Sara Giudice (Ansa)
Una dirigente della tv di Stato ha dichiarato che i due non hanno mai avuto rapporti.
Se un politico venisse indagato per stupro sono certo che la notizia rimarrebbe segreta per non più di mezza giornata. Lo stesso dicasi nel caso in cui a finire iscritto nel registro della Procura fosse il figlio di un onorevole o di qualche potente. Invece, se a essere denunciato per un reato odioso come la violenza sessuale è un giornalista, per di più di sinistra, i fatti a quanto pare dovrebbero essere tutelati dalla privacy. È questo l’insegnamento che ho appreso ieri, dopo che La Verità ha pubblicato la notizia di un’inchiesta dei pm di Roma a carico di due colleghi, uno di Domani e l’altra di Piazza Pulita. Entrambi sono stati accusati da una giovane collega di stupro, con l’aggravante dell’uso di sostanze alcoliche o droga. La notizia risale allo scorso anno, ma nessuno fino a ieri ne ha saputo nulla, nonostante i due giornalisti, marito e moglie, siano abbastanza noti nelle redazioni della Capitale. Il nostro giornale ha dato ieri notizia dell’inchiesta, precisando che la Procura ha chiesto l’archiviazione e la presunta parte offesa si è opposta. Spetterà al giudice per le indagini preliminari decidere se chiudere il caso oppure predisporre un supplemento d’inchiesta o, addirittura, ordinare il processo. In casi del genere, i giornali scrivono senza freni inibitori, rivendicando il diritto dell’opinione pubblica a essere informata, e accusando quanti vogliono imporre dei limiti di voler censurare la libertà di stampa. Essendoci invece di mezzo due colleghi, per di più spesso impegnati a denunciare il malcostume della politica, ai cronisti si è esaurita la penna.
Chi è stato «costretto» a riprendere la notizia della Verità lo ha fatto con un po’ di fastidio, dando voce principalmente ai legali dei due giornalisti, i quali si sono scagliati con violenza contro di noi, colpevoli a loro dire, di aver «volutamente falsato» i fatti e annunciando denunce, tra cui una per calunnia nei confronti della presunta vittima. Per quanto ci riguarda, i fatti sono quelli contenuti nella richiesta di archiviazione dei pm: nulla di più, nulla di meno. Di falso, semmai, c’è solo qualche passaggio contenuto negli articoli «difensivi» pubblicati online da alcuni giornali, che hanno dato per scontato ciò che scontato non è. Quanto alla querela per calunnia nei confronti della donna, stupisce che a un anno dai fatti portati all’attenzione della magistratura, i legali non l’abbiano ancora presentata. Certo, si può aspettare la chiusura delle indagini, ma se la vicenda è palesemente infondata, come sostengono gli avvocati, perché annunciare l’intenzione di procedere per calunnia solo dopo la pubblicazione della notizia?
Ma lo stupore più grande non riguarda la reazione dei legali, che devono pure guadagnarsi la parcella, bensì quella dei giornalisti, alcuni dei quali sembrano più premurosi degli stessi avvocati. Ai tempi del Me too certo non sono andati leggeri nel raccontare le molestie dei potenti, sposando la causa di chi denunciava anche con vent’anni di ritardo. E nemmeno sono andati leggeri quando il presunto colpevole non era di sinistra e il fatto che la supposta vittima fosse in preda ai fumi dell’alcool e della droga non è certo stato giudicato un ostacolo a sostegno dell’accusa.
Ovviamente, noi non sappiamo che cosa sia successo fra i due giornalisti accusati di stupro e la collega. Se davvero ci sia stata l’intenzione di una partouze, se la presunta vittima abbia equivocato o se semplicemente ci abbia ripensato.
Né sappiamo se fosse lucida o se qualcuno l’abbia volutamente forzata a bere per abusare di lei. O, ancora, se si sia inventata tutto.
Cosa sia successo lo stabilirà un giudice. La sola cosa certa, che non è «volutamente falsa», è la denuncia, atto che ha spinto la Procura a iscrivere due giornalisti nel registro degli indagati e a interrogare diversi testimoni. Ribadisco: fosse stato un politico, i giornali avrebbero versato fiumi d’inchiostro e intervistato tutti i protagonisti. Ma siccome si tratta di colleghi, evidentemente avrebbe dovuto prevalere la congiura del silenzio.
Aggiungo due ultime considerazioni. La prima è ovvia: qui non si sta parlando di vicende che attengono alla sfera affettiva e sessuale delle persone, ma si discute di un possibile reato. Tra persone consenzienti ognuno è libero di fare ciò che vuole. Ma, appunto, tra persone consenzienti. L’altra considerazione riguarda un caso che tempo fa ha fatto discutere e molto. Si tratta dell’annuncio di una partouze, anzi di un «threesome» (pare che andare a letto in tre si dica così), che a quanto risulta non è mai avvenuta, ma su cui Andrea Giambruno aveva scherzato in un fuori onda tv con una collega. Il caso è finito in prima pagina ed è costato anche una separazione tra il collega (di destra) e il presidente del Consiglio (sempre di destra). In quel caso, la privacy non poteva essere invocata. Il riserbo, anzi l’autocensura, vale infatti solo se il collega è di sinistra.