È tornata Cécile Kyenge, o forse non è mai andata via. Di più: adesso progetta un rilancio politico in grande stile. La ricorderete certamente ministro dell'Integrazione ai tempi del governo Letta, nonché pasdaran dello ius soli; poi, nel 2014, è stata eletta al Parlamento europeo, un mandato che va in scadenza la prossima primavera. Dunque, bisogna darsi una mossa: per la ricandidatura, o per pesare nella conta congressuale Pd, o forse per nuove avventure a sinistra, o magari solo per volontà di impegno civile, chi può dirlo.
In ogni caso, nasce Afroitalian power initiative, e la madrina (cioè lei) vi convoca tutti a Modena (oggi e domani) per il lancio di non si sa bene cosa. Un movimento? Un partito? Un confuso (volontario o involontario) richiamo al black power, con evocazione subliminale di orgoglio razziale e lotta dura? Materiale infiammabile, vivamente sconsigliabile da maneggiare, eppure la Kyenge non sembra farsi troppi problemi. Basta farsi un giro sulla sua pagina Facebook, dove campeggia l'annuncio. Parole forti: «È tempo di farsi valere. Contro i soprusi e la discriminazione», che evidentemente – ci fa capire – in Italia devono essere all'ordine del giorno. E ancora: «Viviamo un momento storico in cui il rispetto della nostra identità di afroitaliani e dei nostri diritti sono costantemente messi a repentaglio». «Costantemente», avete letto bene. L'appello della Kyenge non si ferma, e sembra descrivere un panorama italiano simile all'Alabama in mano agli estremisti del Ku klux klan: «C'è chi vuole impedire ai nostri figli di usufruire dei servizi scolastici, c'è chi ci discrimina per il colore della pelle, c'è chi ci impedisce di vivere da persone libere». Questa la rappresentazione dell'Italia fatta da un ex ministro ed europarlamentare in carica, con cui forse questo sciagurato Paese non dev'essere stato così cattivo e feroce. Ma tant'è.
Se non vi basta il testo scritto, c'è anche l'appello audiovideo della Kyenge. Tailleurino fucsia, alternanza di sorrisi e faccine preoccupate, ripete pari pari la stessa pappardella: banalità sulla «crescente relazione tra Europa e Africa», e poi i temi forti: «Cittadinanza, diritti, ma anche protagonismo politico e autoaffermazione civica». Naturalmente, non mancano richiami a «rispetto, coesione, benessere e pace sociale«. Non avete capito bene?
Vi spiegheranno tutto i tre panel di discussione. Uno («Europa e Africa») sulle «opportunità di sviluppo legate ai fondi europei». Un altro («mpresa e Africa»), su come la «Diaspora Africana» (maiuscolo sia il sostantivo che l'aggettivo) «possa ancora prendere più coscienza del suo ruolo nell'economia italiana». Occhio all'ultimo: («Afroitaliani in movimento»), con al centro il tema delle «politiche di autoaffermazione civica e politica», perché «è tempo di dimostrare che ci siamo contro i soprusi e la discriminazione». E che ci sia un appello alla mobilitazione politica è chiaro: «Per dare voce a chi voce non ne ha», aggiunge l'ex ministro, «per esprimere un nuovo approccio alla partecipazione politica, economica e sociale degli afroitaliani». Per i curiosi dei dettagli, segnaliamo che a volte afroitaliani è scritto tutto attaccato nel testo, altre volte con il trattino a separare «afro» e «italiani». Ma veniamo al punto: davanti a questa convocazione e alle relative parole d'ordine, balzano agli occhi alcune contraddizioni, alcuni silenzi e omissioni, alcuni nodi poco rassicuranti.
Primo. Ma come? Il Pd e la sinistra ci hanno tormentato con l'«inclusione» e l'«integrazione», e poi ci propinano una manifestazione che evoca rivendicazioni etniche e perfino razziali? Immaginate se qualcuno avesse osato associare la parola «power» non agli «afro», non a cittadini di pelle nera e di origine africana, ma a cittadini di pelle bianca e di origine italiana. Si sarebbe gridato al razzismo, al nazismo, al suprematismo bianco. E invece qui si convocano manifestazioni che (magari involontariamente) assumono un carattere divisivo e rivendicativo, e perfino (ci auguriamo vivamente di no) di discriminazione al contrario e rovesciata.
Secondo. Nemmeno un cenno alle preoccupanti statistiche sui reati commessi dagli immigrati illegali? Il tema del rispetto della legge, dello stato di diritto, di una testimonianza di solidarietà per le vittime di quei crimini, non interessa? Nessun panel? Se scegli (opzione discutibile) di fare un appello e una convocazione a una sola comunità, dovresti forse sottolinearne i doveri e le responsabilità, non solo i diritti (veri o presunti).
Terzo. Per integrarsi, il primo passo è usare la lingua della nazione dove si va. Era necessario un titolo non scritto in italiano, che sembra rimarcare l'idea di una separazione, di un'estraneità, del rifiuto perfino di un primo essenziale codice di dialogo con l'Italia e gli italiani?
Quarto. Nemmeno un cenno al tema dell'integralismo religioso? Alla sempre più forte componente fondamentalista purtroppo presente in diverse comunità islamiche? Maltrattamento delle donne, mutilazioni genitali, antagonismo (o peggio) verso le altre confessioni religiose: neanche questo interessa? Meglio non parlarne?
C'è davvero da rimanere a bocca aperta. Non si tratta (lo faranno i mainstream media) di sorvolare perché il caso è imbarazzante. Né - al contrario - solo di presentare la cosa (lo faranno probabilmente altre testate) come una stravaganza, come la notizia curiosa della giornata. Occorre invece aprire una discussione molto profonda e molto seria su chi siano i pompieri e chi i piromani - sui temi delicatissimi della convivenza civile e delle diversità - nell'Italia di oggi.