«Senza Draghi aumenterà la siccità». Pausa. «Senza Draghi non ci sarà il tetto al prezzo del gas». Pausa. Sta per dire: «Senza Draghi non festeggeremo più il Natale», poi si ferma perché nessuno lo ascolta e improvvisamente realizza che senza Draghi dovrà trovarsi un lavoro. Luigi Di Maio è alla disperazione, passare dall’auto blu a una battaglia di civiltà contro le auto blu non sarà facile, potrebbe provocargli il colon irritabile o la sindrome Di Battista. Eppure dovrà abituarsi, la pacchia è finita per il chierichetto di Supermario e per altri due personaggi pirandelliani imbullonati alla poltrona dal Pds, il Partito di Sergio (Mattarella): Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. I tre peggiori ministri dai tempi di Scipione l’Africano se ne vanno dopo aver scalzato dal podio anche Danilo Toninelli in monopattino. Game over pure per loro grazie alla doppia «autosfiducia» dell’ex premier. Possiamo confermarlo: «Anche i banchieri hanno un cuore».
In questi anni Di Maio ha girato il mondo a spese degli italiani, ha spaccato in due il M5s, ha mantenuto un’abbronzatura masterclass, ha fondato un partitino di centro e ha dichiarato guerra alla Russia; praticamente un eroe. Di lui ricorderemo lo sguardo perso in adorazione prima di Giuseppi, poi di Draghi, in attesa dei croccantini. Di lui ricorderemo la frase: «Dialogo e deterrenza, doppio binario ma non doppio gioco», pronunciata da ministro degli Esteri prima di andare a Mosca da Sergej Lavrov, che per tutta risposta gli ha fatto semplicemente sapere: «La diplomazia serve per risolvere conflitti, non per fare viaggi a vuoto e mangiare piatti esotici». Un ingrato, Giggino gli aveva anche regalato il suo libro sulla passione per la politica, con dedica. E in tempi non sospetti aveva detto con ammirazione che «la Russia si affaccia sul Mediterraneo».
Non c’era un solo motivo perché il Metternich di Avellino dirigesse la Farnesina se non l’ilarità che riusciva a infondere agli uffici. Nel 2019, durante un viaggio negli Usa, incontrò il consigliere per la sicurezza di Donald Trump, John Bolton. Se lo ricordava così bene da scambiarlo per il cantante Michael Bolton. Abituato ad aggiornarsi sulla piattaforma Rousseau, al culmine di una visita a Shanghai chiamò il presidente cinese Xi Jinping amichevolmente Ping; le diplomazie riuscirono a evitare per un pelo la pacca sulla spalla. Quando era ancora uno steward del San Paolo, in missione per conto di Grillo dichiarò che il dittatore cileno Pinochet «era venezuelano».
Esponente di spicco della corrente del «vaffa gentile», Di Maio ha saputo declinare tutte le sfumature del trasformismo: da populista a diccì, da fautore dell’impeachment per Mattarella a mattarelliano di ferro, da anti piddino a post piddino, da no euro a eurolirico. Così meravigliosamente ortodosso che, prima del varo di Insieme per il futuro, al Nazareno circolò l’ipotesi di un suo ingresso nel partito rosso.
Chi sta per fare il salvifico passo è Speranza, consapevole che potrebbe essere l’unico modo per evitare qualche inchiesta giudiziaria in agguato. Disastroso ministro della Salute durante la pandemia; firmatario di protocolli dall’evidenza scientifica traballante; tifoso eccitato di lockdown («Mi turba il rumore di un’auto per strada») e green pass («per una nuova egemonia culturale»), presto non potrà più terrorizzare gli italiani. L’ex portaborse di Pier Luigi Bersani è stato imposto a Draghi dal Pd, da Conte e dai reduci tardomarxisti di Leu; verrà ricordato come il baluardo di quella via «improvvisata, caotica, creativa» alla gestione del Covid descritta dal ricercatore dell’Oms Francesco Zambon nel dossier veneziano fatto misteriosamente scomparire.
Titolare dello slogan rap «tachipirina e vigile attesa», Speranza non è medico, operatore scientifico, infermiere, portantino, tecnico di laboratorio, rappresentante di medicinali, vaccino, provetta, microscopio, vetrino. È laureato in Scienze politiche e l’unica peste di cui ha sentito parlare è (forse) quella descritta da Albert Camus. Ma per due lunghissimi anni ha tenuto in scacco un Paese con restrizioni cinesi che hanno portato a 2.800 morti di Covid per milione di abitanti, una percentuale superiore alla media internazionale e di Paesi dove le chiusure sono state l’eccezione.
Mentre scende la sera lo sguardo corre all’ultima finestra in alto al Viminale. È illuminata, la Lamorgese presto farà gli scatoloni e un po’ dispiace. L’immaginifico ministro dell’Interno, «tecnico» fortemente voluto dal Quirinale, non potrà più deliziarci con lampi di Metaverso, una realtà parallela che ne ha caratterizzato l’azione. Esempio supremo: per spiegare la presenza di poliziotti infiltrati in corteo disse che misuravano «la resistenza oscillatoria dei furgoni». L’ex prefetto «due pesi e due misure» non ha avuto pietà per i portuali triestini che (inginocchiati con il rosario) protestavano contro le iniquità del pass e li ha dispersi con gli idranti. Ma non ha avuto niente da dire agli 8.000 protagonisti del rave abusivo sul lago di Mezzano, uno spaccio di droga a cielo aperto, mandando la polizia con quattro giorni di ritardo dopo che c’era scappato il morto. Gentile con Leonardo Bonucci, che ha imposto il giro per Roma sul pullman scoperto dopo la vittoria della Nazionale agli Europei, durissima con i no vax. Teorica dell’accoglienza diffusa fin da quando era rappresentante del governo a Milano, è riuscita a quadruplicare i flussi di clandestini in due anni: da 5.000 a 20.000. Il suo capolavoro diplomatico fu l’accordo di Malta: «Abbiamo ottenuto dall’Europa la redistribuzione dei migranti e la rotazione dei porti». Solo che la prima riguardava l’1% dei disperati e i porti che ruotavano erano solo i nostri, per la felicità delle Ong. Più facile far inseguire i runner dai poliziotti sulle spiagge deserte durante i lockdown. Con loro nessuna pietà.