Vi ricordate l’occupazione del liceo linguistico Manzoni di Milano? A metà aprile il collettivo Manzoni Antagonista aveva innescato la protesta, dopo che sette studenti su dieci avevano dichiarato in un sondaggio di avere crisi d’ansia, perché fondare la scuola su concetti come merito e competitività trasforma lo studio in una prestazione continua. Ebbene, ieri l’edizione locale del Corriere della Sera ha pubblicato la lettera di un sedicente «neo maturato di un liceo classico milanese» che, a un mese dalla riapertura delle scuole, ci teneva a condividere alcune riflessioni. Tipo: «In una scuola sempre più dilaniata dalla retorica del merito, della performance e dell’eccellenza» ciò che conta «è il risultato, non il percorso, quello che sei è il voto, non la tua crescita e le tue esperienze, l’importante è andare avanti a denti stretti e non fermarsi mai, almeno fino a quando non raggiungi il burnout: le relazioni sociali, gli hobby, le proprie passioni vengono tutte dopo». E ancora: «Ci siamo trovati nei bagni a piangere, a vomitare per l’ansia, a mordere un pezzo di stoffa per non fare rumore mentre avevamo gli attacchi di panico; ci siamo trovati alle tre di notte ad assumere bevande energetiche per non addormentarci, per continuare a studiare, a fare di meglio, a essere migliori degli altri; ci siamo trovati la mattina a rubare i calmanti dei nostri genitori per trovare il coraggio di andarci, a scuola». Il j’accuse del giovane Zola meneghino è contro il «sistema in toto, quello della scuola italiana», che «non sta insegnando che fallire è normale, che sbagliare è normale e che dedicare tempo a sé stessi, costruendo la persona che si vuole essere, dovrebbe essere la priorità, non il resto che viene dopo».
C’è da chiedersi se lo «studente milanese» facesse parte proprio del Collettivo del Manzoni che aveva animato l’occupazione di aprile. Chissà. Di certo, a tutti farebbe bene una rilettura del filosofo Immanuel Kant, che citava con orgoglio il poeta latino Orazio: «Sàpere aude!», «osa sapere», e sviluppava il motto così: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza». Parole sacrosante. Come quelle del matematico e filosofo britannico Bertrand Russell: «Il grado delle emozioni varia inversamente alla conoscenza dei fatti, meno si sa e più ci si scalda».
Eppure, di recente si assiste a una sorta di doppiopesismo mediatico: l’ansia da prestazione scolastica viene raccontata come il male e spesso usata per smontare i parametri classici dell’educazione, che richiederebbero allo studente proprio di superare i propri limiti per crescere senza giustificazioni per manifesta ipersensibilità. Mentre l’ecoansia dal punto di vista della narrazione - ricordate le lacrime della ventisettenne Giorgia Vasaperna, che hanno fatto piangere il ministro Gilberto Pichetto Fratin? - è da cavalcare come utile alibi per perseguire la transizione green.
Ritorniamo allora alla citazione di Russell, che viene ripresa da uno studio pubblicato lo scorso 23 marzo dal titolo eloquente: «La conoscenza dell’ambiente è inversamente associata all’ansia da cambiamento climatico». I due autori della ricerca - Hannes Zacher (docente all’Università di Leipzig e ricercatore del Wilhelm Wundt Institute of psychology) e Cort W. Rudolph (docente di psicologia alla Wayne State University di Detroit) - hanno verificato l’ipotesi che le conoscenze ambientali generali e quelle specifiche sul clima sono negativamente correlate all’ansia da cambiamento climatico. Ovvero che l’ansia da cambiamento climatico può essere ridotta attraverso interventi che migliorano le conoscenze ambientali. Lo studio è stato condotto su un campione di 2.066 adulti occupati in Germania, composto per il 50,39% da donne con un’età media di 47,07 anni. La maggior parte dei partecipanti (43,47%) era in possesso di un diploma universitario o tecnico.
«In termini di implicazioni pratiche», si legge nella ricerca, «gli sforzi per migliorare la conoscenza dell’ambiente, ad esempio attraverso interventi educativi e formativi, possono contribuire a ridurre tale ansia. Ciò sembra importante alla luce dei legami dimostrati tra l’ansia da cambiamento climatico e forme più generali di malattia mentale, tra cui ansia generalizzata, depressione e angoscia. Questi interventi potrebbero essere rivolti soprattutto ai più giovani e alle persone con una maggiore consapevolezza e attitudine ambientale (ad esempio, gli scienziati del clima), che sono a rischio di sperimentare una maggiore ansia da cambiamento climatico». Tuttavia, viene aggiunto dai due autori dello studio, «ci si potrebbe anche chiedere se l’ansia da cambiamento climatico in determinate circostanze possa portare a risultati positivi. Ad esempio, una recente ricerca ha suggerito che impegnarsi in azioni collettive per affrontare il cambiamento climatico può attenuare l’effetto dell’ansia da cambiamento climatico sui sintomi depressivi». Chiediamocelo, ma attenzione a chi tenterà di trasformare la presunta terapia in un alibi per saltare la scuola o in un pretesto per spingere interessate politiche industriali.