Caro ministro Salvini, di solito non mi occupo di beghe interne ai partiti. Chi sono infatti io per poter dire se Matteo Richetti ha ragione di sfanculare Matteo Renzi, accusandolo di essere egoriferito, e se Antonio Tajani fa bene a sbattere la porta in faccia a Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, due onorevoli che hanno girato i tacchi per lasciare Forza Italia e adesso, a quanto si dice, visti i risultati del partito in cui sono approdate vorrebbero ritornare. Ognuno in casa propria fa quel che gli pare e litiga con chi vuole. Per lo meno io la penso così. Diverso però è il caso di Umberto Bossi, il quale da tempo è in polemica con lei e l’accusa di aver snaturato il partito, dimenticando le ragioni del Nord. Il Senatur sembra uno di quei papà che non si rassegnano a vedere la propria creatura correre con le proprie gambe e magari prendere pure la direzione opposta rispetto a quella che sarebbe piaciuta a loro.
Capisco che lei non sia stato proprio contento di sentire che il fondatore della Lega, colui che 40 anni fa ebbe l’intuizione di dar vita a un movimento politico che si facesse interprete della questione Settentrionale, alle elezioni europee non avrebbe votato per la Lega, ma per Forza Italia. Immagino che lei abbia vissuto la dichiarazione in prossimità dell’apertura dei seggi come un tradimento, anzi come una coltellata alle spalle, per di più a favore di qualche ex con cui non corre buon sangue. E comprendo anche che lei abbia le sue buone motivazioni per contestare la giravolta. Quando 11 anni fa lei prese la guida della Lega, il partito era ridotto al lumicino. Gli scandali dei soldi usati per attività private e gli investimenti a dir poco azzardati dell’allora tesoriere Francesco Belsito, a cui seguirono inchieste giudiziarie, avevano fatto precipitare la Lega al 4 per cento, dal 10 ottenuto alle Europee del 2009. Un baratro da cui lei l’ha risollevata, riuscendo dieci anni dopo addirittura a triplicare i consensi nella sfida per il Parlamento di Bruxelles. Oggi la rimproverano di essere finito dietro Forza Italia, quando nel 2018 non solo la sopravanzò, ma nel 2019 la lasciò con 25 punti di distacco.
Purtroppo, caro ministro, nessuno le darà atto che se lei non fosse divenuto segretario probabilmente la fiammella dell’autonomia regionale nel 2013 si sarebbe spenta, così come oggi nessuno riconosce che l’intuizione di candidare Roberto Vannacci le ha consentito di guadagnare qualche decimale invece di perderne. I consensi, a differenza dei diamanti, non sono per sempre ed è facile lasciarli per strada: ne sa qualche cosa Giuseppe Conte, che ha visto quasi dimezzarsi i voti e in previsione della débâcle - per altro pienamente prevista (devo riconoscere che mesi fa Luigi Di Maio pronosticò il risultato e non sbagliò di una virgola) - si è sfilato dalla competizione, evitando di candidarsi.
Detto tutto ciò, e cioè che lei ha ottimi motivi per essere risentito nei confronti di Bossi e di quel suo voltafaccia, io la prego di tenere a freno i nervi e soprattutto di calmare gli animi dei suoi, che spesso sono più realisti del re, e vorrebbero cacciare il fondatore o sottoporlo a processo.
Umberto Bossi, con le sue contraddizioni, i suoi errori (e chi non ne fa), le sue genialità e i suoi accorati appelli contro «Roma ladrona» intesa come sede di tutti i traffici, la burocrazia e i compromessi, è la Lega. Non si può scindere il suo fondatore dal progetto politico e dunque non lo si può cacciare. Ma nemmeno censurarlo. Sarebbe un colossale sbaglio allontanarlo e farebbe il gioco di chi vorrebbe in qualche modo separare la storia della Lega dal partito che oggi lei guida. Bossi è lo stesso Bossi che non accettò la sua candidatura al congresso del 2013 e le si schierò contro, perdendo. È lo stesso Bossi che fece cadere Silvio Berlusconi, togliendogli la fiducia nel 1994 e, facendosi illudere da Massimo D’Alema e Oscar Luigi Scalfaro, contribuì alla vittoria del centrosinistra con Romano Prodi nel 1996. Però è anche il Bossi che nel 2001 tornò ad allearsi con il Cavaliere per ottenere il federalismo, lo stesso Bossi che nel 2010, mentre Gianfranco Fini assecondava le trame di Giorgio Napolitano, tenne duro e non mollò Berlusconi. Come le ho detto, è un leader che ha pregi e difetti, come tutti, come lei e come me. Tuttavia, a lui si deve la battaglia contro lo Stato centralista, che sta nel Dna della Lega. Come si fa dunque ad allontanare l’uomo che per primo ha capito che serviva una forza politica che si facesse interprete di ciò? Dia retta a me, lasci perdere le rappresaglie, i probiviri e le beghe interne. Non si cacciano i padri fondatori. E poi fra qualche giorno nessuno se ne ricorderà più.