L’ultimo a veder andare in pezzi la propria immagine di magistrato tutto d’un pezzo contro la mafia è Roberto Scarpinato. Come rivelato ieri dalla Verità, l’ex procuratore generale di Palermo è stato convocato dai pm di Caltanissetta per essere ascoltato come testimone nell’inchiesta che vede indagati Giuseppe Pignatone, ex procuratore capo di Roma, e Gioacchino Natoli, ex capo del dipartimento di organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando. Entrambi sono accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia, per un presunto insabbiamento di un filone dell’inchiesta su cosche e appalti, ma Scarpinato, che ha lavorato fianco a fianco dell’uno e dell’altro, non è stato chiamato per testimoniare di quando tutti e tre ricoprivano incarichi nella Procura del capoluogo siciliano. Bensì i colleghi nisseni gli hanno chiesto conto delle telefonate intercorse tra lui e Natoli in vista di un interrogatorio di quest’ultimo di fronte alla commissione antimafia. Dismessa la toga per raggiunti limiti di età, Scarpinato si è infatti subito accasato in Parlamento, grazie a una candidatura al Senato gentilmente offerta dai 5 Stelle. E una volta eletto a Palazzo Madama, l’ex pm antimafia ha agguantato un posto nella commissione che più gli si addice, ovvero quella che indaga sulle cosche. E proprio in vista di una convocazione di Natoli davanti all’organismo d’inchiesta, tra l’indagato e colui che in teoria avrebbe dovuto interrogarlo sono intercorse alcune telefonate intercettate dalla Procura di Caltanisetta. Le conversazioni di un rappresentante del popolo sono protette dal segreto e per farne uso i pm devono chiedere l’autorizzazione, ma in questo caso, visto che Scarpinato è un portabandiera del «movimento intercettateci tutti», i colleghi hanno chiesto direttamente a lui. Pare di vederli i pubblici ministeri domandare perché si mettesse d’accordo con Natoli per concordare sia le domande che le risposte. Così come pare di vedere l’indagato e colui che avrebbe dovuto interrogarlo decidere le domande da fare per mettere in difficoltà la figlia di Borsellino, ovvero colei che aveva criticato Natoli manifestando dubbi sulla sua attività di pubblico ministero.
Sia chiaro, Scarpinato, uomo che ha rappresentato l’accusa contro Andreotti e Lima, ma anche nei processi per le stragi del 1992 e 1993, non è indagato per questo suo modo di svolgere il ruolo di commissario antimafia, ma l’idea di un parlamentare che si mette d’accordo con chi deve audire, e soprattutto con chi è sotto accusa per favoreggiamento aggravato della mafia, nuoce gravemente alla sua immagine di paladino anti-cosche. Ma come? Il ruolo di mastino contro le mafie va bene solo se sul banco degli imputati non c’è un collega? E allora che indipendenza è? Come fa Scarpinato a stare ancora in quella commissione parlamentare e non essersi già dimesso?
Stesso ragionamento per un altro parlamentare grillino, con un passato da super magistrato ai vertici della Procura nazionale antimafia. Federico Cafiero de Raho è stato il numero uno dell’ufficio giudiziario che combatte le associazioni criminali. Ma adesso che è andato in pensione, e anche lui come Scarpinato è approdato in Parlamento con i 5 stelle, si scopre che all’ombra dell’ufficio da lui guidato c’era una specie di centrale di dossieraggio, che scaricava a manetta notizie riservate su politici e imprenditori, senza che mai nei confronti di costoro fosse stata elevata alcuna accusa o aperta una qualche inchiesta. A che servivano queste informazioni? Come è possibile che nessuno se ne sia accorto? Domande più che legittime, che la Commissione antimafia, competente anche sulle varie associazioni criminali, potrebbe rivolgere, oltre che agli autori dei dossieraggi, pure all’ex Procuratore nazionale antimafia, che però guarda caso oggi siede in Parlamento ed è, vista l’esperienza, anche il vicepresidente della commissione di cui sopra. Un corto circuito? Sì, proprio, che però a quanto pare non sembra imbarazzare troppo il deputato Federico Cafiero de Raho. Ma magari, come nel caso di Scarpinato, crea un po’ di disagio ai grillini, i quali sull’onda manettara li hanno fatti accomodare rispettivamente alla Camera e in Senato.
Infine, a proposito di imbarazzo, a Milano c’è un procuratore, Fabio De Pasquale, che è stato condannato a otto mesi per aver «nascosto» alle difese delle prove che scagionavano gli imputati del processo Eni. La sentenza è di primo grado e dunque passibile di revisione in appello, tuttavia, è normale che lo stesso pm condannato rappresenti la pubblica accusa in un processo parallelo che riguarda sempre l’Eni? È accettabile che un magistrato sanzionato anche se non con sentenza definitiva possa continuare a occuparsi di processi simili senza essere se non sospeso dalle funzioni almeno avvicendato? Beh, a me non sembra normale. Così come non mi sembra accettabile che per le toghe esistano porte girevoli, che consentono di passare dalla magistratura alla politica, ma non si permette mai agli italiani di chiedere i danni ai magistrati che sbagliano.