«Puccini non offende i cinesi, li commuove. La fiaba di “Turandot” si capisce col cuore»
Turandot offende i cinesi come un vecchio spot di Dolce & Gabbana. L’han deciso le guardie imperiali e i sacerdoti dell’ideologia «woke». Anzi, i «vigili» d’Oltreoceano (il cui motto è «stay woke», «state all’erta», «rimanete svegli»… già che siamo in tema, «Nessun dorma!» suona meglio) hanno inserito Giacomo Puccini nella lista dei razzisti sospetti per la sua ultima e incompiuta meraviglia (spoiler: non ce l’hanno solo con il genio di Lucca e, ahinoi, non vogliono limitarsi a «ripulire» la lirica).
Due esempi eclatanti rimanendo sul titolo in questione (Madamina, il catalogo del musicalmente corretto sarebbe troppo lungo). La Canadian opera company di Toronto qualche anno fa ha pensato bene di sbattezzare le maschere Ping, Pang e Pong trasformandole in Jim, Bob e Bill, avverando il proverbio: libretto e bianchetto, wokista perfetto. D’altronde, cosa c’è di più rispettoso della cultura orientale dell’appioppare nomi da cowboy a tre ministri di una «Pekino (sì, con la K di Kossiga, ndr) al tempo delle favole»? Proseguiamo che è meglio. Il Metropolitan di New York - l’ha smascherato sul Foglio l’intenditore «Pazzo per l’opera» Alberto Mattioli - per non essere da meno, ha recentemente catechizzato il pubblico: lo spettacolo (secondo Christopher Browner, che pare non aver mai digerito gli zingari della Carmen di Georges Bizet e il «finto Egitto» dell’Aida di Giuseppe Verdi) risulta indigesto per gli asiatici, «la loro stessa eredità viene cooptata, feticizzata o dipinta come selvaggia, assetata di sangue o arretrata». La conclusione della scomunica è in puro stile Tripadvisor: «Melodramma emozionante, ma problematico».
In questo contesto paranoide, la nuova produzione di Turandot del Teatro alla Scala - che debutta questa sera con la direzione di Michele Gamba e la regia di Davide Livermore - arriva come una boccata d’aria fresca nel centenario della scomparsa del compositore toscano. I panni della principessa di ghiaccio li vestirà la stella Anna Netrebko, per la gioia del pubblico milanese. Un lusso negato ai newyorchesi, dato che il soprano russo è in causa con il Met sopracitato perché da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina la cantante non risulta più gradita nella Grande Mela. Nessun problema al Piermarini nemmeno per Ping e Pong (ottima notizia, senza illudersi: lo spettro della cancel culture si aggira anche da noi). Mentre il costume di Pang lo indosserà Chuan Wang, il primo tenore cinese a essersi perfezionato nell’Accademia del Teatro.
Maestro Wang, per chi in questa storia è disposto a farsi decapitare, pur di sposare la figlia dell’imperatore Altoum, «gli enigmi sono tre, la morte è una». Il quarto mistero di Turandot - ultimo atto del melodramma italiano o prima pietra di ciò che è venuto dopo? - lo lasciamo ai musicologi. Al quinto, nato dalle ossessioni politicamente corrette al di là dell’Atlantico, può rispondere solo lei: vista da chi è nato in Cina quest’opera che effetto fa?
«Mi sembra che il dibattito si sia sviluppato solo di recente e devo dire che mi stupisce molto. Non ho mai percepito l’ultima fatica di Puccini come irrispettosa nei confronti del mio popolo. D’accordo, la violenza non manca, moltissimi principi cadono per mano del boia, ma il compositore non voleva descrivere l’Oriente come sanguinario».
Non è un’opera verista, ma una favola.
«Esatto, dovrebbe essere tutto molto chiaro. È scritto nero su bianco».
Lei fra poche ore interpreterà il gran provveditore Pang. Insieme al suo conterraneo Jinxu Xiahou (Pong) e al baritono coreano Sung-Hwan Damien Park (Ping). Nemmeno i nomi le creano disagio?
«Un’altra polemica francamente folle. Sono orgoglioso di essere cinese e non mi vergogno del suono dei nostri cognomi. Vengo dalla città in cui è nata la cultura del mio Paese, Luoyang, e là anche oggi si possono trovare moltissimi Ping, Pang e Pong. Molti meno i Jim, i Bob e i Bill…» (ride di gusto). «Ho letto di questa bizzarra trovata e penso che sia un’enorme stupidaggine»
Lei però è un addetto ai lavori, come reagisce il pubblico in Cina?
«Nel mio Paese Turandot la conoscono tutti, è molto eseguita. Nessuno dei miei concittadini esisteva ai tempi della Cina antica, ma quella immaginata dal compositore è credibile: le lanterne rosse per la festa, quelle bianche per il lutto. Se le interessa però c’è un momento preciso in cui dalle mie parti la gente più che offendersi si diverte».
Quale?
«Quando Ping, nel secondo atto, canta: “Ho una casa nell’Honan, con il suo laghetto blu, tutto cinto di bambù...”».
Non è realistico?
«Ma no, fa solo effetto vedere uno straniero che ha preso casa da quelle parti. E forse il bambù è più caratteristico in altre zone, dove i panda sono numerosi».
Niente di grave direi. Venendo ai nostri tre personaggi, qual è il loro vero ruolo nella storia?
«Innanzitutto provano a scoraggiare il Principe ignoto, Calaf, che si è perdutamente innamorato di Turandot e vuole accettare la sua terribile sfida. L’elemento comico è evidente, ma non si tratta di una parodia dell’Asia, piuttosto è una riproposizione delle maschere del teatro italiano, come Brighella, Pantalone, Truffaldino... Siamo tre, ma ci muoviamo come una persona sola, spesso cantando all’unisono. E il regista Livermore ha avuto un’intuizione straordinaria: abiteremo nella testa e nel cuore di Calaf».
Mi spieghi meglio.
«Siamo i suoi dubbi: “Fermo! Che fai? T’arresta!”. È quello che accade a tutti noi nei momenti cruciali della vita. Veniamo assaliti da voci contrastanti. Per questo Livermore ci ha dato una maschera particolare, ma non mi faccia aggiungere altro… Dico solo che non avevo mai lavorato con un regista che conosce a memoria tutte le parti dei cantanti. Il primo giorno ci ha detto: “È il centenario della morte di Puccini. Siamo qui per dare il sangue, io per primo”».
Un tema che risuonerà spesso è quello della cosiddetta Canzone del gelsomino, che Puccini scoprì grazie al carillon donatogli da un ex diplomatico, il barone Fassini. Un altro elemento della cultura cinese che secondo i maliziosi il nostro avrebbe occidentalizzato troppo. Citazione, ispirazione o appropriazione culturale?
«È la canzone più popolare della Cina, la impariamo da bambini. Puccini la ripresenta in maniera fedele, con qualche aggiustamento armonico, lasci perdere le malignità. Ho lasciato il mio Paese per il sogno dell’opera 11 anni fa e ora che sento risuonare Mo-Li-Hua (il titolo originale, ndr) alla Scala devo nascondere le lacrime».
Qual è il suo significato?
«All’apparenza parla della bellezza di un fiore. Ma il vero protagonista è il cuore dell’uomo davanti alla meraviglia. Per l’amore serve un’anima buona. E forse è il senso di tutta l’opera».
Rubando un’immagine a Livermore, salire su quell’aereo per Milano è stato il momento in cui lei ha trovato il coraggio di suonare il gong, aprire le porte della reggia e affrontare il suo destino?
«Forse sì perché, ripensandoci, tutto ha avuto inizio con Turandot. Ho deciso che avrei fatto il cantante ascoltando due brani di Luciano Pavarotti: Nessun dorma e ‘O sole mio. A 19 anni ho potuto assistere a questo capolavoro sul palco, come comparsa. Ora ne ho 35 e ho l’onore di far parte del nuovo allestimento della Scala. In mezzo c’è tanto lavoro e la lontananza dalla mia famiglia, gli anni indimenticabili al Conservatorio di Milano e all’Accademia di questo teatro glorioso. Oggi posso dire di vivere il tempo delle favole...».