Susanna Camusso (Ansa)
In un verbale inedito, il supertestimone del caso Gedi rivela di aver messo al corrente delle irregolarità i vertici della Cgil.
I furbetti della truffa previdenziale ritenevano di poter contare su una rete di relazioni. A partire dall’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria Vito Crimi, che poi si è trasformato nel capo politico dei Cinque stelle.
Il 2 settembre 2018 Monica Mondardini, ex presidente e ad di Gedi e già presidente del Cda della Manzoni spa, attende notizie da Francesco Dini, capo della direzione Affari generali di Cir spa, che aveva appuntamento con Crimi. La conversazione, annotano i magistrati, tocca prima temi di carattere generale legati a finanziamenti per l’editoria. Ma l’argomento che in quel preciso momento sta a cuore a Mondardini è il taglio dei costi. Dini riferisce l’esito dell’incontro e, riferendosi al sottosegretario, sostiene di «averlo convinto a parlare di lavoro, ristrutturazione, ammortizzatori sociali e pubblicità». Crimi deve aver mostrato una certa apertura nei confronti degli uomini della struttura del gruppo editoriale che fino a poco tempo prima aveva dedicato paginate alle inchieste giudiziarie sulle sindache pentastellate Chiara Appendino e Virginia Raggi, visto che Dini riferisce che «la cosa è andata straordinariamente». Inoltre, come se i manager facessero parte di una centrale di spionaggio, Dini dice alla collega di ritenere di essersi «organizzato per conto suo», si legge nel decreto firmato dal gip di Roma, «in modo da avere un vantaggio anche competitivo sulle informazioni da ottenere attraverso Marina Macelloni (presidente del cda dell’Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti), Mimma Iorio (direttore generale dell’Inpgi) e Ferruccio Sepe (capo dipartimento per l’Informazione e l’editoria della presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero l’uomo macchina dell’ufficio nel quale passano le istruttorie per i prepensionamenti) «per cercare di capire quando arrivano le risorse in dotazione sulla 416 che secondo me 2019, secondo la Iorio 2020».
La 416 è la legge del 1981 che prevede la possibilità, per i giornalisti dipendenti di società editoriali in stato di crisi, di accedere al trattamento di pensione anticipata. Gedi con molta probabilità, dopo aver mandato a casa con quelli che la procura definisce «artifizi e raggiri» non pochi manager demansionandoli per finta, puntava al finanziamento della 416 per togliersi davanti, tramite i prepensionamenti, anche un po’ di giornalisti. Il gip, infatti, sottolinea: «In proposito, è di rilievo evidenziare che la possibilità per le aziende di accedere ai prepensionamenti nel settore editoria non è assoluta, ma dipende dalla quantità dei fondi stanziati periodicamente dal governo, quantomeno per il personale giornalistico. Da qui la conseguenza che non tutti possono beneficiarne, ma solo le aziende che a tali fondi riescono ad accedere, per il tramite del ministero del Lavoro, che autorizza le istanze».
Mondardini e Dini, quindi, secondo l’accusa, «si stavano attivando, attraverso organi istituzionali, al fine di ottenere i fondi necessari per una nuova procedura di prepensionamento da adottare nel gruppo Gedi». D’altra parte, la legge permette alle aziende di liberarsi di giornalisti che abbiano almeno 58 anni d’età e 18 anni di contributi. Caratteristiche che avrebbero permesso a Gedi di individuarne un bel fascio. Inoltre, hanno scoperto gli investigatori acquisendo gli elenchi del personale dipendente delle società del gruppo, tra grafici e poligrafici (in alcuni casi ex manager spacciati per tali) sarebbero stati collocati in pensione sfruttando la 416 circa 590 lavoratori tra il 2008 e il 2016.
Tra questi sono state individuate 137 posizioni di dipendenti distinte nelle diverse tipologie di comportamenti indicati come «truffaldini», tra demansionamenti, trasferimenti, transiti e riscatti, che, al mese di ottobre 2017, avevano già causato all’Inps un danno di circa 18 milioni di euro. Ma oltre a Crimi il futuro di Gedi, stando a una chiacchierata tra Danilo Di Cesare, ex rappresentante sindacale interno al gruppo Gedi, indagato, e il collega Vincenzo Di Martino, ex dipendente dell’agenzia di stampa Ansa, rappresentante sindacale anche lui, avrebbe destato la curiosità anche di Nicola Morra, altro pentastellato, a capo della commissione parlamentare Antimafia. È il 17 luglio 2018 quando i due sindacalisti fanno riferimento a un incontro «da tenersi al ministero (presumibilmente, stando alle carte dell’inchiesta, il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, in quel momento guidato da Luigi Di Maio, ndr)» per trovare una soluzione per i poligrafici.
I due usano il termine «sanare», con particolare riferimento a «quelli che j’hanno mandate», da intendersi verosimilmente a coloro i quali l’Inps aveva inviato le lettere di sospensione delle pensioni, per illeciti riscatti contributivi. Ed è a questo punto che Di Martino afferma di sapere che di questa faccenda «si stava interessando anche l’onorevole Nicola Morra». E infatti, il 19 luglio 2018, quindi solo due giorni dopo l’ultimo riferimento a un incontro al ministero, quando l’ex sindacalista indagata della Cgil Fidelma Mazzi parla con una certa Paola, le due fanno riferimento a un incontro da tenersi proprio al ministero del Lavoro, definito dalla Mazzi «un po’ aumma aumma». A settembre, però, Mazzi viene convocata dalla polizia giudiziaria. E al telefono con Di Cesare esprime non poca preoccupazione. I due prima dell’interrogatorio cercano di immaginare cosa possa volere la pg. Di Cesare prova a dare un’interpretazione: «Mi viene in mente ’na cosa del genere, che la signora del ministero veniva a fare le... le, le, le, le, le, le verifiche e poi ce le facevano firmare a noi... e però noi non è che eravamo presenti eh, perché le verifiche le faceva ’sta signora del ministero».
Secondo gli investigatori si tratta delle visite ministeriali per verificare lo stato delle procedure di prepensionamento del gruppo Gedi. I due sindacalisti, è annotato negli atti dell’inchiesta, ammettono «che non erano presenti [...] pur avendo sottoscritto i relativi verbali». Fatto sta che in una ulteriore conversazione, tra Di Cesare e Di Martino, torna il tema delle relazioni nei palazzi che contano. I due, a proposito dei «riscattati» ai quali è stata sospesa la pensione, fanno riferimento a una possibile soluzione da trovarsi «a livello politico» o per «l’interessamento del boss dell’istituto», ovvero, secondo chi indaga, «il presidente dell’Inps». Ma anche questo appare come un terreno scivoloso. È proprio Di Cesare ad ammettere che «gli interessati», però, «non conoscono il nominativo dell’azienda relativamente alla quale sono stati riscattati i periodi lavorativi». Probabilmente era solo un altro dei tanti trucchetti.