Mario Draghi (Ansa)
Tutti impazziti per la gabelle americane che secondo la Commissione varrebbero circa 120 miliardi. Intanto Bruxelles tira dritto sull’utopia ambientalista che erode all’Unione ogni anno 1.285 miliardi.
Donald Trump (Getty Images)
Trump annuncia in contemporanea lo stop globale e un ulteriore inasprimento per la Cina: «Ci ha mancato di rispetto. Invece gli altri Paesi hanno chiamato per negoziare e non hanno dato vita a delle ritorsioni».
Emmanuel Macron (Getty Images)
Le tariffe cambiano le priorità: via l’elmetto, tutta l’attenzione sul commercio. Riflessi in Borsa per Rheinmetall e Leonardo.
Ursula von der Leyen (Getty Images)
Ci vuole calma, altro che la vendetta della Von der Leyen. E poiché le esportazioni non sono tutte uguali, pure la reazione collettiva è stupida. Fa comodo alla Germania, che non s’è fatta scrupolo di lucrare sul suo surplus ai nostri danni. Perché dovremmo aiutarla?
C’è un modo sicuro per farci del male, ed è reagire ai dazi di Trump con altri dazi. Lo capisce anche un bambino, ma Ursula von der Leyen e qualche altro fessacchiotto a quanto pare, no. Se l’America, che importa merce per un valore di 100 euro, decide di applicare una tassa del 20 per cento su ciò che acquista e tu importi per 50 euro, non riuscirai mai, a meno di introdurre una irrealistica tassa del 40 per cento, a compensare i conti. Ma soprattutto dipende da che cosa importi, cioè quali prodotti e se il mercato ne offre di alternativi e a prezzi più bassi. Per questo il muro contro muro rischia soltanto di fare danni e di ricadere sulle spalle di chi pensa di reagire a una guerra commerciale con una guerra uguale e contraria. Ci vuole poco per farsene una ragione: se sei un grande consumatore, e gli Stati Uniti lo sono, hai diritto di decidere dove comprare e di volere condizioni migliori, vale a dire uno sconto, perché altrimenti ti rivolgi a un altro negoziante. Ma se sei il venditore, e in questo caso noi lo siamo, non puoi obbligare il cliente a continuare a comprare da te al prezzo che decidi tu, a meno che alla tua merce non ci sia alternativa. Questo semplice concetto, che regola la domanda e l’offerta, lo ha ben capito l’Associazione dell’industria chimica tedesca (ma anche tanti imprenditori italiani) che, mentre da giorni Ursula von der Leyen blaterava di vendetta, tremenda vendetta, ieri ha invitato tutti a mantenere la calma, avvertendo che «un’escalation non farebbe che aumentare i danni». Ovvio, nessuno, nemmeno gli industriali chimici della Germania, fa salti di gioia per la decisione di Trump, anche perché gli Stati Uniti sono il più grande mercato di esportazione per Basf e altri giganti del settore, ma occorre reagire a sangue freddo e volontà di negoziare.
Contrattaccare come se fossimo di fronte a un reato di lesa maestà mi pare una scemenza. Così come giudico una stupidaggine colossale l’idea di una reazione collettiva, cioè dell’intera Unione europea e per tutti i prodotti colpiti dai dazi americani. Le esportazioni pagheranno il provvedimento di Trump in modi differenti e non tanto per l’aliquota applicata, quanto per il fatto che, se vendi un prodotto che non è sostituibile, anche se la Casa Bianca lo tassa con il 20 per cento è molto probabile che non ci siano flessioni negli acquisti. Prendete il caso della Ferrari: all’annuncio dei dazi ha reagito comunicando un ritocco del listino. I ricconi disposti a spendere mezzo milione per un modello del Cavallino rampante non si faranno certo spaventare da 100.000 euro in più o in meno. Diverso è il caso della Volkswagen, dove il dazio sulla vendita di una Golf può fare la differenza. E lo stesso si può dire di Mercedes (il modello più venduto negli States è la Gla) o Bmw (le auto di maggior successo oltreoceano sono la X3 e la Serie 3). Insomma, non tutta l’industria automobilistica è colpita allo stesso modo. Così come il settore agroalimentare. Leggete che cosa ha detto ieri il presidente del Consorzio parmigiano reggiano, Nicola Bertinelli: «I dazi sul nostro prodotto passano dal 15 al 35 per cento. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il nostro è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente a una riduzione dei consumi». Attenzione: gli Stati Uniti rappresentano per il celebre formaggio italiano il 22,5 per cento della quota di export, da solo il parmigiano ha il 7 per cento del mercato nel settore dei formaggi duri. Però Bertinelli è convinto che alla qualità del prodotto che rappresenta non ci sia alternativa, perché i parmesan locali non sono una concorrenza. E ricorda che nel passato, quando pure furono introdotte imposte sulle importazioni, non ci fu un grosso calo delle vendite. Anche per lui, quindi, l’unica strada è intavolare un negoziato, non certo mettere dazi sui prodotti agricoli che importiamo dall’America.
Non capire che le esportazioni non sono tutte uguali è il guaio più grosso, come non comprendere che non sono uguali le condizioni di partenza dei Paesi europei. La Germania per anni ha lucrato sui rapporti commerciali con l’America, e dopo aver accumulato un surplus gigantesco che oggi usa per finanziare il suo piano di investimenti, vorrebbe che facessimo fronte comune contro le decisioni di Trump. Cioè, i dividendi non li ha spartiti con noi, ma i guai li vuole dividere? Da almeno dieci anni (alla Casa Bianca c’era Obama) il dipartimento americano del Tesoro denuncia il surplus commerciale della Germania, invitando Berlino a riequilibrare i conti, ma per dieci anni Angela Merkel e i suoi alleati hanno ignorato i report del Congresso e oggi che i tedeschi rischiano di pagare molto più di noi la decisione dell’America, l’Italia dovrebbe legare mani e piedi il proprio destino ai loro errori? Fatemi capire. E soprattutto fatemi mandare a quel Paese i fessacchiotti.
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