Diego Della Valle (Imagoeconomica)
Contattati Diego Della Valle, Giorgio Armani e la famiglia Beretta con la scusa di liberare dei giornalisti rapiti.
La Nato ha compreso che le nuove minacce e l'evoluzione delle dinamiche internazionali richiedono nuove strategie. L'agenda Nato 2030 ha tracciato la via per un rafforzamento delle capacità di deterrenza e difesa, nonché per l'allargamento delle partnership fuori dall'area euro-atlantica. Non a caso, recentemente il Centro Studi Machiavelli, presso la Link University a Roma, ha organizzato una conferenza che ha riunito esperti, dirigenti politici e militari per discutere di come l’Organizzazione atlantica potrà adattarsi e innovare, mantenendo un occhio di riguardo per l'interesse nazionale dell'Italia nel quadro della stessa Alleanza atlantica.
Dopo il saluto del ministro Guido Crosetto sono intervenuti l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, già capo Smd e ora presidente del comitato militare Nato, l’ex ministro Roberta Pinotti, il presidente Aiad, Giuseppe Cossiga e in rappresentanza dell’industria italiana il condirettore generale di Leonardo Lorenzo Mariani. I temi principali del dibattito si sono dipanati lungo il pilastro politico del fianco Sud della Nato, sull’integrazione tra tecnologie nell’era della digitalizzazione, l’importanza dei collegamenti sottomarini e – a tenere assieme i settori citati - il ruolo dell’industria come collante tra Difesa Comune Ue e quella transatlantica.
Non è mancato il momento di analisi delle attuali difficoltà e criticità abilmente sintetizzate dal top manager di Leonardo, Mariani. Mancanza di politica estera Ue, frammentazione e conseguente indebolimento dei progetti e ritardi nella trasformazione digitale. Con una domanda di fondo rivolta alla politica: <Sarà necessario rinunciare a pezzi di sovranità e in caso chi sarà disposto a fare il primo passo?>. Le risposte alle criticità ci sono e sono emerse all’interno dello stesso dibattito. <È arrivato il momento di incrementare in maniera significativa il livello di investimenti comuni europei, concentrandoli sui progetti collaborativi e focalizzandoli non solo sul procurement ma anche sulle attività di ricerca e sviluppo, a maggior ragione nei settori dove più forte è il gap con la concorrenza e quindi la dipendenza strategica continentale>, ha spiegato Mariani suggerendo altri sei ingredienti per la ricetta. Favorire il consolidamento industriale. Incentivare la cooperazione industriale di programma e tecnologica a partire da requisiti comuni. Favorire l’acquisizione di beni e servizi comuni. <Semplificare ed uniformare le regole di acquisizione e gestione di programmi comuni>, ha ribadito dettagliando il tema delle assegnazioni:<Ad esempio accorciando i tempi di assegnazione dei contratti e semplificando lo scambio di beni e servizi tra i Paesi partner. Adesso le regole nazionali sono spesso fortemente difformi>. Infine, gli ultimi due elementi per costruire la nuova torta della Difesa sono risultati la garanzia di tempi certi per il procurement consentendo alle aziende di pianificare gli investimenti necessari alla messa a terra dei progetti e il rafforzamento della supply chain transnazionale. <Le numerose iniziative europee che sono nate sotto l’egida di Edf come Asap, Edirpa, Edip>, ha ricordato Mariani, <vanno già in questa direzione ma non basta. Occorre aumentare la loro potenza di fuoco, vale a dire le risorse economiche necessarie alla loro implementazione ed occorre farlo con il necessario senso di urgenza, essendo le minacce alla nostra sicurezza incombenti, reali e vicine anche in termini meramente geografici>.
I riferimenti evidenziati da Mariani sono abbastanza ampi ma certamente Leonardo ha un piede ben piantato in uno dei programmi più interessanti all’orizzonte il Gcap. Il velivolo di sesta generazione assomma tutti gli elementi che mirano – una volta assemblati – a descrivere le capacità future della Nato. Superiorità aerea – o air dominance, come la definiscono gli americani – mista al multi-dominio e al controllo della quinta dimensione, la cybersecurity, ossia la protezione cibernetica dei dati, da garantire in base al cosiddetto approccio del “sistema dei sistemi.
Per partecipare a questa straordinaria trasformazione da una posizione di forza servono scelte innovative, acquisizioni selettive e accordi mirati. Meno di un mese fa Leonardo ha firmato una partnership strategica con Arbit Cyber Defence Systems, azienda danese specializzata in soluzioni di sicurezza dei dati per operazioni multinazionali e multi-dominio di Intelligence e Difesa in ambito Ue e Nato. L'accordo prevede una collaborazione per co-progettare, co-sviluppare e certificare una soluzione cross-domain, mirata a soddisfare i requisiti di cybersicurezza di programmi altamente complessi, multinazionali e multi-dominio, caratterizzati da un elevato livello di interoperabilità.
Quali? Si tratta di programmi chiave, alcuni dei quali vedono già un forte coinvolgimento di Leonardo - Gcap (Global Combat Aircraft Programme), Aics (Armoured Infantry Combat System), Joc-COVI (Joint Operation Center - Comando Operativo di Vertice Interforze) e Defence Cloud - che richiedono il trasferimento sicuro e rapido di informazioni tra diversi livelli di classificazione e qualifica, in linea con gli standard e le normative di sicurezza nazionali, europee e Nato. E a proposito dei nuovi rapporti con l’Alleanza in seguito all’arrivo alla Casa Bianca del nuovo presidente, Mariani ha evidenziato che l’elezione di Trump non cambierà in modo radicale l’atteggiamento degli Usa verso l’Europa <E’ possibile o meglio è certo che alcune richieste (come maggiori spese militari e maggiore autonomia strategica) verranno fatte in maniera più “brutale e vocale”, ma sarebbero state le stesse se avesse vinto la Harris: gli obiettivi geo-strategici americani sono rivolti verso altri quadranti geografici ed inoltre il concetto di America First è trasversale alle amministrazioni>, ha concluso il top manager di Leonardo ricordando a tutti i presenti che la Nato del 2030 non ci aspetta, va messa a terra già oggi. Anche perché è fondamentale comprendere che Europa e Nato rappresentano due facce della stessa medaglia per la sicurezza dei paesi occidentali: un’Europa forte significa una Nato forte. Non deve prevalere una logica di contrapposizione, ma quella della cooperazione, orientata al comune obiettivo della pace e della prosperità.
L’aria e il clima sono già cambiati e Donald Trump nemmeno si è insediato. Al momento le reazioni sul fronte europeo si registrano però solo su un fronte, quello della Difesa e in generale del riarmo sotto il cappello della Nato. Il neo segretario Mark Rutte ha subito ricordato di spendere di più per rientrare nella soglia del 2% del Pil. Il nostro ministro Guido Crosetto ha fatto eco e il commissario designato Andrius Kubilius si è spinto fino a proporre deroghe al Patto di stabilità. D’altronde tutti sanno cosa è successo ai tedeschi che prima irridevano Trump quando rammentava loro la necessità di riarmarsi e poi, durante l’amministrazione di Joe Biden, si son visti saltare Nord stream. Solo che la presa di coscienza del cambio di passo e di come le élite Usa sterzeranno sembra essere limitata alla Nato, come se l’atlantismo che ha caratterizzato anche l’ossatura Ue potesse limitarsi solo all’Alleanza atlantica.
C’è molto altro in ballo, almeno se l’economia europea non vuole essere travolta in via definitiva. Prima cosa, andrebbe abbandonata la retorica solita della Commissione che recita il motto: «Le crisi sono opportunità, ne usciremo più forti». Falso. Le crisi sono crisi e impoveriscono gli Stati. Dalle crisi si esce con una rottura forte del modello precedente, altrimenti si finisce solo con lo spendere altro denaro pubblico e quindi tassare i cittadini che diventano ancora più poveri. Invece ieri, ascoltando le audizioni dei candidati commissari, il refrain non è sembrato cambiare. Il delegato al clima, Wopke Hoekstra, ha bellamente ripetuto l’idea di tirare dritto sulla transizione green senza se e senza ma. Eppure è da qui che dovrebbe partire l’Ue. Ci auguriamo che l’arrivo di Trump possa essere da un lato la sveglia necessaria per uscire dal sonno ideologico e dall’altro una sapiente leva per i singoli governi (che saranno chiamati a lavorare ad accordi bilaterali), utile a scardinare il pensiero socialista che domina a Bruxelles. Rivedendo tutte le logiche della transizione il Vecchio continente potrà tornare a investire in nuove tecnologie, che è il solo modo per avere un rapporto un po’ più equilibrato con gli Usa e non subire l’avanzata cinese.
Non vale solo per le auto, ma anche e soprattutto per l’acciaio, di cui nessuno parla. Alla fine del 2025 entrerà infatti in vigore il Cbam, un sistema per tassare i beni di Paesi extra Ue prodotti con standard ambientali meno stringenti. Lo scopo sarebbe proteggere i produttori europei dal dumping, facendo pagare ai Paesi terzi la differenza dei costi di produzione e incentivandoli così ad allinearsi alle regole Ue per evitare questi dazi. L’approvazione finale del Consiglio è arrivata nel 2023. Gli altri Paesi percepiscono il Cbam come un ostacolo ingiustificato, che va a svantaggiare chi ha piani di decarbonizzazione diversi da quelli europei. Vale tanto per le nazioni emergenti, come l’India, quanto per quelle più industrializzate, come gli Usa, che criticarono aspramente i progetti del Cbam già dall’epoca pre Ira. Così, mentre Bruxelles lavorava sui dettagli della strategia, Washington approntava l’alternativa: il Global arrangement on sustainable steel and aluminum, o Gassa.
In pratica uno schema che ha regole più flessibili e mirato a creare un club di Paesi che saranno in grado di bypassare le ferree regole Ue. Significa che saremo tagliati fuori, e l’acciaio Ue rischia di fermarsi. Senza, non si è più produttori. La soluzione? Fare marcia indietro. Il governo italiano ne ha fatto richiesta timidamente. Ora che arriva Trump, bisogna accelerare. Infatti in questi giorni ci si concentra sui dazi che la Casa Bianca rimetterà in piedi. Ieri Prometeia ha diffuso un report secondo il quale le nuove tariffe costerebbero oltre 4 miliardi. Può essere: va però detto che negli ultimi 12 anni (eccetto il 2020 per via del Covid) l’export italiano verso gli Usa è salito del 60%. I dazi infatti pesano molto di più sull’italian sounding, che è esattamente la concorrenza che mette in difficoltà le nostre aziende. Un modo per dire che le relazioni politiche conteranno moltissimo per navigare nel mare magnum dei nuovi confini che andranno formandosi con la fine della globalizzazione. Se l’Europa però continuerà a soffermarsi sugli effetti e non sulle cause (cioè la strategia economica) allora resterà ai singoli Stati confrontarsi con l’amministrazione Trump.
Ma qui si apre un tema dimensionale. L’Italia, e lo stesso vale per gli altri Paesi, è troppo piccola per far fronte alla massa di investimenti che la nuova economia dello Spazio e dei dati richiede. Insomma, non serve più Europa come continuano a ripetere gli eurocrati. Ma serve un’altra Europa, che non regoli e non tassi il respiro. Serve voglia di costruire satelliti, razzi, mega data center e, come ricordava ieri un amico tra i più grandi esperti di nuove tecnologie, serve la voglia di tornare a lottare. E la cultura woke è esattamente l’opposto. La resilienza è un termine da bandire dal vocabolario. Selezione naturale è invece il nuovo motto da imbracciare. Che senso ha essere inclusivi se significa non avere più aziende esclusive? Se si azzera la mentalità dell’ultimo decennio e si cambia registro sociale, a quel punto Trump non sarà un problema ma una leva. Chi governa nei prossimi mesi dovrà interrogarsi su cosa possa significare l’atlantismo. Il nuovo atlantismo. Certamente vuol dire abbracciare strategie economiche che possano incastrarsi nel puzzle che gli Usa creeranno. Vuol dire ricavarsi una cerchia di tecnologia che ci lasci un pezzo di sovranità, senza conflitti o divisioni tra una sponda e l’altra dell’oceano. Vuol dire prendersi la responsabilità militare del Mediterraneo come ponte tra Usa e Cina, e non più solo come un lago che va da Nord a Sud portando problemi di immigrazione e instabilità. Le variabili sono tante, forse troppe per una classe dirigente affamata di idee a brevissimo termine.