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Azione interforze di Guardia di Finanza, Polizia e Carabinieri. Disposte misure cautelari per 33 persone. Riciclaggio, usura e traffico di armi e stupefacenti i reati dell'associazione a delinquere legata alla cosca «Alvaro» dell'Aspromonte.
Nella mattinata di oggi investigatori della Polizia di Stato (del Servizio Centrale Operativo, della Squadra Mobile e della S.I.S.C.O. di Brescia) e della Guardia di Finanza (del Servizio Centrale I.C.O. e del Nucleo P.E.F. - G.I.C.O. di Brescia) hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Brescia nei confronti di 25 indagati, residenti nelle province di Brescia, Milano, Reggio Calabria, Como, Lecco, Varese, Viterbo e in Spagna, a carico dei quali è stato inoltre disposto il sequestro preventivo di disponibilità finanziarie e beni per oltre 1.800.000 euro. Contestualmente i Carabinieri del Comando Provinciale di Brescia e dei reparti dell’Arma hanno dato esecuzione ad un’ulteriore misura cautelare sempre nell’ambito del medesimo procedimento penale nei confronti di 8 indagati, tra i quali anche membri della sopracitata associazione per delinquere di matrice ‘ndranghetista, ritenuti a vario titolo presunti responsabili dei reati di detenzione illegale di armi, riciclaggio, usura e ricettazione, aggravati dal metodo mafioso, oltre al reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. La complessa indagine, coordinata dalla Procura della Repubblica di Brescia - Direzione Distrettuale Antimafia, avviata nel mese di settembre 2020, ha riguardato l’operatività, in territorio bresciano, di un’associazione per delinquere di matrice ‘ndranghetista, originaria di Sant’Eufemia d’Aspromonte (RC), residente da anni in questa provincia e legata da rapporti federativi alla cosca «Alvaro», egemone nella zona compresa tra i comuni di Sinopoli e Sant’Eufemia d’Aspromonte. L’attività investigativa ha permesso di ricostruire l’organigramma del sodalizio che, facendo leva sulla forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo, avrebbe riprodotto, in territorio bresciano, una «locale» in grado di porre in essere le azioni che caratterizzano le associazioni di tipo mafioso, come estorsioni, traffico di armi e stupefacenti, ricettazioni, usura e scambio elettorale politico-mafioso. In particolare, nel corso delle indagini sono emersi i legami e le cointeressenze tra il gruppo investigato e altri gruppi criminali sempre di matrice ‘ndranghetista presenti nell’hinterland bresciano, tra i quali si sarebbe instaurato un rapporto di mutua assistenza finalizzato alla realizzazione di una moltitudine di condotte illecite. Sono stati inoltre documentati i legami tra il sodalizio mafioso e un soggetto con esposizione pubblica, attivo nella comunità bresciana, con il quale il sodalizio avrebbe intrattenuto rapporti caratterizzati dal tipico pactum sceleris dello scambio elettorale politico-mafioso, ovvero l’impegno per il sostegno elettorale del clan con la futura promessa di reciproci illeciti vantaggi economici.
La pervasività delinquenziale della consorteria è stata inoltre dimostrata dalla capacità di penetrare le strutture carcerarie e veicolare messaggi ai detenuti, avvalendosi del sostegno di persone fidate e insospettabili, come quello fornito da una religiosa, che, più volte, avrebbe svolto il ruolo di intermediario tra gli associati e soggetti in detenzione, approfittando dell’incarico spirituale che le consentiva di avere libero accesso alle strutture carcerarie. Parallelamente, il gruppo investigato avrebbe dimostrato di essere in grado di far evolvere le proprie dinamiche economiche, assumendo tutte le caratteristiche delle moderne organizzazioni criminali che operano nel Nord Italia, abbinando ai reati di tipo tradizionale anche delitti di natura economico-finanziaria. Gli associati avrebbero, infatti, promosso, costituito ed etero-diretto una pluralità di imprese «cartiere» e «filtro», operanti nel settore del commercio di rottami che, nel periodo delle indagini, avrebbero emesso nei confronti di imprenditori compiacenti fatture per operazioni inesistenti per un imponibile complessivo di circa 12 milioni di euro, al fine di consentire loro, al netto della provvigione spettante all’associazione, di beneficiare dell’abbattimento del reddito nonché di riciclare il denaro frutto dei reati. A carico dei soggetti indagati sono stati emessi provvedimenti di sequestro preventivo, finalizzati alla confisca per equivalente, per un importo complessivo pari a oltre 1.800.000 euro, quale provento delle condotte penal-tributarie e riciclatorie ipotizzate. Sono attualmente in corso perquisizioni a cura di 300 appartenenti alle tre Forze di Polizia, estese anche alle province di Bergamo, Verona e Treviso, condotte con il supporto di moderni mezzi tecnici del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, del Servizio Centrale I.C.O. della Guardia di Finanza e dell’Arma dei Carabinieri nonché delle unità cinofile per la ricerca di armi e droga e «cash dog» - per la ricerca di contanti, in una cornice di sicurezza garantita anche dall’impiego di personale delle U.O.P.I. della Polizia di Stato e di militari specializzati A.T.- P.I. della Guardia di Finanza e dell’Aliquota di Primo Intervento dei Carabinieri. I provvedimenti di oggi sono stati emessi sulla scorta degli elementi probatori allo stato attuale acquisiti, ragione per cui sussiste la presunzione di innocenza sino alla definitività del giudizio.
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Fabio De Pasquale (Ansa)
L’esito del processo Eni è clamoroso: un pubblico ministero avrebbe nascosto la verità per fini privati. Ed è assurdo che possa restare ancora al proprio posto.
(IStock)
Arrestato il presunto orco: chiedeva protezione internazionale. Il prete del paese però bercia: «Non c’entra l’accoglienza».
Piercamillo Davigo (Imagoeconomica)
I giudici hanno confermato la pena a un anno e tre mesi del processo di primo grado. L’ex pm ha annunciato il ricorso.
Siamo alle solite. Che poi sarebbero condensate nella profezia che trafigge fragorosi inciampi di scalmanati manettari. Ovvero, l’indimenticabile lampo di Pietro Nenni: a fare il puro, motteggiava, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura. Eccoci qui, dunque. A riferire del rovescio giudiziario di Piercamillo Davigo detto «Piercavillo»: già eroe di Mani Pulite, indomito capo corrente, consigliere del Csm, simpatizzante grillino, opinionista del Fatto quotidiano. Una leggenda vivente: schiavettoni, querele, indice ritto. Uno smodato giacobinismo seguito dall’inclemente nemesi.
Piercavillo è stato ricondannato. Anche in secondo grado. Per rivelazione di segreto d’ufficio. A un anno e tre mesi. Secondo i giudici di Brescia, nella primavera 2020, divulga i verbali di Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria». Gli vengono consegnati dal pm milanese, Paolo Storari, su una chiavetta Usb: con «modalità quasi carbonare» si legge nella sentenza di primo grado, appena confermata. I giudici tacciano l’ex magistrato, ora in pensione, di «smarrimento di postura istituzionale». Davigo avrebbe insomma allargato «la platea dei destinatari della rivelazione». Tentando persino di screditare un inviso collega consigliere, Sebastiano Ardita, nominato dal controverso avvocato Amara in quei verbali. Il magistrato, parte civile nel processo, ottiene ora una discreta sommetta come risarcimento dei danni: 20 mila euro.
I fiduciosi legali di Piercavillo, comunque, annunciano ricorso in Cassazione. Forse dimentichi di uno dei tanti insegnamenti del celebre assistito, professato in diretta tv: «L’errore italiano, secondo me, è stato proprio quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. No, non aspettiamo le sentenze. Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non sono costretto ad aspettare la Cassazione. Smetto subito d’invitarlo a cena». Chiaramente, questo vale solo per i poveri cristi. E soprattutto per i cinghialoni che affollano i partiti. La caccia a quei mangiapane a tradimento è il pallino investigativo diventato libidinoso commento: «I politici che delinquono vanno mandati a casa, senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Ma la frase cult, che formerà legioni di manettari tricolore, resta l’ancor più audace variante sul tema: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove».
A nome della vessata categoria interviene adesso Matteo Renzi, malcelando sfrenato giubilo: «Per anni Pier Camillo Davigo ci ha fatto la morale da numerosi studi televisivi. Oggi il giustizialista Davigo è condannato anche in appello per rivelazione di segreto d’ufficio». Il leader di Italia viva ricorda di essere garantista, ma rinuncerebbe a una conferenza in Arabia Saudita pur di vedere l’ex pm condannato in via definitiva: «Il tempo è sempre più galantuomo: emerge lo scandalo dossier, i commentatori moralisti che ci attaccavano vengono condannati in appello, la cassazione e la corte costituzionale ci danno ragione». Renzi, certo, esonda. Ma sono in tanti a inzuppare la brioscina con godimento. Del resto, anche dopo la prima condanna, il Torquemada lombardo non ha dato segnali di cedimento. Anzi, nell’anniversario di Mani Pulite, rincara: «Per quanto sia crudo quel che sto dicendo, capiterà che gli imputati si suicidino. Lo so che è una cosa spiacevole, ma è la verità e bisogna aver chiare le cose: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono».
Eccezion fatta per i colleghi che hanno osato condannarlo, s’intende. Difatti lo scorso dicembre, in mancanza di inviti televisivi in prima serata, Piercavillo decide di cimentarsi come ospite nel podcast più velleitario del momento: Muschio selvaggio, condotto da Fedez. E quando il rapper lo pungola proprio sulla condanna in primo grado, Davigo si auto assolve con formula piena: «Non ho commesso reati, ma visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono, mi hanno condannato». Notorie teste dure. Come osano giudicare il più arguto e spietato pm della storia? Coglierebbe l’evidente sproporzione anche un cantante poco edotto, con i tatuaggi fino al pomo d’Adamo. Invece, quei durissimi di comprendonio s’affrettano a eccepire sull’incontrovertibile, manifestando «vivo stupore e sconcerto per i contenuti dell’intervista». Insomma, replica il tribunale di Brescia, «sorprende che un magistrato che ha ricoperto incarichi apicali di rilievo nazionale si lasci andare a pesanti giudizi che investono, indifferentemente, i giudici, l’ufficio giudiziario, la stampa locale e l’intera comunità bresciana».
Piercavillo, però, non mostra pentimento. Pensino a forgiare tondini, piuttosto che ad applicare il codice penale. Ma la condanna, adesso, viene confermata. Lui, ingiusto reo, spera nella Cassazione. Sognando di poter riformulare il suo celeberrimo motto: non esistono manettari colpevoli, ma solo manettari non ancora assolti.
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