Succede di nuovo, ma non importa a nessuno. Uomini e donne, anziani e bambini che cercano disperatamente di nascondersi nel ventre delle loro case, mentre i soldati nemici avanzano. Un popolo affamato e dolorante che grida aiuto, e le urla rimbalzano sui muri crivellati di colpi e sulle macerie delle chiese cristiane, ma poi si perdono nell’aria. Perché stavolta nessuno ascolta, nessuno si commuove, nessuno pubblica titoli in prima pagina.
Ieri i soldati dell’Azerbaigian sono arrivati a Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, la striscia di terra conosciuta come Nagorno Karabakh. Il nome tuttavia conta poco, dato che viene pronunciato invano. La popolazione di quelle zone è armena, e da anni rivendica il diritto di esistere, di rimanere una nazione. Ora, però, la sensazione è che gli azeri vogliano definitivamente schiacciare la minoranza cristiana presente sul territorio. Le truppe hanno marciato compatte verso la città simbolo della resistenza armena, e le voci che giungono dal fronte indipendentista sono terrorizzanti. Parlano di una popolazione che si rifugia nelle cantine per sfuggire alla carneficina. «La situazione a Stepanakert è orribile, le truppe azere sono in periferia e la gente teme che i soldati possano entrare in città in qualsiasi momento e iniziare i massacri», ha detto un rappresentante della minoranza armena. Il difensore civico per i diritti umani del Nagorno Karabakh, Gegham Stepanyan, le strade di «sono piene di sfollati, affamati, spaventati e che vivono nell’incertezza». Decine di migliaia di persone hanno cercato di lasciare l’area, il flusso di profughi aumenta.
L’Agensir ha raccolto ieri la testimonianza di Mikael Bassalé, amministratore apostolico dei cattolici di rito armeno dell’Europa dell’Est. Le sue parole sono strazianti: «Non lasciateci soli, non abbandonateci. Quello che sta succedendo è una cosa terribile. Il governo azero ha deportato gli armeni nel corridoio di Lachin. Hanno poi attaccato la nostra gente, hanno colpito anche i bambini e gli anziani. Tanti sono morti. Tanti sono dispersi perché non ci sono le comunicazioni. È un genocidio». Secondo il vescovo, «Erevan non è stata ancora toccata ma aver attaccato l’Artsakh non significa che gli azeri non attaccheranno l’Armenia in un futuro non lontano. C’è una possibilità grandissima e nel caso accadesse sarebbe una catastrofe. Non penso che l’Armenia possa resistere da sola e non credo che di fronte ad un attacco azero il nostro Paese possa continuare ad esistere, specialmente ora con la Russia impegnata in una guerra e con l’Europa impegnata con l’Ucraina».
Il corridoio di Lachin, per intendersi, è l’unica via di accesso che conduce alla cittadella armena dell’Artsakh e da quasi dieci mesi è bloccato dall’esercito azero. Significa che circa 120.000 persone sono completamente tagliate fuori dal mondo, private di rifornimenti, aiuti, sostegno, cibo, farmaci, benzina, elettricità, tutto. Ancora una volta, le parole di monsignor Bassalé rendono perfettamente il quadro della situazione: «Abbiamo chiara una cosa: nessuno pensa a noi».
È fin troppo semplice, in fondo. L’Azerbaijan è un importante fornitore di gas, determinante anche per l’Italia, di cui è il secondo partner in ordine di grandezza. In più alcune nostre importanti aziende del settore armamenti hanno in corso trattative per commesse piuttosto rilevanti a favore degli azeri: sottomarini, aerei, missili, suppergiù un paio di miliardi di euro di forniture. Gli armeni, invece, non hanno nulla da offrire se non le loro facce olivastre e i capelli spessi e neri neri. Non hanno altro se non la loro fede, teoricamente uguale alla nostra, i loro monasteri, i loro olivi e il loro dolore. Non hanno alle spalle la potenza americana o gli alti papaveri della Nato.
Motivo per cui i giornali, anche ieri, di loro parlavano poco e male. Niente prime pagine, niente titoloni sdegnati. E, ovviamente, niente inviti a Sanremo o al Parlamento per Samvel Shahramanyan, il presidente dell’Artsakh. Uno che non finisce sulle copertine di Vogue, che non viene evocato dalle televisioni o celebrato con toni adoranti. A occuparsi di lui ci sono pochi cronisti e un pugno di associazioni umanitarie, nemmeno una sagra di paese che gli consenta di comiziare liberamente come accaduto a Volodymyr Zelensky. Succede, quando le potenze internazionali non hanno niente da chiederti e anzi hanno scelto di fare affari con il tuo nemico, con il tuo oppressore, perché quello è ricco e appetitoso. Degli armeni dell’Artsakh il mondo si dimentica, anche se hanno già subito un genocidio e potrebbero subirne un altro. In fondo, loro non hanno niente da dare se non le loro preghiere e le loro croci di legno. Dunque se una bomba cade sulle loro case, non fa rumore.