Bisogna scegliere tra America e Pechino, non esiste terza via. Gli interessi di Parigi e Berlino non coincidono con i nostri.
Ursula von der Leyen (Getty Images)
Ci vuole calma, altro che la vendetta della Von der Leyen. E poiché le esportazioni non sono tutte uguali, pure la reazione collettiva è stupida. Fa comodo alla Germania, che non s’è fatta scrupolo di lucrare sul suo surplus ai nostri danni. Perché dovremmo aiutarla?
C’è un modo sicuro per farci del male, ed è reagire ai dazi di Trump con altri dazi. Lo capisce anche un bambino, ma Ursula von der Leyen e qualche altro fessacchiotto a quanto pare, no. Se l’America, che importa merce per un valore di 100 euro, decide di applicare una tassa del 20 per cento su ciò che acquista e tu importi per 50 euro, non riuscirai mai, a meno di introdurre una irrealistica tassa del 40 per cento, a compensare i conti. Ma soprattutto dipende da che cosa importi, cioè quali prodotti e se il mercato ne offre di alternativi e a prezzi più bassi. Per questo il muro contro muro rischia soltanto di fare danni e di ricadere sulle spalle di chi pensa di reagire a una guerra commerciale con una guerra uguale e contraria. Ci vuole poco per farsene una ragione: se sei un grande consumatore, e gli Stati Uniti lo sono, hai diritto di decidere dove comprare e di volere condizioni migliori, vale a dire uno sconto, perché altrimenti ti rivolgi a un altro negoziante. Ma se sei il venditore, e in questo caso noi lo siamo, non puoi obbligare il cliente a continuare a comprare da te al prezzo che decidi tu, a meno che alla tua merce non ci sia alternativa. Questo semplice concetto, che regola la domanda e l’offerta, lo ha ben capito l’Associazione dell’industria chimica tedesca (ma anche tanti imprenditori italiani) che, mentre da giorni Ursula von der Leyen blaterava di vendetta, tremenda vendetta, ieri ha invitato tutti a mantenere la calma, avvertendo che «un’escalation non farebbe che aumentare i danni». Ovvio, nessuno, nemmeno gli industriali chimici della Germania, fa salti di gioia per la decisione di Trump, anche perché gli Stati Uniti sono il più grande mercato di esportazione per Basf e altri giganti del settore, ma occorre reagire a sangue freddo e volontà di negoziare.
Contrattaccare come se fossimo di fronte a un reato di lesa maestà mi pare una scemenza. Così come giudico una stupidaggine colossale l’idea di una reazione collettiva, cioè dell’intera Unione europea e per tutti i prodotti colpiti dai dazi americani. Le esportazioni pagheranno il provvedimento di Trump in modi differenti e non tanto per l’aliquota applicata, quanto per il fatto che, se vendi un prodotto che non è sostituibile, anche se la Casa Bianca lo tassa con il 20 per cento è molto probabile che non ci siano flessioni negli acquisti. Prendete il caso della Ferrari: all’annuncio dei dazi ha reagito comunicando un ritocco del listino. I ricconi disposti a spendere mezzo milione per un modello del Cavallino rampante non si faranno certo spaventare da 100.000 euro in più o in meno. Diverso è il caso della Volkswagen, dove il dazio sulla vendita di una Golf può fare la differenza. E lo stesso si può dire di Mercedes (il modello più venduto negli States è la Gla) o Bmw (le auto di maggior successo oltreoceano sono la X3 e la Serie 3). Insomma, non tutta l’industria automobilistica è colpita allo stesso modo. Così come il settore agroalimentare. Leggete che cosa ha detto ieri il presidente del Consorzio parmigiano reggiano, Nicola Bertinelli: «I dazi sul nostro prodotto passano dal 15 al 35 per cento. Di certo la notizia non ci rende felici, ma il nostro è un prodotto premium e l’aumento del prezzo non porta automaticamente a una riduzione dei consumi». Attenzione: gli Stati Uniti rappresentano per il celebre formaggio italiano il 22,5 per cento della quota di export, da solo il parmigiano ha il 7 per cento del mercato nel settore dei formaggi duri. Però Bertinelli è convinto che alla qualità del prodotto che rappresenta non ci sia alternativa, perché i parmesan locali non sono una concorrenza. E ricorda che nel passato, quando pure furono introdotte imposte sulle importazioni, non ci fu un grosso calo delle vendite. Anche per lui, quindi, l’unica strada è intavolare un negoziato, non certo mettere dazi sui prodotti agricoli che importiamo dall’America.
Non capire che le esportazioni non sono tutte uguali è il guaio più grosso, come non comprendere che non sono uguali le condizioni di partenza dei Paesi europei. La Germania per anni ha lucrato sui rapporti commerciali con l’America, e dopo aver accumulato un surplus gigantesco che oggi usa per finanziare il suo piano di investimenti, vorrebbe che facessimo fronte comune contro le decisioni di Trump. Cioè, i dividendi non li ha spartiti con noi, ma i guai li vuole dividere? Da almeno dieci anni (alla Casa Bianca c’era Obama) il dipartimento americano del Tesoro denuncia il surplus commerciale della Germania, invitando Berlino a riequilibrare i conti, ma per dieci anni Angela Merkel e i suoi alleati hanno ignorato i report del Congresso e oggi che i tedeschi rischiano di pagare molto più di noi la decisione dell’America, l’Italia dovrebbe legare mani e piedi il proprio destino ai loro errori? Fatemi capire. E soprattutto fatemi mandare a quel Paese i fessacchiotti.
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Ursula von der Leyen (Getty Images)
Ci vuole calma, altro che la vendetta della Von der Leyen. E poiché le esportazioni non sono tutte uguali, pure la reazione collettiva è stupida. Fa comodo alla Germania, che non s’è fatta scrupolo di lucrare sul suo surplus ai nostri danni. Perché dovremmo aiutarla?
Donald Trump (Ansa)
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