In tournée in Giappone, fui invitato a suonare con la moglie di Akihito. Alla fine mi congratulai: «Complimenti, maestà».
Sono stato varie volte in Giappone per la mia attività concertistica. Quando si viene a contatto con la società giapponese, si ha l'impressione che tutto funzioni. C'è una cura quasi maniacale per il dettaglio, e lo si percepisce da ogni cosa: dall'accoglienza deferente e attenta, per esempio, dai gesti calcolati e misteriosi della cerimonia del tè, dall'osservanza della tradizione, costruita sulla sintesi tra artificio e raffinatezza… Tutto questo si traduce in uno stile di vita e di conoscenza, in un Paese che attribuisce grande valore alla cultura. Nello specifico, si comprende bene quale ruolo abbia rivestito la cultura musicale, con l'assimilazione di modelli di origine occidentale, nella fase di modernizzazione necessaria allo sviluppo del Paese.
L'attività musicale in Giappone è viva e differenziata, ricca anche in confronto agli standard europei: le istituzioni concertistiche, le orchestre, le manifestazioni e le università musicali sono molte. Buona parte della popolazione coltiva la passione per la musica: si pratica attivamente lo studio degli strumenti, sorgono complessi cameristici amatoriali, piccole orchestre e gruppi corali, e ci sono solisti non professionisti in genere ben preparati. Anche i luoghi dove si svolge la pratica musicale - le sale da concerto, di registrazione, e i teatri - sono un esempio di funzionalità, di perfezione acustica e di raffinata tecnologia al servizio della musica.
È nota la mia intransigenza in fatto di resa e ricerca del «bel» suono; ma quando ho suonato nelle sale da concerto e nei teatri di Tokyo e in altre città del Giappone, ho provato gioia. Avevo la certezza di poter dare il meglio di me poiché in questi ambienti il suono, elemento fondamentale della musica, è curato con attenzione. Qualche tempo fa, ero in tournée a Tokyo. Avevo appena concluso un recital: avevo eseguito musiche classiche e romantiche con la mia partner giapponese Shuku Iwasaki, ottima musicista che aveva frequentato i corsi dell'Accademia Chigiana collaborando con Casals e altri maestri. Ero in camerino quando arriva un giovane rispettoso, dai modi cortesi e raffinati. Si complimenta con me per l'interpretazione di una Sonata per violino solo di Bach. Mi disse che suonava la viola e amava moltissimo la musica da camera, perché era un'occasione d'incontro. Si presentò con semplicità dicendomi che era il figlio dell'imperatore e che sarebbe stato onorato se avessi accettato l'invito a recarmi al palazzo imperiale. La mia partner aveva osservato sorridendo tutta la scena. Era l'insegnante di pianoforte dell'imperatrice e organizzò un incontro per il pomeriggio del giorno successivo. Mi venne inviata una macchina che mi avrebbe condotto al palazzo. La residenza imperiale sorgeva nel centro di Tokyo ed era circondata da un grande parco e da un corso d'acqua. L'edificio, in stile antico giapponese, aveva molte rifiniture in legno e presentava un'architettura essenziale. L'interno era spazioso, arredato sobriamente con mobili bassi, quasi invisibili, e porte scorrevoli alle pareti. Percorsi un lungo corridoio su un tappeto bianco e morbido: avevo l'impressione di camminare su una nuvola. L'imperatrice mi accolse con cortesia e riservatezza. Vennero offerti il tè, alcuni minuscoli spicchi di frutta e un pasticcino, posto su un piattino microscopico.
In Giappone più si è raffinati e meno ci si nutre; e il cibo è sempre e comunque all'insegna della miniatura. Chiesi all'imperatrice se volesse suonare qualcosa con me; mi rispose di sì con gioia, pregandomi di scusarla, perché la sua esecuzione non sarebbe risultata impeccabile. Iniziammo con l'Ave Maria di Charles Gounod. Poi le proposi una Sonata di Mozart, più impegnativa. L'imperatrice la eseguì con diligenza ma con una certa timidezza: le suggerii di dare vita e libertà al fraseggio e di assecondare meglio le mie intenzioni interpretative. Ripetemmo il brano dall'inizio e lei eseguì con precisione ogni mio suggerimento, tanto che, alla fine, mi congratulai. «Complimenti, maestà», le dissi. Sorrise con la gioia di un'adolescente. «È troppo bello», rispose, «voglio chiamare l'imperatore». Entrò in una stanza e tornò, accompagnata dal marito, in convalescenza per un piccolo intervento chirurgico. Ero emozionato: avere davanti il simbolo nazionale del Giappone non è cosa da tutti i giorni. L'imperatore mi salutò affabilmente. Suonava il violoncello e mi pose molte domande sul mio strumento: dove e come era fatto, che tipo di suono aveva… Ritenni di far cosa gradita all'imperatrice invitandola a partecipare al mio festival a Roma per eseguirvi un programma a sua scelta. Lei si rivolse al marito: disse che ne sarebbe stata felice, ma l'imperatore rispose che spettava al governo valutare una tale opportunità, come accadeva per ogni vicenda, anche la più semplice, che riguardasse la famiglia imperiale. Visto che anche l'organizzazione delle vacanze era di pertinenza governativa, l'imperatrice mi fece osservare che il «cambiamento d'aria» non era necessario, poiché l'aria respirata nel parco della residenza imperiale era già molto salubre. Le feci notare che intorno al parco c'era una metropoli di venti milioni di abitanti; e capii che l'imperatore e l'imperatrice erano meno liberi di un cittadino comune.
A sera mi accomiatai da loro e li ringraziai, esprimendo il desiderio di trascorrere insieme altri momenti musicali così piacevoli. Loro mi accompagnarono alla macchina e rimasero a salutarmi mentre la vettura si allontanava. Solo con i miei pensieri, rientravo nel mondo. Ho pensato, mentre le loro figure si allontanavano, che un momento del genere non si sarebbe mai più ripetuto nella mia vita… Un commiato degli imperatori del Giappone. La città mi sfrecciava attorno.
Ho ripensato spesso al Giappone quando ho avuto la gioia di tenere corsi all'Accademia Chigiana di Siena. Tra gli allievi c'era la straordinaria violinista giapponese Sayaka Shoji, che ebbe il primo premio Paganini a 16 anni appena. Era impeccabile, non dava mai il minimo segno di stanchezza durante le lezioni, anche dopo un viaggio di 18 ore dal Giappone con cambiamento di fuso orario. Alle lezioni assisteva la madre di Sayaka, che annotava su un quaderno tutti i suggerimenti interpretativi e tecnici che io davo a sua figlia, in modo da non perdere nulla di quanto veniva detto.
Quel che ammiro nei giapponesi è proprio questa capacità incredibile di sacrificio, di serietà e umiltà, il desiderio di imparare e assorbire le tradizioni delle altre culture.