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2019-09-30
Porti aperti e rider senza contratto dai centri di permanenza
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C'erano una volta le piantagioni di cotone. Oggi la tragedia della schiavitù moderna va in scena in mezzo ai frutteti, agli oliveti e alle sconfinate coltivazioni di pomodori e altri ortaggi. La figura del padrone spietato è stata ormai sostituita dai «caporali», odierni reclutatori di forza lavoro a bassissimo costo. Un sistema nel quale gli immigrati spesso pagano il prezzo più caro. «Mentre venivo qui, ci sono state imprese che mi hanno chiamato per dirmi una cosa semplicissima», ha confessato candidamente pochi giorni fa alla trasmissione televisiva Otto e mezzo il ministro delle Politiche agricole del governo giallorosso, Teresa Bellanova: «Senza flussi migratori ben regolati molte delle nostre produzioni marciscono nei campi, e i lavoratori polacchi che prima venivano qui adesso vanno in Germania».
Sembra quasi di risentire Emma Bonino, senatrice di +Europa, quando in piena campagna elettorale per le politiche del 2018 parlando dei migranti spiegava serenamente che «senza di loro nessuno raccoglierebbe i pomodori». Ma non c'è solo l'agricoltura: anche l'industria chiede a gran voce manovalanza a prezzi modici. Come ha raccontato il Fatto Quotidiano una manciata di giorni fa, a margine del Forum Ambrosetti di Cernobbio, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia lamentava lo scarso interesse del governo per ciò che concerne l'approvvigionamento di forza lavoro: «Da tempo non affrontiamo più queste questioni, se blocchiamo i porti creiamo un blocco anche su questi temi». Un'ulteriore conferma del fatto che lo stop imposto da Matteo Salvini agli sbarchi indiscriminati, più che ai migranti, ha dato fastidio a chi tiene il pallino dell'economia italiana.
Tutta questa retorica ha un rovescio della medaglia ben preciso: quello che ritrae gli italiani, e in particolare i giovani, ora «bamboccioni» (termine utilizzato dal fu ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, quello che invocava il ritorno alla «durezza del vivere»), ora «choosy» (come ebbe a dire l'ex ministro del Lavoro Elsa Fornero). Viene spontaneo chiedersi se le cose stiano realmente così. Spesso si punta il dito sul disallineamento tra le competenze richieste e quelle effettivamente possedute dai lavoratori.
Quello che in gergo viene definito «skill mismatch», però, segue dinamiche sorprendenti. Secondo il documento «Strategia per le competenze», pubblicato dall'Ocse nel 2017, se da un lato è vero che il 6% dei lavoratori possiede competenze basse rispetto alle mansioni svolte, d'altro canto ben il 21% è sotto qualificato. «Sorprendentemente, malgrado i bassi livelli di competenze che caratterizzano il Paese», si legge a un certo punto nel testo, «si osservano numerosi casi in cui i lavoratori hanno competenze superiori rispetto a quelle richieste dalla loro mansione, cosa che riflette la bassa domanda di competenze in Italia». Così, si scopre che i lavoratori con competenze in eccesso sono pari all'11,7% del totale, mentre i sovra-qualificati (18%) «rappresentano una parte sostanziale della forza lavoro italiana».
Altro dato significativo: circa il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi. Sempre lo stesso rapporto riconosce che «gli adulti che hanno competenze di basso livello in Italia sono, in gran parte, lavoratori più anziani e immigrati». Tradotto in parole più semplici: una fetta consistente di italiani che ha investito soldi e tempo prezioso nell'istruzione e nella formazione professionale si trova costretta, per sopravvivere, a svolgere mansioni ben diverse da quelle per cui aveva studiato. Lo «skill mismatch», perciò, va in due diverse direzioni: non solo le aziende faticano sempre più a trovare personale in possesso di particolari competenze, ma spesso e volentieri i lavoratori sono costretti ad accettare un impiego (e di conseguenza uno stipendio) molto al di sotto delle proprie capacità. Viste sotto questa luce, le cifre appena elencate forniscono una spiegazione logica sul perché un laureato a pieni voti si aspetta qualcosa di più (con tutto il rispetto) che friggere patatine in un fast food oppure inanellare stage a 600 euro al mese.
La folta schiera di italiani che, a torto o a ragione, rinunciano a svolgere le mansioni più umili lascia libera la prateria di quelli che in gergo tecnico si definiscono lavori «a bassa e media qualifica». Stando al IX rapporto annuale «Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia», pubblicato a luglio dal ministero del Lavoro, nel nostro Paese la quota di immigrati occupati con un impiego del genere è dell'86,5%, ben 26% in più rispetto ai nativi. Ben il 30% degli immigrati svolge occupazioni elementari, contro l'8% dei lavoratori nati in Italia, uno scarto giudicato simile a Stati con «storie migratorie più importanti, come la Germania, l'Austria e i Paesi nordici».
Questa profonda spaccatura trova spiegazione nel fatto che gli immigrati che arrivano in Italia hanno un livello di istruzione particolarmente basso: quasi la metà (49,4%) infatti non supera la scuola secondaria inferiore. Le politiche di immigrazione selvaggia sponsorizzate dalla sinistra italiana negli ultimi due decenni, dunque, hanno finito per attirare lavoratori poco istruiti e scarsamente qualificati. Non deve stupire perciò se in prima fila a pietire maestranze a costi prossimi allo zero ci siano imprenditori e industriali.
Tradurre queste considerazioni in termini di impatto sui salari non è cosa semplice. Pur concordando in linea generale sui benefici a lungo termine, gli esperti non sono giunti a una conclusione unanime quando si tratta di quantificare gli effetti delle migrazioni sull'andamento degli stipendi. Spiega il rapporto «The labour market effects of migration», pubblicato dal Migration observatory dell'università di Oxford: «L'impatto dell'immigrazione sul mercato del lavoro dipende in larga parte dalle competenze dei migranti, quelle dei nativi e le caratteristiche dell'economia ricevente».
Nel testo gli autori, pur riconoscendo «il modesto impatto dell'immigrazione sui salari medi» nel complesso, d'altro canto osservano che nel caso del Regno Unito a cambiare è stata la distribuzione del reddito. Per farla breve, i lavoratori con gli stipendi più bassi hanno visto scendere i loro già magri assegni, mentre quelli più alti ci hanno guadagnato. Particolare curioso: la ricerca suggerisce che i migranti appena arrivati nel Paese fanno concorrenza a quelli di vecchia data, in quanto le competenze di entrambi sono simili, ma i primi sono disposti a lavorare con salari più bassi.
Uno studio del Centro Europa ricerche pubblicato nel 2016 e firmato da Stefano Collignon (Sant'Anna) e Piero Esposito (Luiss) dimostra come in effetti i migranti facciano concorrenza agli abitanti del luogo. Conseguenza dovuta al fatto che, rispetto agli altri Paesi europei, l'Italia ha un livello di competenze più basso. Ragion per cui immigrati e nativi entrano in competizione per gli impieghi poco qualificati. Sono quelli che Alessandra Venturini (docente all'università di Torino) e Claudia Villosio (Collegio Carlo Alberto) chiamano «lavori etnici», vere e proprie gabbie dalle quali è difficilissimo affrancarsi. Una sconfitta per tutti: non solo per i migranti, per i quali diventa quasi impossibile migliorare la propria situazione reddituale, ma anche per gli italiani, che rischiano di impoverirsi e non beneficiano degli effetti positivi che potrebbe avere la nuova forza lavoro sulla ricchezza del Paese.
Rider senza contratti dal centro migranti di via Corelli a Milano
Il 10% dei rider presenti a Milano consegna cibo a domicilio in maniera irregolare. È il dato emerso dall'inchiesta aperta dalla Procura del capoluogo lombardo in seguito alle numerose segnalazioni raccolte dalle forze dell'ordine negli ultimi mesi. L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Maura Ripamonti e condotta dalla squadra specializzata di polizia giudiziaria e dalla polizia locale, è conoscitiva e non ancora penale. E per il momento non prevede alcuna ipotesi di reato. Tuttavia, tocca diversi punti: dalle possibili violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro al monitoraggio degli incidenti stradali, passando per eventuali dinamiche di caporalato e all'utilizzo di lavoratori stranieri irregolari sul territorio italiano, oltre che ai problemi di natura igienico-sanitaria.
Un controllo svolto ad agosto ha dimostrato che 3 rider extracomunitari su 30 lavoravano senza avere le carte in regola. Alcuni di questi lo fanno uscendo direttamente dal Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano, dove risiedono richiedenti asilo con permessi di soggiorno temporanei e ai quali, in teoria, è permesso lavorare. Ma a quali condizioni?
Come documentato dalle immagini visibili sul sito della Verità, siamo andati fuori dal Cpr per verificare se e quanti richiedenti asilo svolgessero il mestiere di fattorini per le piattaforme di food delivery uscendo direttamente da una struttura pubblica che dovrebbe aiutare i suoi ospiti a integrarsi con il resto della società, anche attraverso un lavoro legale e dignitoso. E invece così non è.
Arriviamo davanti al centro alle 10.30 del mattino di un giorno qualunque di metà settimana. Tra le tante biciclette parcheggiate nel cortile all'interno se ne notano subito due: una ha lo zainetto termico di Just Eat, l'altra quello di Deliveroo. Il primo rider esce alle 11.31 spingendo la bicicletta a piedi: sacca Glovo in spalla, sbadigli e bicchiere di cartone in mano da cui sorseggia una bevanda.
Due minuti più tardi, alle 11.33, tocca al secondo: smartphone in mano e cuffie alle orecchie, lui lavora per Uber Eats e corre già spedito verso la ciclabile di via Corelli che lo condurrà in centro. Alle 11.44 ne escono due insieme: ancora Glovo e ancora Deliveroo. Loro imboccano la stradina in ghiaia che sbuca direttamente in via Cavriana. Alle 11.50, dalle inferriate del cancello, si intravedono appoggiati sull'asfalto quattro zainetti verdi, tutti Uber Eats, pronti per essere caricati in spalla da altrettanti rider. Alle 13 saranno in tutto dieci gli ospiti del Cpr ad aver abbandonato il centro in sella alle biciclette dotati di attrezzatura per le consegne.
Uno di questi, un senegalese di 23 anni, ci ha detto di essere «in possesso del permesso di soggiorno, quello giallo». Facendo un pezzetto di strada insieme, il ragazzo ci dice ancora: «Questo permesso mi dura sei mesi, poi dovrò farne uno nuovo. Se posso lavorare? Sì, non posso fare un lavoro con un contratto normale, lavoro in nero e posso lavorare quante ore voglio». Una confessione, quella del rider senegalese, che testimonia come dietro il mondo dei fattorini si sia creata una zona d'ombra, un circuito che così non può proprio funzionare. Chi si riempie continuamente la bocca di parole come accoglienza, integrazione, solidarietà nei confronti degli immigrati, sottovaluta, o peggio, ignora che in questo modo viene istituzionalizzato un circolo vizioso e non virtuoso, perché nel migliore dei casi il rider, clandestino o meno che sia, viene sottopagato. In quello peggiore, lavora in nero senza avere quindi alcun tipo di garanzia e tutela.
Secondo uno studio elaborato dall'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp) e pubblicato il 25 settembre scorso, il 42,1% dei 213.150 impiegati dalle piattaforme che operano nel settore della Gig economy lo fa senza avere un contratto di lavoro e quindi in nero. E fa un certo effetto constatare il fatto che alcuni di questi rider, seppur in piccola percentuale, possano uscire direttamente da una struttura di accoglienza pubblica come quella di via Corelli per schizzare in sella a una bicicletta e fare la trottola tra le vie del centro di Milano consegnando cibo a domicilio, spesso imboccando vie e marciapiedi contromano per guadagnare qualcosa. Qualcosa che nella gran parte dei casi, come emerso dall'inchiesta pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera, diventa qualcosina, perché il fenomeno va a sfociare in un vero e proprio caporalato digitale.
Chi consegna cibo a domicilio con lo status di clandestino irregolare è costretto a farlo sotto mentite spoglie. Nell'ipotesi migliore il rider immigrato è aiutato da un connazionale o da qualche amico fattorino regolarmente registrato alla piattaforma di food delivery, che nel frattempo ha trovato un altro impiego e per solidarietà cede account e attrezzatura al collega. Nella peggiore, invece, ci si trova di fronte a una vera e propria forma di sfruttamento con altri individui che prima completano l'iscrizione alla piattaforma, poi prestano l'utenza ai clandestini chiedendo loro in cambio una percentuale sul guadagno già misero.
Sui 4,52 euro guadagnati dal rider per ogni consegna, 90 centesimi vanno al caporale di turno. Una tangente pari al 20% del guadagno che va a finire pulita pulita nelle tasche di chi ha registrato l'account per poi prestarlo a un irregolare che farà il lavoro al posto suo.
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Gli sbarchi fanno comodo agli imprenditori per avere manodopera a basso costo. Così le aziende e i «caporali» possono dare paghe da fame anche agli italiani.La Verità ha filmato i fattorini del food delivery che escono dal Cpr meneghino. E uno ci rivela: «Lavoro soltanto in nero».Lo speciale contiene due articoli.C'erano una volta le piantagioni di cotone. Oggi la tragedia della schiavitù moderna va in scena in mezzo ai frutteti, agli oliveti e alle sconfinate coltivazioni di pomodori e altri ortaggi. La figura del padrone spietato è stata ormai sostituita dai «caporali», odierni reclutatori di forza lavoro a bassissimo costo. Un sistema nel quale gli immigrati spesso pagano il prezzo più caro. «Mentre venivo qui, ci sono state imprese che mi hanno chiamato per dirmi una cosa semplicissima», ha confessato candidamente pochi giorni fa alla trasmissione televisiva Otto e mezzo il ministro delle Politiche agricole del governo giallorosso, Teresa Bellanova: «Senza flussi migratori ben regolati molte delle nostre produzioni marciscono nei campi, e i lavoratori polacchi che prima venivano qui adesso vanno in Germania». Sembra quasi di risentire Emma Bonino, senatrice di +Europa, quando in piena campagna elettorale per le politiche del 2018 parlando dei migranti spiegava serenamente che «senza di loro nessuno raccoglierebbe i pomodori». Ma non c'è solo l'agricoltura: anche l'industria chiede a gran voce manovalanza a prezzi modici. Come ha raccontato il Fatto Quotidiano una manciata di giorni fa, a margine del Forum Ambrosetti di Cernobbio, il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia lamentava lo scarso interesse del governo per ciò che concerne l'approvvigionamento di forza lavoro: «Da tempo non affrontiamo più queste questioni, se blocchiamo i porti creiamo un blocco anche su questi temi». Un'ulteriore conferma del fatto che lo stop imposto da Matteo Salvini agli sbarchi indiscriminati, più che ai migranti, ha dato fastidio a chi tiene il pallino dell'economia italiana.Tutta questa retorica ha un rovescio della medaglia ben preciso: quello che ritrae gli italiani, e in particolare i giovani, ora «bamboccioni» (termine utilizzato dal fu ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa, quello che invocava il ritorno alla «durezza del vivere»), ora «choosy» (come ebbe a dire l'ex ministro del Lavoro Elsa Fornero). Viene spontaneo chiedersi se le cose stiano realmente così. Spesso si punta il dito sul disallineamento tra le competenze richieste e quelle effettivamente possedute dai lavoratori. Quello che in gergo viene definito «skill mismatch», però, segue dinamiche sorprendenti. Secondo il documento «Strategia per le competenze», pubblicato dall'Ocse nel 2017, se da un lato è vero che il 6% dei lavoratori possiede competenze basse rispetto alle mansioni svolte, d'altro canto ben il 21% è sotto qualificato. «Sorprendentemente, malgrado i bassi livelli di competenze che caratterizzano il Paese», si legge a un certo punto nel testo, «si osservano numerosi casi in cui i lavoratori hanno competenze superiori rispetto a quelle richieste dalla loro mansione, cosa che riflette la bassa domanda di competenze in Italia». Così, si scopre che i lavoratori con competenze in eccesso sono pari all'11,7% del totale, mentre i sovra-qualificati (18%) «rappresentano una parte sostanziale della forza lavoro italiana». Altro dato significativo: circa il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi. Sempre lo stesso rapporto riconosce che «gli adulti che hanno competenze di basso livello in Italia sono, in gran parte, lavoratori più anziani e immigrati». Tradotto in parole più semplici: una fetta consistente di italiani che ha investito soldi e tempo prezioso nell'istruzione e nella formazione professionale si trova costretta, per sopravvivere, a svolgere mansioni ben diverse da quelle per cui aveva studiato. Lo «skill mismatch», perciò, va in due diverse direzioni: non solo le aziende faticano sempre più a trovare personale in possesso di particolari competenze, ma spesso e volentieri i lavoratori sono costretti ad accettare un impiego (e di conseguenza uno stipendio) molto al di sotto delle proprie capacità. Viste sotto questa luce, le cifre appena elencate forniscono una spiegazione logica sul perché un laureato a pieni voti si aspetta qualcosa di più (con tutto il rispetto) che friggere patatine in un fast food oppure inanellare stage a 600 euro al mese. La folta schiera di italiani che, a torto o a ragione, rinunciano a svolgere le mansioni più umili lascia libera la prateria di quelli che in gergo tecnico si definiscono lavori «a bassa e media qualifica». Stando al IX rapporto annuale «Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia», pubblicato a luglio dal ministero del Lavoro, nel nostro Paese la quota di immigrati occupati con un impiego del genere è dell'86,5%, ben 26% in più rispetto ai nativi. Ben il 30% degli immigrati svolge occupazioni elementari, contro l'8% dei lavoratori nati in Italia, uno scarto giudicato simile a Stati con «storie migratorie più importanti, come la Germania, l'Austria e i Paesi nordici». Questa profonda spaccatura trova spiegazione nel fatto che gli immigrati che arrivano in Italia hanno un livello di istruzione particolarmente basso: quasi la metà (49,4%) infatti non supera la scuola secondaria inferiore. Le politiche di immigrazione selvaggia sponsorizzate dalla sinistra italiana negli ultimi due decenni, dunque, hanno finito per attirare lavoratori poco istruiti e scarsamente qualificati. Non deve stupire perciò se in prima fila a pietire maestranze a costi prossimi allo zero ci siano imprenditori e industriali.Tradurre queste considerazioni in termini di impatto sui salari non è cosa semplice. Pur concordando in linea generale sui benefici a lungo termine, gli esperti non sono giunti a una conclusione unanime quando si tratta di quantificare gli effetti delle migrazioni sull'andamento degli stipendi. Spiega il rapporto «The labour market effects of migration», pubblicato dal Migration observatory dell'università di Oxford: «L'impatto dell'immigrazione sul mercato del lavoro dipende in larga parte dalle competenze dei migranti, quelle dei nativi e le caratteristiche dell'economia ricevente». Nel testo gli autori, pur riconoscendo «il modesto impatto dell'immigrazione sui salari medi» nel complesso, d'altro canto osservano che nel caso del Regno Unito a cambiare è stata la distribuzione del reddito. Per farla breve, i lavoratori con gli stipendi più bassi hanno visto scendere i loro già magri assegni, mentre quelli più alti ci hanno guadagnato. Particolare curioso: la ricerca suggerisce che i migranti appena arrivati nel Paese fanno concorrenza a quelli di vecchia data, in quanto le competenze di entrambi sono simili, ma i primi sono disposti a lavorare con salari più bassi. Uno studio del Centro Europa ricerche pubblicato nel 2016 e firmato da Stefano Collignon (Sant'Anna) e Piero Esposito (Luiss) dimostra come in effetti i migranti facciano concorrenza agli abitanti del luogo. Conseguenza dovuta al fatto che, rispetto agli altri Paesi europei, l'Italia ha un livello di competenze più basso. Ragion per cui immigrati e nativi entrano in competizione per gli impieghi poco qualificati. Sono quelli che Alessandra Venturini (docente all'università di Torino) e Claudia Villosio (Collegio Carlo Alberto) chiamano «lavori etnici», vere e proprie gabbie dalle quali è difficilissimo affrancarsi. Una sconfitta per tutti: non solo per i migranti, per i quali diventa quasi impossibile migliorare la propria situazione reddituale, ma anche per gli italiani, che rischiano di impoverirsi e non beneficiano degli effetti positivi che potrebbe avere la nuova forza lavoro sulla ricchezza del Paese.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/porti-aperti-e-rider-senza-contratto-dai-centri-di-permanenza-2640782553.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rider-senza-contratti-dal-centro-migranti-di-via-corelli-a-milano" data-post-id="2640782553" data-published-at="1765405549" data-use-pagination="False"> Rider senza contratti dal centro migranti di via Corelli a Milano Il 10% dei rider presenti a Milano consegna cibo a domicilio in maniera irregolare. È il dato emerso dall'inchiesta aperta dalla Procura del capoluogo lombardo in seguito alle numerose segnalazioni raccolte dalle forze dell'ordine negli ultimi mesi. L'indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Maura Ripamonti e condotta dalla squadra specializzata di polizia giudiziaria e dalla polizia locale, è conoscitiva e non ancora penale. E per il momento non prevede alcuna ipotesi di reato. Tuttavia, tocca diversi punti: dalle possibili violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro al monitoraggio degli incidenti stradali, passando per eventuali dinamiche di caporalato e all'utilizzo di lavoratori stranieri irregolari sul territorio italiano, oltre che ai problemi di natura igienico-sanitaria. Un controllo svolto ad agosto ha dimostrato che 3 rider extracomunitari su 30 lavoravano senza avere le carte in regola. Alcuni di questi lo fanno uscendo direttamente dal Centro di permanenza per i rimpatri di via Corelli a Milano, dove risiedono richiedenti asilo con permessi di soggiorno temporanei e ai quali, in teoria, è permesso lavorare. Ma a quali condizioni? Come documentato dalle immagini visibili sul sito della Verità, siamo andati fuori dal Cpr per verificare se e quanti richiedenti asilo svolgessero il mestiere di fattorini per le piattaforme di food delivery uscendo direttamente da una struttura pubblica che dovrebbe aiutare i suoi ospiti a integrarsi con il resto della società, anche attraverso un lavoro legale e dignitoso. E invece così non è. Arriviamo davanti al centro alle 10.30 del mattino di un giorno qualunque di metà settimana. Tra le tante biciclette parcheggiate nel cortile all'interno se ne notano subito due: una ha lo zainetto termico di Just Eat, l'altra quello di Deliveroo. Il primo rider esce alle 11.31 spingendo la bicicletta a piedi: sacca Glovo in spalla, sbadigli e bicchiere di cartone in mano da cui sorseggia una bevanda. Due minuti più tardi, alle 11.33, tocca al secondo: smartphone in mano e cuffie alle orecchie, lui lavora per Uber Eats e corre già spedito verso la ciclabile di via Corelli che lo condurrà in centro. Alle 11.44 ne escono due insieme: ancora Glovo e ancora Deliveroo. Loro imboccano la stradina in ghiaia che sbuca direttamente in via Cavriana. Alle 11.50, dalle inferriate del cancello, si intravedono appoggiati sull'asfalto quattro zainetti verdi, tutti Uber Eats, pronti per essere caricati in spalla da altrettanti rider. Alle 13 saranno in tutto dieci gli ospiti del Cpr ad aver abbandonato il centro in sella alle biciclette dotati di attrezzatura per le consegne. Uno di questi, un senegalese di 23 anni, ci ha detto di essere «in possesso del permesso di soggiorno, quello giallo». Facendo un pezzetto di strada insieme, il ragazzo ci dice ancora: «Questo permesso mi dura sei mesi, poi dovrò farne uno nuovo. Se posso lavorare? Sì, non posso fare un lavoro con un contratto normale, lavoro in nero e posso lavorare quante ore voglio». Una confessione, quella del rider senegalese, che testimonia come dietro il mondo dei fattorini si sia creata una zona d'ombra, un circuito che così non può proprio funzionare. Chi si riempie continuamente la bocca di parole come accoglienza, integrazione, solidarietà nei confronti degli immigrati, sottovaluta, o peggio, ignora che in questo modo viene istituzionalizzato un circolo vizioso e non virtuoso, perché nel migliore dei casi il rider, clandestino o meno che sia, viene sottopagato. In quello peggiore, lavora in nero senza avere quindi alcun tipo di garanzia e tutela. Secondo uno studio elaborato dall'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche (Inapp) e pubblicato il 25 settembre scorso, il 42,1% dei 213.150 impiegati dalle piattaforme che operano nel settore della Gig economy lo fa senza avere un contratto di lavoro e quindi in nero. E fa un certo effetto constatare il fatto che alcuni di questi rider, seppur in piccola percentuale, possano uscire direttamente da una struttura di accoglienza pubblica come quella di via Corelli per schizzare in sella a una bicicletta e fare la trottola tra le vie del centro di Milano consegnando cibo a domicilio, spesso imboccando vie e marciapiedi contromano per guadagnare qualcosa. Qualcosa che nella gran parte dei casi, come emerso dall'inchiesta pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera, diventa qualcosina, perché il fenomeno va a sfociare in un vero e proprio caporalato digitale. Chi consegna cibo a domicilio con lo status di clandestino irregolare è costretto a farlo sotto mentite spoglie. Nell'ipotesi migliore il rider immigrato è aiutato da un connazionale o da qualche amico fattorino regolarmente registrato alla piattaforma di food delivery, che nel frattempo ha trovato un altro impiego e per solidarietà cede account e attrezzatura al collega. Nella peggiore, invece, ci si trova di fronte a una vera e propria forma di sfruttamento con altri individui che prima completano l'iscrizione alla piattaforma, poi prestano l'utenza ai clandestini chiedendo loro in cambio una percentuale sul guadagno già misero. Sui 4,52 euro guadagnati dal rider per ogni consegna, 90 centesimi vanno al caporale di turno. Una tangente pari al 20% del guadagno che va a finire pulita pulita nelle tasche di chi ha registrato l'account per poi prestarlo a un irregolare che farà il lavoro al posto suo.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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