Lo ha detto l'eurodeputato della Lega a margine dell'evento Conferenza Pro Vita-Vannacci contro 'epidemia' di transizioni sessuali nei minori in Europa riguardo all'ideologia di genere che si prefigge lo scopo di distruggere la società occidentale.
Ansa
La transizione non esiste, è solo un mito: gli interventi chirurgici di riattribuzione del genere non fanno altro che peggiorare la vita di chi vi si sottopone. È necessario, invece, fornire aiuto psicologico e psichiatrico per far riavvicinare la mente al corpo.
Chi squittisce la frase «Più diritti per tutti», in realtà sta proclamando il diritto a più doveri, più censura e più incarcerazioni. Comincia nel 2022 la battaglia per la verità di un professore di una scuola cristiana irlandese, Enoch Burke.
Burke, insegnante irlandese di lingua tedesca della scuola anglicana Wilson’s hospital school di Dublino, già sospeso dall’incarico e licenziato per essersi rifiutato nel 2022 di chiamare uno studente «in transizione» con il pronome «loro», è stato incarcerato tre volte in 2 anni. Nel 2022 la preside della scuola, Niamh McShane, ha informato il personale che uno studente era in «transizione» e che avrebbero dovuto riferirsi a lui con un nuovo nome e il pronome «loro». C’era quindi un obbligo di menzogna, perché bisognava parlare di un ragazzo con il pronome «loro» e indicarlo con un nome femminile.
Il professor Burke, come me e come moltissimi docenti, medici, psicologi e semplicemente persone di buon senso, ritiene che se una persona è confusa sulla propria appartenenza sessuale occorre aiutarla a riconciliarsi con la realtà. Il transessualismo è la situazione di una mente che non accoglie la realtà del corpo e quindi la propria realtà, perché la mente nasce dal corpo, nasce da ognuno dei neuroni che, come ogni cellula dell’organismo, sono maschi o femmine. Non esistono interventi di cambiamento di sesso: esistono interventi lunghi, dolorosi e complessi, gravati da molti rischi, di apparente cambiamento di sesso. Ai molti rischi medici, chirurgici e anestesiologici si aggiunge anche il rischio del suicidio. Molte persone che hanno combattuto per anni con la convinzione che il cambiamento (apparente) di sesso avrebbe loro dato la serenità, quando si rendono conto che non è vero, quando cominciano a rimpiangere il proprio vero sesso, cominciano a considerare l’opzione del suicidio.
Burke aveva rifiutato la menzogna: è stato sospeso dalla scuola, anzi era stato allontanato dalla scuola con un ordine restrittivo che lui ha violato per cui ha affrontato tre arresti e un totale di 500 giorni di carcere. Burke ha detto che agli insegnanti della scuola è stato «comandato di imporre il transgenderismo», una «ideologia infernale», che spinge i bambini ad assumere farmaci bloccanti della pubertà, rimanendone «sfregiati per tutta la vita. Io non ho imposto le mie convinzioni a nessuno, è quella ideologia che mi è stata imposta», ha ripetuto.
La libertà è la libertà di dire la verità. La libertà è la libertà di poter compiere il proprio dovere e il dovere della verità è il massimo dei doveri. Ci sono documentari e libri che riportano il dolore atroce di ragazzi e ragazze sfigurati, con i loro corpi e i loro sistemi endocrini massacrati, che denunciano la loro disperazione quando si rendono conto di essere stati ingannati. Ormai il torace delle ragazze ha subito la mastectomia, ormai i loro capelli sono radi, la barba cresce. Ormai i ragazzi si sono fatti castrare. Resta solo la disperazione. Tutti quei medici e tutti quegli psicologi che li hanno spinti a una scelta folle, allora spariscono.
Il professor Burke qualche giorno fa ha denunciato che il suo conto corrente è stato congelato su ordine del tribunale: i circa 40.000 euro depositati, frutto dei suoi risparmi, non sono più disponibili e non ha più accesso al suo stipendio. Come ricordava George Orwell, tanto è più grave è il livello di menzogna di una società, tanto più dura è la persecuzione di chi ha il coraggio della verità. Il movimento Lgbt ha creato il reato di transfobia che punisce i valorosi alfieri della verità che cercano di avvertire i ragazzi confusi della trappola, cioè cosa può determinare il desiderio della mente di essere in un corpo di sesso opposto. Lo spiega molto bene l’ex trans Walt Heyer, nel suo libro Paper Genders. Il mito del cambiamento di sesso. Il cambiamento di sesso non è possibile. È un mito. In molti casi il desiderio di cambiare sesso è un sintomo di un’altra patologia, la schizofrenia o il disturbo dissociativo. Accontentare il paziente è evidentemente disastroso. Negli altri casi si è avuta nella vita del paziente un’impossibilità a identificarsi con il proprio sesso. La mente è plastica e può modificarsi sempre. Occorre rieducarla ad accettare il corpo, cioè la realtà. Il corpo non è plastico: se lo si modifica sanguina, e molto, e cicatrizza con dolore. Le ferite possono infettarsi e suppurare. Il sistema endocrino alterato è sempre in equilibrio instabile.
Riporto le sue parole raccolte in un’intervista: «È giunto il momento di mettere a nudo l’inganno. Gli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso non fanno altro che peggiorare la vita di chi vi si sottopone. L’ho imparato a mie spese e non posso che essere vicino alla sofferenza dei transgender, ma un atteggiamento di comprensione non basta: è necessario un supporto psicologico e psichiatrico che li aiuti ad affrontare i loro problemi». E ancora: «È pura follia continuare ad avallare una procedura chirurgica, fallimentare e causa di grandi sofferenze, come risposta a un disturbo che è di natura psicologica».
Nell’affrontare l’argomento va chiarita la fondamentale differenza tra l’intersessualità e la transessualità: la prima riguarda alcune specifiche condizioni mediche di oggettiva ambiguità dal punto di vista biologico; i transessuali si trovano invece ad affrontare un disturbo psicologico. È scientificamente infondata l’idea che i transgender siano così dalla nascita: tra i numerosi studi, uno recentissimo condotto da un gruppo dell’Università La Sapienza smentisce questa credenza (Hormone and genetic study in male to female transsexual patients).
In Italia abbiamo circa 4.000 suicidi l’anno: 800 sono commessi da donne e 3.200 sono commessi da maschi. È evidente che l’emergenza è il suicidio degli uomini, fenomeno di cui a nessuno sembra interessare qualcosa. Un gran numero di suicidi sono di padri separati, che hanno perso la casa, i figli, la posizione economica, spesso ridotti al proprio lettino di ragazzo o direttamente a dormire in macchina. Se però uno dei 4.000 suicidi che ogni anno colpiscono l’Italia (quasi undici suicidi al giorno) è una persona che si è dichiarata gay o trans, tutti coloro che non hanno dimostrato ammirazione per queste due condizioni ne sono ritenuti responsabili. Mentre ogni giorno abbiamo più di otto suicidi di maschi nell’indifferenza generale, se avviene il suicidio di qualcuno che era «diverso» comincia la flagellazione pubblica.
Nel momento in cui qualcuno osasse guardare il diverso con perplessità, ci informano che ognuno ha diritto di vivere come vuole. Certo. E ognuno ha diritto di criticare i comportamenti antifisiologici, e non sapere se si è maschi o femmine, armadilli o delfini è un comportamento antifisiologico. Questa disapprovazione è fondamentale perché situazioni di disequilibrio non vengano vissute come normali: questo inchioderebbe per sempre le persone al loro disequilibrio. Questa disapprovazione, questo rifiuto alla menzogna è il primo grande atto di carità, quello che deve essere punito in Enoch Burke. I cosiddetti libertari non vogliono la semplice libertà di vivere come credono, ma l’obbligo per tutti di approvarli, altrimenti li accusano di odio. Ogni gruppo umano ha diritto alle sue linee di affiliazioni al gruppo, ai suoi simboli. Un anticonformista che viola questo schema si espone al rifiuto da parte del gruppo, come è giusto che sia.
Non si può fare una frittata senza rompere le uova. Il nuovo anticonformista invece è un dittatore che viola le regole del gruppo, assume comportamenti antifisiologici e antibiologici, e li impone a colpi di piagnisteo, di vittimismo e di leggi liberticide.
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(Ansa)
- Detto, fatto: il leader Usa ha firmato un decreto per porre fine al fenomeno dei baby trans. «Troppi i bambini mutilati» su spinta dell’agenzia pro gender Wpath e della Levine, funzionaria Lgbt di Biden che brigò per eliminare ogni vincolo d’età per le transizioni.
- Elon recupererà i due bloccati sulla Iss. E l’ad di Meta valuta di trasferirsi a Washington.
Lo speciale contiene due articoli.
Per realizzare il nuovo «sogno americano» il presidente Donald Trump, come promesso in campagna elettorale, ha firmato un decreto che vieta, si spera definitivamente, ogni «transizione sessuale» dei minorenni.
Datato 28 gennaio e intitolato «Proteggere i bambini dalle mutilazioni chimiche e chirurgiche», si tratta di un «ordine esecutivo» piuttosto sintetico, suddiviso in dieci punti ed emanato direttamente dalla White House.
Se il decreto sui «due sessi» se la prendeva con «l’ideologia del gender», richiamata e confutata, anche qui la ratio legis è chiarissima ed espressa alla luce del sole. «In tutto il Paese», si afferma, alcuni «medici professionisti» stanno «mutilando e sterilizzando un numero crescente di bambini» e ciò sulla base dell’affermazione «estremista e falsa» che gli adulti potrebbero «cambiare il sesso di un bambino» attraverso una «serie di interventi medici irreversibili».
La costatazione di partenza è un fatto acclarato. Secondo le ricerche di UnHerd per esempio, «almeno 5.747 bambini» hanno subito «delle chirurgie di transizione di genere negli Stati Uniti» e questo solo «tra il 2019 e il 2023».
Secondo i giuristi di Trump, dunque, «questa pericolosa tendenza» non rappresenta affatto un avanzamento sociale - come nell’era Biden - ma «una macchia nella storia della nostra nazione» che, grazie alle nuove regole, «deve finire». Anche perché «innumerevoli bambini», per i quali i mass media hanno creato il termine di «detransitioners», si pentono «presto di essere stati mutilati». E dopo l’euforia effimera e social della «transizione», iniziano a comprendere «l’orribile tragedia» a cui sono stati indotti da adulti e «medici» senza scrupoli: i maschietti «non saranno mai in grado di concepire figli» e le ragazze non potranno «nutrire i propri figli allattandoli al seno».
E anche qui i dati stanno con Trump. Le mastectomie, ovvero le asportazioni di seni per ragioni di «transizione sessuale», tra le ragazzine minorenni dai 13 ai 17 anni, quasi inesistenti agli inizi del XXI secolo, sono state «238 nel 2019 e 282 nel 2021».
San Paolo parlava di una «scienza di falso nome» (1 Tm 6), la legge di Trump usa la locuzione analoga di «scienza spazzatura» (junk science), in nome della quale «si ritarda l’inizio o la progressione della pubertà» (coi famigerati bloccanti) o si «rimuovono gli organi sessuali» di un giovane per «ridurre al minimo» o «distruggere le sue funzioni biologiche naturali».
Quindi nella Great America in ri-costruzione, «la politica degli Stati Uniti», sarà d’ora in avanti «quella di non finanziare, sponsorizzare, promuovere, assistere o sostenere» la cosiddetta «transizione» di un «bambino da un sesso all’altro». Applicando, «rigorosamente», e su ciò nessun dubbio è lecito, «tutte le leggi che proibiscono o limitano queste procedure distruttive» e che «alterano la vita».
Le linee guida su cui tale «falsa scienza» si è fondata negli ultimi anni si trovano negli Standards of Care editi dalla famigerata World professional association for transgender health (Wpath), una sorta di agenzia militante e pro gender, che dovrà imperativamente «modificare o revocare» i suoi Standard, che del resto «mancano di integrità scientifica».
Nessun dubbio che il dipartimento della Salute, saldamente in mano all’avvocato cattolico Robert Kennedy jr, saprà mettere in pratica le nuove direttive. E ciò assai meglio di quando al dicastero, nell’era fluida di Joe Biden, era approdata l’ammiraglia transessuale Rachel Leland Levine, silurata da Trump il 20 gennaio scorso. La Levine, per non smentire le sue propensioni, cercò di usare proprio la summenzionata Wpath per portare avanti varie istanze liberal. E lottò come un leone, pardon come una leonessa, per eliminare «i requisiti dell’età minima» per effettuare la chirurgia di «riassegnazione sessuale». A causa sua, infatti, l’età dei richiedenti si abbassò di colpo.
In tal contesto, La Verità fu tra i pochi giornali a denunciare l’esistenza di una vera e propria «chat degli orrori» che aveva come protagonisti i medici della Wpath che parlottavano tra loro come nulla fosse di «annullamento sessuale» di bambini, estrogeni che creavano «dolori strazianti» e «vaginoplastiche» che «non sempre hanno risultati perfetti». Si parlò allora di «Wpath leaks» giudicati dai veri professionisti del settore come «deliranti».
Ora gli istituti e gli enti di ricerca, «comprese le scuole di medicina e gli ospedali», dovranno «adottare immediatamente» le «misure appropriate» per «porre fine» alle operazioni di «mutilazioni chimiche e chirurgiche dei bambini». Per la gioia di tutti, ad esclusione delle multinazionali della transizione, che hanno entrate miliardarie e prosperano proprio negli Stati Usa guidati dai democratici.
In conclusione è bene ricordare ai solerti vescovi Usa, i quali (giustamente) si battono per il rispetto di poveri e rifugiati, che papa Francesco, nella recente dichiarazione Dignitas infinita (2024), a proposito della «transizione», scriveva esattamente così: «Siamo chiamati a custodire la nostra umanità», e ciò significa «anzitutto rispettarla e accettarla così come è stata creata». Quindi, «qualsiasi intervento di cambio di sesso», di norma, «rischia di minacciare la dignità unica che la persona ha ricevuto fin dal concepimento» (n. 60).
Benché le lobby Lgbt Usa inizino a protestare contro le riforme di Trump, specie sull’estromissione dei trans nell’esercito, auguriamoci che Giorgia Meloni si ispiri all’alleato americano nel sostegno alla eutanasia celere dell’ideologia gender e di tutti suoi derivati.
Zuck cerca casa vicino a Donald. Musk andrà a salvare gli astronauti
Sembra che i capi delle Big tech americane stiano tessendo una grande alleanza intorno alla nuova amministrazione americana targata Donald Trump per fare scudo alle minacce esterne. Una coalizione, insomma, che si muove soprattutto in chiave anticinese. Del resto le immagini della cerimonia inaugurale di Trump lo scorso 20 gennaio parlavano già da sé: Mark Zuckerberg, Jeff Bezos, Sundar Pichai ed Elon Musk assistevano all’insediamento vicini, uno accanto all’altro.
E a distanza di meno di 10 giorni dall’ingresso del tycoon alla Casa Bianca, i passi delle Big tech della Silicon Valley si muovono verso questa direzione, lasciando diversi indizi. A partire del ceo di Meta, Zuckerberg che, secondo quanto riportato dal Financial Times, starebbe cercando casa nella sede del potere politico americano, a Washington. Una dimora «vicino» alla Casa Bianca sarebbe funzionale a rafforzare i rapporti con l’amministrazione americana anche nell’ottica di avere voce in capitolo in materia di Intelligenza artificiale. Già, perché l’attenzione del papà di Facebook sarebbe proprio concentrata sull’Ia, con l’annuncio di spendere fino a 65 miliardi di dollari il prossimo anno in progetti relativi a questa nuova tecnologia. E con l’obiettivo di analizzare i fattori del successo della startup cinese DeepSeek (e magari scalzarla), Meta ha creato quattro squadre denominate war rooms che dovranno comprendere come DeepSeek sia riuscita a ridurre i costi di formazione e di gestione.
Intanto, sulla startup cinese sono già piombate le accuse di OpenAi, l’azienda fondata da Musk e Sam Altman, proprietaria di ChatGpt: DeepSeek avrebbe usato i modelli di apprendimento di OpenAi per sviluppare la propria Ia. David Sacks, il cosiddetto zar di Trump per l’Ia e le criptovalute, anche lui reduce dall’acquisto di una casa a Washington, è intervenuto sul caso a Fox News: «C’è una tecnica nell’Intelligenza artificiale chiamata distillazione», cioè «quando un modello impara da un altro modello, in un certo senso, succhia la conoscenza dal modello principale». Quindi ha concluso: «È possibile che si sia verificato un furto di proprietà intellettuale».
L’intesa tra i leader delle Big tech pare essere confermata anche dalla collaborazione tra Apple, l’operatore T-Mobile e SpaceX di Musk. Gli iPhone saranno infatti pronti a supportare il sistema Starlink. Come riporta Bloomberg, nel codice dell’ultimo aggiornamento di Ios è presente l’integrazione alla rete Starlink per gli Stati Uniti, che dovrebbe consentire una maggiore affidabilità e velocità.
Ma SpaceX porta a casa anche un’altra vittoria: gli astronauti della Nasa Butch Wilmore e Suni Williams, bloccati sulla Stazione spaziale internazionale (Iss) da giugno saranno riportati sulla Terra dall’azienda aerospaziale di Musk. Il presidente degli Stati Uniti su Truth ha annunciato di aver chiesto «a Musk e SpaceX di andare a riprendere i due astronauti coraggiosi che sono stati abbandonati virtualmente nello Spazio dall’amministrazione Biden». Williams e Wilmore sono stati inviati sulla Ssi il 5 giugno 2024 per un volo di prova di una settimana con la nuova capsula Starliner di Boeing. Tuttavia, a causa di un malfunzionamento tecnico di Starliner, la data di rientro dei due astronauti è stata posticipata e la Nasa ha ordinato alla capsula di tornare vuota.
«Hanno aspettato per molti mesi alla Stazione spaziale», ha ricordato Trump. Ovviamente la risposta di Musk alla richiesta del tycoon è stata affermativa: cercherà finalmente di riportarli sulla Terra.
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(Getty Images)
- Il cambio di sesso riguarda un numero limitato di persone, ma domina il discorso pubblico perché veicola un’idea fluida di società pienamente in linea con le istanze del capitalismo. L’allarme delle femministe.
- La studiosa Alessandra Asteriti: «Nelle università ormai c’è l’autocensura. In Germania ho perso il lavoro a causa delle mie opinioni».
- Due esperti spiegano perché si può parlare di «contagio sociale». E perché il rischio suicidio viene esagerato.
Lo speciale contiene tre articoli.
Ma perché, da qualche anno, non si fa altro che parlare di transgender? Per quale motivo un fenomeno statisticamente marginale che fino a poco tempo fa era pressoché ignorato oggi domina la scena, si è imposto come tema di discussione fra gli adulti ed è entrato di prepotenza nella vita dei giovani? Per capirlo è fondamentale la lettura di una antologia curata dalla sociologa femminista Daniela Danna. Si intitola Il nuovo volto del patriarcato ed è scaricabile dal sito www.danieladanna.it.
Come spiega Danna nell’introduzione, la «questione trans ha colonizzato, o meglio dirottato il movimento omosessuale, e coloro che la propugnano vanno chiamati transattivisti. Non è detto né ha importanza che siano persone con identità trans: sono attivisti politici che richiedono una trasformazione profonda della società, da ottenere con nuove leggi, premietti e sanzioni, e le loro richieste nel pacchetto gender sono perfettamente in linea con la deriva orwelliana di un potere mondiale sempre più concentrato nelle multinazionali. Orwelliana è anche l’accusa di bigottismo a chi si oppone ai vari punti del pacchetto gender, curiosa accusa di passatismo religioso che andrebbe approfondita nella sua origine e modi di impiego, sempre a sproposito e per diffamare – un po’ come complottismo in altri ambiti politici».
Che cos’è, dunque, questo «pacchetto gender»? Daniela Danna lo spiega bene: «Si tratta di ottenere 1) l’autoidentificazione e dichiarazione del proprio sesso/genere, completa di sanzioni per il deadnaming e misgendering, cioè chiamare qualcuno col nome che aveva prima di transizionare, e usare il genere grammaticale non gradito a chi si dichiara transgender; 2) il trattamento affermativo dei presunti minori trans (che non possono univocamente essere identificati, come dimostra anche il fenomeno di chi detransiziona dopo la maggiore età); 3) il riconoscimento giuridico della compravendita di neonati commissionati (asetticamente detta Gpa, che sta per gestazione per altri, come se la gravidanza non dovesse mai finire); 4) la piena legalizzazione, chiamata anche decriminalizzazione, dello sfruttamento sessuale a pagamento».
Tutte queste istanze sono state presentate nel corso degli anni come la nuova frontiera del progressismo. Che cosa siano nei fatti lo chiarisce Brendan O’Neill in un intervento intitolato «Trans: la nuova ideologia della classe dominante. Come i transattivisti sono diventati i soldatini del regime dei padroni». Secondo O’Neill, gli «agitatori post–sessuali si credono militanti gender–bending che mettono a soqquadro la vecchia società. In realtà, sono i soldatini della classe padronale, sono i pesi morali del capitalismo che aiutano a tenere al loro posto le Karen la classe operaia bianca e simili bassezze».
Il capitalismo, dice O’Neill, ama il transgenderismo. «La politica identitaria, con il transattivismo in prima linea, è la nuova ideologia della classe dirigente», spiega. «Quando la macchina dello Stato abbraccia il pensiero post–sessuale, quando sia la polizia che l’esercito si coprono con i colori del Pride e quando i capitani di quello che oggi passa per capitalismo dichiarano con orgoglio i loro pronomi e castigano la gente piccola che non fa altrettanto, si sa che il problema non sono più quei ventenni dai capelli blu su TikTok. No, è il potere stesso che si sta riorganizzando intorno ai culti dell’identità e della fluidità, a vantaggio della classe dirigente e a scapito della classe lavoratrice. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi: non avete nulla da perdere se non i vostri distintivi con i pronomi».
Questo è il nocciolo della questione: non si tratta di difendere i diritti delle persone trans, ma di condurre una rivoluzione antropologica che giova agli interessi dell’élite. Una rivoluzione che, negli ultimi tempi, ha subito molte battute d’arresto. Donald Trump negli Usa promette un cambio di rotta sulla questione trans. In Inghilterra, Scozia e in altre nazioni si è posto un freno al cambiamento di sesso per i minori. Ma il veleno woke è penetrato in profondità nelle società occidentali, e liberarsene è complicato: la battaglia è appena iniziata.
«L’ideologia gender calpesta soprattutto i diritti delle donne»
Qualcuno, per insultarla, l’ha chiamata «la regina delle terf», cioè delle «femministe radicali trans escludenti». ll fatto che abbia ricevuto e riceva tanti attacchi, in realtà, dimostra che Alessandra Asteriti - studiosa italiana di rilievo internazionale (ha insegnato in Germania e nel Regno Unito) esperta di diritto e questioni di genere - ha colto nel segno. Lo dimostra il fatto che le sue posizioni critiche, a lungo osteggiate da una parte del mondo progressista, ora stanno prendendo piede in varie nazioni europee.
Iniziamo dal Regno Unito. Lei è stata duramente attaccata per un articolo del 2023 sul Gender Recognition Act. Che cosa sosteneva in quel pezzo?
«Nell’articolo sostenevo che il Gender Recognition Act del 2004, una legge britannica che consente di cambiare il proprio sesso nel certificato di nascita senza alcuna transizione medica o farmacologica, debba essere abrogato, e l’identità di genere non aver alcun altro riconoscimento nel diritto che come un credo. Ai soliti attacchi da parte degli attivisti per i diritti trans si sono aggiunte le critiche dei cosiddetti “gender critical” che hanno rimarcato come il mio punto di vista fosse inattuabile politicamente o legalmente rischioso per via della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani».
Sembra che alla fine le autorità politiche e sanitarie di alcune nazioni abbiano frenato sulla identità di genere. A che cosa si deve questa retromarcia, avvenuta ad esempio in Scozia e in Inghilterra?
«Considerato che la situazione in Scozia e in Inghilterra è diversa, dato il diverso assetto legislativo, Paesi come l’Inghilterra, la Danimarca, la Svezia, la Francia e diversi Stati negli Stati Uniti hanno posto un freno soprattutto nell’uso dei cosiddetti bloccanti della pubertà per l’assenza di dati sulla loro efficacia in studi condotti a livello nazionale, ad esempio il Rapporto Cass sull’operato dalla clinica Tavistock a Londra, che evidenziava la mancanza di statistiche affidabili e una certa negligenza nel monitoraggio dei pazienti (ricordiamoci che si tratta di minori), l’alta co-morbidità di questi pazienti (che presentano spesso anche disturbi dello spettro autistico, problemi psicologici, storie di abuso sessuale, anche in ambito familiare)».
Perché secondo lei una parte del femminismo, anche piuttosto consistente, ha invece sostenuto il self Id e altre istanze simili?
«Una domanda di difficile risposta. Alcune femministe erroneamente pensano che il self Id e i diritti trans in generale siano parte dello stesso “pacchetto” dei diritti Lgb (gli attivisti trans sono stati bravi e attaccarsi al carro dei diritti Lgb, sin dagli anni Novanta). Altre travisano il senso dell’essenzialismo biologico, confondendo il riconoscimento che le donne hanno diritti specifici in base al sesso con il concetto che le donne abbiano limitazioni specifiche in base al sesso, questa sì un’idea di una certa destra oscurantista e di certe correnti religiose, sia nel cristianesimo che nell’islam».
Quanto hanno pesato le discussioni sui temi del genere sulla vittoria di Trump negli Stati Uniti?
«Non ho vissuto la campagna elettorale negli Stati Uniti, ma certo, parlando con molte femministe americane che non si riconoscono nel falso progressismo dei diritti trans (sostenuto finanziariamente dall’industria farmaceutica americana che si stima raggiungerà i 5 miliardi di dollari entro il 2030), ho sentito che la campagna di Trump, per esempio sugli sport, abbia sortito l’effetto sperato. In America l’impegno sportivo delle bambine è pari a quello dei bambini, e l’ingresso di maschi che reclamano un’identità di genere femminile (mai il contrario, per ovvi motivi le femmine che dichiarano un’identità di genere maschile non sono competitive negli sport maschili) sta cominciando ad avere un notevole effetto: sono state contate più di 800 medaglie perse da atlete femmine, a tutti i livelli, a causa di ragazzi e uomini che dichiarano un’identità femminile. Non è un caso che uno degli ultimi spot elettorali di Trump fosse su Imane Khelif, l’atleta algerino che ha vinto la medaglia d’oro nella boxe alle Olimpiadi di Parigi».
La vicenda di Imane Khelif, tanto più con le recenti novità sul caso, ha fatto dibattere il mondo intero. Pensa che anche nel mondo dello sport assisteremo a qualche forma di reazione?
«Le ultime notizie ci raccontano di rapporti dettagliati di medici algerini e francesi che confermano come Khelif sia un uomo affetto da sindrome da deficit di 5α-reduttasi, una sindrome che colpisce i maschi che si presentano con organi sessuali ambigui alla nascita ma che hanno una pubertà maschile, non femminile. Purtroppo non esiste un approccio coerente al problema delle sindromi dello sviluppo sessuale nello sport, e dalle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 i test di Dna (che sono assolutamente non invasivi, limitandosi a un tampone orale da eseguire solo una volta nell’intera carriera dell’atleta) non sono più effettuati, contro il parere espresso dalle atlete donne. In ogni caso tali sindromi non hanno nulla a che vedere con una supposta o dichiarata identità “trans”».
Secondo lei le istanze transgender hanno preso piede per ragioni, come dire, ideologiche oppure ci sono dietro interessi economici come qualcuno sostiene?
«Nel mio lavoro mi concentro sugli aspetti legali, soprattutto nel diritto internazionale, del concetto di identità di genere ed ho recentemente pubblicato un volume sull’identità di genere nel diritto internazionale. È importante notare che il vero problema non è una supposta identità transgender, ma la sostituzione del sesso, un dato oggettivo, con l’identità di genere, un’idea che rifugge una descrizione basata su dati oggettivi e che è aperta a falsificazioni ed abusi. Lascio alla politica, alla sociologia e alla filosofia il compito di rispondere alla domanda di chi benefici di questa sostituzione. Vorrei però aggiungere che portare avanti qualsiasi progetto di ricerca su questo argomento è molto difficile e vi sono molte ripercussioni negative per chi se ne occupa. Io stessa ho perso il mio lavoro in Germania e sicuramente le lamentele degli studenti sulle mie opinioni in merito al concetto di identità di genere hanno avuto un effetto. Ma più in generale si tratta di autocensura, cioè i docenti universitari evitano di toccare l’argomento e così le posizioni più estreme non vengono sottoposte ad alcuna critica e finiscono quindi per essere adottate non solo nell’ambito del dibattito intellettuale, ma come politiche e pratiche sia nelle università che in altri ambiti, sia nel privato che nel pubblico, senza che nessuno consideri gli effetti di queste politiche e di questa ideologia sulle donne. Uso il termine ideologia a proposito. Una cosa è dichiarare di avere un’identità di genere. Ognuno è libero di crederlo, a patto ovviamente che il suo credo non leda i diritti degli altri. Altro invece è dichiarare che “tutti” hanno un’identità di genere, anche se non ci credono, come fanno finanche le Nazioni Unite e l’Unione europea. Questo è un atto prettamente ideologico, non diverso dall’imposizione del credo in un’anima immortale su un ateo. Aldilà del mio interesse intellettuale per questo concetto nuovo e mai sottoposto ad un’analisi critica, i diritti delle donne, dei bambini e delle persone omosessuali sono affetti e modificati da questa ideologia. Pensiamo solo alle conseguenze per le donne lesbiche di un’ideologia che le costringe ad accettare uomini con un corpo maschile intatto come “lesbiche.” Nessuna legge deve essere cambiata senza un’analisi approfondita delle sue conseguenze. È evidente che modificare in modo così radicale il significato dei termini donna e uomo non può che avere conseguenze altrettanto radicali, soprattutto per le donne, che hanno diritti specifici in base al loro sesso, in base alla Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. Credo fermamente che sia giunto il momento per gli esperti di diritto, i filosofi del diritto, i sociologi, i politici, di prendere in considerazione i diritti delle donne in quanto donne».
Quei falsi miti sulla disforia dei minori
È fin troppo facile, di questi tempi, sentir parlare di disforia di genere. Più difficile è comprendere di che si tratti esattamente, dato che non si può definirla una patologia (tale non la considerano i manuali diagnostici recenti) ma si tende spesso ad affrontarla avviando ragazzi e ragazze verso la transizione di genere. Per chiarirsi le idee è utilissimo un libro pubblicato da Mimesis e realizzato da Fulvia Signani, psicologa e specialista di gender medicine dell’Università di Ferrara. Si intitola Potenziare la gender medicine, e contiene capitoli dedicati alla disforia e ai minori trans.
«La disforia di genere viene identificata dal manuale della psichiatria internazionale, il Dsm, come una sorta di disallineamento che la persona vive con il proprio corpo, non sentendolo conforme alla sua identità di genere. E quindi è un malessere manifestato con verbalizzazioni molto semplici, almeno nelle prime fasi: “Sono maschio ma mi sento femmina; sono femmina ma mi sento maschio…”», ci spiega la professoressa Signani. «Oggi il tema è cogente, perché il fenomeno è molto diffuso e possiamo anche dire inedito: non si è mai manifestato con eguale portata nella storia dell’umanità. Ci sono sempre state situazioni in cui persone non si sentivano a proprio agio nel corpo, ma ad allarmare è il fatto che sia così tanto diffuso». Come noto, la questione è divenuta anche politica poiché, nota la studiosa, si discute molto di «autodichiarazioni» e «affermazioni di genere». E il cosiddetto «approccio affermativo» è quello che va per la maggiore: consiste nell’assecondare e talvolta incentivare il fatto che un ragazzino o una ragazzina si dichiarino appartenenti al sesso opposto. «Sono autodichiarazioni spesso inappropriate», dice Signani. «Io sono prima di tutto una psicologa e attingendo alla psicologia dello sviluppo e agli studi che sono stati fatti finora sappiamo che se parliamo di bambini stiamo trattando persone in età evolutiva, che non hanno ancora maturato tutte le capacità cognitive, emotive e psicologiche per poter avere una piena consapevolezza di sé. Si parla tanto di inclusione, ma quello che succede è che vengono esclusi i bambini: per i bambini non c’è più spazio, non gli si consentono più manifestazioni anche temporanee di disagio, che magari possono evolvere in altri modi».
La grande domanda è: come siamo giunti a questo punto? Perché la disforia di genere è così diffusa? Alcuni studiosi in questi anni hanno parlato di «contagio sociale», e sono immediatamente stati attaccati dagli attivisti Lgbt e dai vertici politicamente corretti del mondo accademico. Ma l’ipotesi che possa esserci una sorta di influenza ambientale è piuttosto concreta. «L’aspetto del contagio sociale finora è stato assolutamente trascurato», spiega Signani. «Nel libro invece spieghiamo che bisogna tenerlo in grande considerazione. In Francia l’Académie Nationale de Médecine è intervenuta con fermezza sulla questione con il documento “La medicina di fronte alla transidentità di genere nei bambini e negli adolescenti” nel quale si fa riferimento ai possibili meccanismi che agiscono influenzando le/gli adolescenti (uso esagerato dei social network, maggiore accettabilità sociale o esempi negli amici, a scuola e nella famiglia) affermando che al momento quello dei minori con disforia di genere è un fenomeno che si può definire di tipo epidemico, poiché non si tratta solo della comparsa di casi, ma addirittura, di focolai di casi».
Il fatto è che in questo contesto si rischia di avviare i più giovani lungo percorsi rischiosi, da cui non si torna indietro. «Io sono portavoce dell’associazione Generazione D che riunisce circa 150 genitori che cercano di difendere i propri figli dalla medicalizzazione e farmacologizzazione precoce, strada che al momento viene presentata come unica possibile», dice la professoressa. L’alternativa è un «percorso esplorativo», che dà a ragazze e ragazzi la possibilità di comprendere meglio sé stessi e approfondire il rapporto con il corpo senza forzature.
«Purtroppo al momento non trova un’adesione così diffusa nei miei colleghi e colleghe psicologi tanto da poter dire scelgo quella strada o l’altra», sospira Signani. «Il servizio sanitario pubblico offre solo l’approccio che si chiama affermativo, quello che viene da un’esperienza olandese degli anni Novanta e che tende a prendere per buona l’affermazione del bambino o della bambina». Per imporre questo approccio e farlo accettare ai genitori talvolta si fa ricorso a quello che sembra un ricatto morale. Si dice che i minori con disforia di genere siano a elevatissimo rischio suicidio, cosa che convince le famiglie ad avviarli rapidamente alla transizione. Il fatto è che i dati non confermano questa versione, anzi. A spiegarlo è Stefano Dal Maso, che ha collaborato con Fulvia Signani alla realizzazione del libro occupandosi di questo preciso aspetto.
«La dicotomia transizione o morte che viene proposta spesso dai sostenitori dell’approccio affermativo, anche professionisti sanitari a cui i genitori si affidano per avere informazioni corrette, è inaccurata nei fatti e eticamente discutibile. Partiamo dai numeri. In Italia non abbiamo dati, non sappiamo quanti ragazzi vengono assistiti e hanno accesso ai trattamenti. Non sappiamo con esattezza che trattamenti vengano dati loro, di che tipo, per quanto tempo e non abbiamo un follow up. Quindi dobbiamo rifarci ai dati provenienti dall’estero. Per lo più arrivano dalla Tavistock, la famosa clinica londinese dove per anni il trattamento affermativo è stato applicato di routine a tutti. La clinica è stata chiusa dal servizio sanitario britannico, che ha commissionato alla dottoressa Cass, la più importante pediatra inglese, una revisione durata quattro anni su tutti gli studi che trattano questa materia. La cosiddetta Cass Review dà indicazioni molto precise, e sostiene che la gran parte degli studi siano di bassa qualità».
Lo specifico degli studi sui suicidi è molto istruttivo. «Michael Biggs, uno studioso inglese, ha esaminato i dati della Tavistock. È stato verificato che su 15.000 accessi ci sono stati quattro suicidi. Anche uno è di troppo, anche un tentativo di suicidio o un pensiero suicida è di troppo. Però stiamo parlando di quattro suicidi su 15.000 accessi per una percentuale davvero molto bassa. Esiste poi uno studio che arriva dall’Olanda, dalla clinica di Amsterdam che negli anni Novanta ha promosso l’approccio affermativo. Questo documento dichiara che la percentuale di suicidio nelle persone affette da disforia di genere è da tre a quattro volte superiore alla popolazione normale. Teniamo presente che in altre condizioni o patologie, come l’anoressia, parliamo di percentuali 18 volte superiori o di 20 volte superiori per la depressione unipolare».
Le mistificazioni sui dati riguardanti i suicidi hanno fatto presa anche dalle nostre parti, entrando nel dibattito sull’utilizzo della triptorelina, un cosiddetto bloccante della pubertà che da qualche tempo viene passato gratuitamente dallo Stato. Come riporta il volume della dottoressa Signani, «in aperto sostegno all’utilizzo della terapia ormonale con i bloccanti della pubertà intervengono nel febbraio 2024 dodici associazioni culturali e società scientifiche italiane, che dichiarano, improvvidamente a nostro avviso, che l’utilizzo della terapia con triptorelina ridurrebbe del 70% i tentativi di suicidio. Si ha infatti la netta convinzione che la narrazione sul possibile aumento di suicidi nei minori e sull’effetto attenuativo della triptorelina derivi da un fraintendimento dei dati di ricerca contenuti in un unico studio (Turban et al. 2020) molto citato e molto contestato per le deduzioni approssimative. Fra i critici è annoverato anche Hacsi Horváth (2018), studioso con un curriculum di tutto rispetto, che parla della falsa narrazione, creata socialmente, la quale afferma che il rischio di suicidio negli adolescenti e giovani adulti con disforia di genere sia elevatissimo, che i suicidi tra questi giovani siano comuni e che la «transfobia» sia la causa principale di tali suicidi. Horváth dimostra il motivo per cui i tassi di tentativi di suicidio, citati come alti, non sono credibili e presenta le prove che le percentuali dei tentativi di suicidio tra adolescenti e giovani adulti con disforia sono statisticamente simili a quelli di altre popolazioni con fattori di rischio analoghi».
Basterebbero queste poche frasi per demolire gran parte della retorica imperante sul cambiamento di sesso e la fluidità di genere. Ma la pubblicità e il sostegno di cui gode l’approccio affermativo sono difficili da contrastare. E a farne le spese sono i più giovani e i più fragili.
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(IStock)
Prendendo spunto dagli schiamazzi di alcune scolaresche durante la visione di un film, il giornale dei vescovi ospita le tesi estreme dello psicologo Prunas sulla transizione di genere: «Grati a un clima che permette decisioni un tempo impensabili».
«L’effetto branco scatena gli istinti peggiori». Non c’è dubbio, la massa fa massa. Sono gli istinti che spingono qualche adolescente a deridere e schiamazzare in modo maleducato mentre sul grande schermo scorrono le immagini del film Il ragazzo dai pantaloni rosa. È accaduto durante la Festa del Cinema di Roma ad una proiezione per le scuole. Invece l’effetto woke (equivalente dell’effetto branco nella meravigliosa società radical) scatena un altro tipo di reazione, egualmente pavloviana: la lezione sociologica in chiave conformista, paternalistica e consolatoria, come da sorprendente articolo-intervista de L’Avvenire, nel quale vengono rasi al suolo valori universali a colpi di piumino da cipria per legittimare la transizione sessuale. E trasformare il dramma personale e famigliare della disforia di genere nel ballo di Cenerentola.
Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Quindi in bilico fra Papa Francesco che avanza con prudenza nella foresta transgender («Una brutta ideologia del nostro tempo che annulla le differenze e rende tutto uguale, e cancellare le differenze è cancellare l’umanità. Uomo e donna stanno in una feconda tensione») e il quotidiano dei vescovi che decide - partendo dalla giusta critica al machismo di borgata della platea studentesca - di benedire tutto ciò che va oltre la natura, la tradizione, le Sacre scritture. E di aprire «senza se e senza ma» alle carriere alias, vale a dire ai percorsi di quei giovani che non si identificano né con il genere maschile né con quello femminile; alla ribellione di chi non accetta il genere assegnato alla nascita (come se non si trattasse di biologia ma di lotteria); alla rivendicazione di chi chiede un nome neutro rispetto a quello registrato all’anagrafe.
La sterzata è sorprendente. Va oltre la legittima fotografia di una realtà corroborata dalla statistica, sulla quale peraltro soffia forte il vento del marketing e della moda di questo tempo dominato dal materialismo. La sterzata è affidata a uno degli psicologi più estremi in materia, Antonio Prunas, docente all’Università Bicocca di Milano, felice di applaudire la transizione medica degli adolescenti, di consigliare loro di seguire le inclinazioni (magari di facciata) e di chiedere ai genitori di prenderla con filosofia. Uno «state sereni» renziano in salsa psicanalitica. «Oggi i ragazzi hanno l’opportunità di riflettere sulla propria identità senza condizionamenti e senza stereotipi. Un grande momento di libertà», si illumina lo psicologo che dirige anche un corso di perfezionamento in consulenza sessuologica. E aggiunge: «Non si tratta di tendenze nuove che corrompono e confondono i ragazzi, ma dell’emersione di una realtà che è sempre esistita e che veniva tacitata sotto valanghe di conformismo».
L’uscita è singolare e in qualche modo fuorviante, banalizza un tema complesso e spesso drammatico che le famiglie vivono con grande sofferenza, alla ricerca della consapevolezza, partendo spesso dal disorientamento e dal dolore. Il percorso dei ragazzi (che non può essere un liberi tutti stile Careggi, una pastiglia e via) è complicato, li espone a rischi fisici e psicologici, con ripensamenti in corso d’opera ma danni talvolta permanenti. Anche la disforia di genere non è un pranzo di gala. Oggi in Italia numerosi esperti (medici, psicoterapeuti) lavorano per realizzare e implementare protocolli che aiutino ragazzi e genitori a camminare insieme dentro la penombra.
Su tutto questo, ecco l’allegra posizione di Avvenire, che per stigmatizzare il bullismo di quattro adolescenti maleducati lancia un messaggio che neanche l’Arcigay. E lo fa dando voce a uno studioso che ama le fughe in avanti e che qualche mese fa ha scandalizzato le femministe più ortodosse con questo disinteressato consiglio: «Nel caso in cui le famiglie non si rassegnino alla transizione di un figlio e portino articoli scientifici contro la terapia affermativa, la persona in transizione dovrà mettere in conto di perdere quelle relazioni famigliari».
Qui spinge sull’acceleratore lo sfasciacarrozze Prunas: «Ai genitori dico che l’opportunità che hanno oggi i ragazzi di riflettere sulla propria identità senza condizionamenti e senza stereotipi è un grande momento di libertà e dobbiamo essere grati a un clima culturale che permette di assumere decisioni un tempo impensabili». Pura demagogia woke, una rilettura in forma di bigino dei dogmi che dominano il dibattito intersessuale nei campus universitari californiani.
Un interrogativo di fondo prende corpo durante la lettura. Ma quando parla di stereotipi, condizionamenti, di quel passato fatto di infingimenti e di realtà tossiche, a quale male assoluto si riferisce il turbo-progressista Prunas? Nell’articolo viene sottolineato che «educare all’affettività non vuol dire trasmettere schemi rigidi di comportamento oppure formule desunte da modelli ormai inaccettabili». E quale sarebbe il modello ormai inaccettabile per Avvenire, per caso quello della genitorialità uomo-donna nella stalla di Betlemme con un neonato nella mangiatoia? Quello che rappresenta uno dei cardini della religione cristiana e si chiama famiglia? Questo sì che è uno scoop.
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