sì, un silenzio generalizzato è calato sulle rivelazioni di Pellegrino. E invece ci sarebbe molto da dire. E non tanto per rifare la storia di Mani pulite, del protagonismo di alcuni magistrati e del disegno politico che secondo l’ex presidente della commissione stragi (guidò anche quella) «si basava sul primato del potere giudiziario, un principio in contrasto con il disegno costituzionale», ma per comprendere le ragioni per cui oggi è necessaria una profonda riforma della magistratura. Secondo le rivelazioni contenute nell’intervista al Corriere, non solo le Procure «salvarono» il Pci Pds, ignorando il sistema con cui Botteghe oscure alimentava le attività del partito, ma ci fu il potere giudiziario che cercò di sopraffare il potere legislativo e quello esecutivo, con un’operazione che a giudizio di Pellegrino fu una specie di colpo di Stato.
Perché sono importanti le rivelazioni dell’ex presidente della giunta per le immunità? Perché c’è un motivo in più per fare in fretta la separazione delle carriere fra pm e giudici con l’istituzione di due Csm, allo scopo di tagliare per sempre le mani alle correnti. Mani pulite fu una degenerazione del Sistema in contrasto con la Costituzione. E se vogliamo che non si ripeta, c’è un solo modo: limitare il potere che i pm hanno sulla politica e sulla stessa magistratura.
Dall’inchiesta della Procura di Genova che ha portato all’arresto del governatore Giovanni Toti emerge un vero e proprio magna magna. L’ultimo tassello della grande abbuffata l’hanno rivelato ieri i giornaloni: il presidente della Liguria in estate si è attovagliato in quel di Montecarlo con il terminalista più liquido del Ponente, e anche del Levante, ma non ha pagato il conto. Sì, è questa l’ultima grande notizia scagliata contro l’ex direttore del Tg4 prestato alla politica. Nel Principato ha mangiato a sbafo. Altro che nuova Tangentopoli, come tuona Giuseppe Conte, il quale ha subito indossato la toga, ma non da avvocato quale è, bensì da pm. Da Mani pulite siamo passati a Posate sporche: nuovo capitolo dello scandalo nazionale che accompagna i rapporti fra imprenditoria e politica. Trent’anni fa la mazzetta si nascondeva nei pouf, adesso è camuffata con un piatto di spaghetti allo scoglio. Ovviamente, nel menù à la carte delle grandi testate non tutto viene servito sullo stesso piatto. Se c’è da fare ai ferri Toti non si lesina la fiamma, se invece l’ospite da accogliere è un ex potentone come Claudio Burlando, ex ministro ed ex governatore ma tuttora gran consigliere del Pd e pure di Spinelli, allora il pranzo non riserva alcuna sorpresa. Del resto, a bordo dello yacht del magnate ligure, lo stato maggiore del Pd, capitanato dall’uomo beccato ad andare contromano in autostrada, si è rimpinzato solo con delle banalissime lasagne al ragù. E poi, diciamoci la verità: un conto è attovagliarsi a Montecarlo, un altro è mangiare su un panfilo ancorato alla Foce. È stato proprio Burlando a rimettere le barche a posto, precisando con un’intervista a un giornalone, il quale se l’è bevuta in un lampo, che lui non solo sul natante di Spinelli è andato per fornire un’opinione, ma è rimasto in porto. Insomma, niente gita in alto mare e, soprattutto, nessun soggiorno a Montecarlo. La Costa Azzurra a quanto pare fa la differenza: un conto è pranzare a Genova, un altro a Monaco. Da quel che si capisce, l’aggravante scatta dopo Mentone.
Oddio: a carico di Giovanni Toti poi c’è quell’accenno alla patata e al caviale fatto in una conversazione captata dalla Guardia di Finanza. Invece di parlare di acciughe fritte rigorosamente liguri, il governatore fa riferimento a un cibo da ricchi e come se non bastasse importato principalmente dalla Russia o dall’Iran, il che rischia di costargli un sovrappiù di accuse, ovvero di essere filo Putin o filo ayatollah. Sì, gratta gratta nell’inchiesta di Genova spunta proprio la grana grossa. Grana intesa come guaio, non come scaglie di formaggio. Toti mangiava e non pagava. Roba da condannarlo alla dieta, ma non come quella volta che Silvio Berlusconi lo portò in una clinica sul lago di Garda, dove al massimo il futuro presidente della Liguria perse qualche etto. No, qui dopo la grande abbuffata denunciata dai giornali c’è da metterlo a pane e acqua. Altro che domiciliari in quel di Ameglia, dove coccolato dalla famiglia rischia pure di metter su qualche altro chilo.
Lo so: vi state chiedendo dove voglia andare a parare con questa storia del conto al ristorante non pagato e con la patata al caviale andata di traverso dopo l’intervento delle Fiamme gialle. La risposta è semplice: se dopo una settimana di accuse, tocca parlare di un pranzo a sbafo siamo proprio alla frutta. Vuol dire che i giornaloni non hanno trovato altro da servire e sperano che i loro lettori siano di bocca buona e si pappino anche questo.
Per quel che mi riguarda, le ordinanze di custodia cautelare e anche i verbali d’interrogatorio sono abituato a leggerli fino in fondo. E dunque, ciò che Spinelli avrebbe rivelato ai pm, e cioè il pasto gratis del presidente, è accompagnato da una precisazione. Infatti, il terminalista più liquido e più furbo di Genova, nel suo interrogatorio fa presente che essendo un habitué del casinò di Montecarlo e anche un forte giocatore, lui non paga il conto, perché gli viene offerto.
Perciò tocca rimettere nel taschino la stilografica: della grande abbuffata per ora si vedono solo le briciole. Vale a dire quei 74.000 euro in tre anni, versati con regolare bonifico. Il sistema che Spinelli ha usato con tutti i partiti. Come dice lui: pagava tutti. Chissà però se oltre a pagarli li invitava a cena o a pranzo. E quante volte.