Ursula von der Leyen (Getty Images)
Il Consiglio lavora allo stop delle norme Ets 2 che penalizzano le emissioni. Resta l’incognita dei balzelli su acciaio e alluminio.
L’aria e il clima sono già cambiati e Donald Trump nemmeno si è insediato. Al momento le reazioni sul fronte europeo si registrano però solo su un fronte, quello della Difesa e in generale del riarmo sotto il cappello della Nato. Il neo segretario Mark Rutte ha subito ricordato di spendere di più per rientrare nella soglia del 2% del Pil. Il nostro ministro Guido Crosetto ha fatto eco e il commissario designato Andrius Kubilius si è spinto fino a proporre deroghe al Patto di stabilità. D’altronde tutti sanno cosa è successo ai tedeschi che prima irridevano Trump quando rammentava loro la necessità di riarmarsi e poi, durante l’amministrazione di Joe Biden, si son visti saltare Nord stream. Solo che la presa di coscienza del cambio di passo e di come le élite Usa sterzeranno sembra essere limitata alla Nato, come se l’atlantismo che ha caratterizzato anche l’ossatura Ue potesse limitarsi solo all’Alleanza atlantica.
C’è molto altro in ballo, almeno se l’economia europea non vuole essere travolta in via definitiva. Prima cosa, andrebbe abbandonata la retorica solita della Commissione che recita il motto: «Le crisi sono opportunità, ne usciremo più forti». Falso. Le crisi sono crisi e impoveriscono gli Stati. Dalle crisi si esce con una rottura forte del modello precedente, altrimenti si finisce solo con lo spendere altro denaro pubblico e quindi tassare i cittadini che diventano ancora più poveri. Invece ieri, ascoltando le audizioni dei candidati commissari, il refrain non è sembrato cambiare. Il delegato al clima, Wopke Hoekstra, ha bellamente ripetuto l’idea di tirare dritto sulla transizione green senza se e senza ma. Eppure è da qui che dovrebbe partire l’Ue. Ci auguriamo che l’arrivo di Trump possa essere da un lato la sveglia necessaria per uscire dal sonno ideologico e dall’altro una sapiente leva per i singoli governi (che saranno chiamati a lavorare ad accordi bilaterali), utile a scardinare il pensiero socialista che domina a Bruxelles. Rivedendo tutte le logiche della transizione il Vecchio continente potrà tornare a investire in nuove tecnologie, che è il solo modo per avere un rapporto un po’ più equilibrato con gli Usa e non subire l’avanzata cinese.
Non vale solo per le auto, ma anche e soprattutto per l’acciaio, di cui nessuno parla. Alla fine del 2025 entrerà infatti in vigore il Cbam, un sistema per tassare i beni di Paesi extra Ue prodotti con standard ambientali meno stringenti. Lo scopo sarebbe proteggere i produttori europei dal dumping, facendo pagare ai Paesi terzi la differenza dei costi di produzione e incentivandoli così ad allinearsi alle regole Ue per evitare questi dazi. L’approvazione finale del Consiglio è arrivata nel 2023. Gli altri Paesi percepiscono il Cbam come un ostacolo ingiustificato, che va a svantaggiare chi ha piani di decarbonizzazione diversi da quelli europei. Vale tanto per le nazioni emergenti, come l’India, quanto per quelle più industrializzate, come gli Usa, che criticarono aspramente i progetti del Cbam già dall’epoca pre Ira. Così, mentre Bruxelles lavorava sui dettagli della strategia, Washington approntava l’alternativa: il Global arrangement on sustainable steel and aluminum, o Gassa.
In pratica uno schema che ha regole più flessibili e mirato a creare un club di Paesi che saranno in grado di bypassare le ferree regole Ue. Significa che saremo tagliati fuori, e l’acciaio Ue rischia di fermarsi. Senza, non si è più produttori. La soluzione? Fare marcia indietro. Il governo italiano ne ha fatto richiesta timidamente. Ora che arriva Trump, bisogna accelerare. Infatti in questi giorni ci si concentra sui dazi che la Casa Bianca rimetterà in piedi. Ieri Prometeia ha diffuso un report secondo il quale le nuove tariffe costerebbero oltre 4 miliardi. Può essere: va però detto che negli ultimi 12 anni (eccetto il 2020 per via del Covid) l’export italiano verso gli Usa è salito del 60%. I dazi infatti pesano molto di più sull’italian sounding, che è esattamente la concorrenza che mette in difficoltà le nostre aziende. Un modo per dire che le relazioni politiche conteranno moltissimo per navigare nel mare magnum dei nuovi confini che andranno formandosi con la fine della globalizzazione. Se l’Europa però continuerà a soffermarsi sugli effetti e non sulle cause (cioè la strategia economica) allora resterà ai singoli Stati confrontarsi con l’amministrazione Trump.
Ma qui si apre un tema dimensionale. L’Italia, e lo stesso vale per gli altri Paesi, è troppo piccola per far fronte alla massa di investimenti che la nuova economia dello Spazio e dei dati richiede. Insomma, non serve più Europa come continuano a ripetere gli eurocrati. Ma serve un’altra Europa, che non regoli e non tassi il respiro. Serve voglia di costruire satelliti, razzi, mega data center e, come ricordava ieri un amico tra i più grandi esperti di nuove tecnologie, serve la voglia di tornare a lottare. E la cultura woke è esattamente l’opposto. La resilienza è un termine da bandire dal vocabolario. Selezione naturale è invece il nuovo motto da imbracciare. Che senso ha essere inclusivi se significa non avere più aziende esclusive? Se si azzera la mentalità dell’ultimo decennio e si cambia registro sociale, a quel punto Trump non sarà un problema ma una leva. Chi governa nei prossimi mesi dovrà interrogarsi su cosa possa significare l’atlantismo. Il nuovo atlantismo. Certamente vuol dire abbracciare strategie economiche che possano incastrarsi nel puzzle che gli Usa creeranno. Vuol dire ricavarsi una cerchia di tecnologia che ci lasci un pezzo di sovranità, senza conflitti o divisioni tra una sponda e l’altra dell’oceano. Vuol dire prendersi la responsabilità militare del Mediterraneo come ponte tra Usa e Cina, e non più solo come un lago che va da Nord a Sud portando problemi di immigrazione e instabilità. Le variabili sono tante, forse troppe per una classe dirigente affamata di idee a brevissimo termine.