Conti in rosso, impianti inadeguati, top player in fuga. Il calcio italiano è sempre più in crisi.
Lo speciale comprende cinque articoli.
Serie A. Ma lo è ancora? L’orticello non cambia, la passione è la stessa. Ogni anno a una settimana dall’inizio del campionato di calcio l’adrenalina aumenta, i giornali sportivi vendono (quasi) come ai tempi d’oro e sul bancone dei gelati Sammontana si accendono le discussioni dei tifosi rapiti dai nomi esotici dei nuovi arrivati. In attesa di verificare in concreto se sonofenomeni, brocchi o semplici ragionieri del pallone. Al di là del fideismo calciofilo il tendone del grande circo scricchiola. E un tiro al volo sotto la traversa di Victor Osimhen, Lautaro Martinez, Olivier Giroud, Dusan Vlahovic non basta più a nascondere una caterva di problemi congeniti di un sistema uscito con le ossa rotte dalla pandemia, che non riesce ad essere attrattivo neppure per le tv (vedi diritti negoziati al ribasso) .
Può ancora chiamarsi di Serie A un torneo con metà dei club a debito (tranne Atalanta, Napoli e Milan), qualche big con la proprietà sull’orlo del baratro (l’Inter vicecampione d’Europa), qualche altra in mano a fondi che non hanno come obiettivo il successo ma i dividendi degli azionisti (Milan)? E la Juventus che ricapitalizza a nastro per non precipitare? Può ancora definirsi un’eccellenza un campionato in cui i top player latitano, e se non vengono portati via da Premier e Bundesliga scappano a svernare dagli arabi? Può specchiarsi nel passato con orgoglio una Serie A in cui non si riesce a costruire uno stadio nuovo e non c’è caso giudiziario che la Federcalcio non complichi con perversa fantasia? Vediamo tutto con calma, sorretti dalla famosa frase di Nereo Rocco. A chi gli augurava «vinca il migliore», il grande mister triestino rispondeva: «Speremo de no».
Debiti per 5,6 miliardi. E con le tv l’asta è al ribasso
Il colore preferito è il rosso. Non per via del Milan e della Roma ma a causa dei debiti: il calcio italiano è una macchina mangiasoldi, nel 2022 (ultimo anno solare verificato) il movimento ha subìto perdite per 1,4 miliardi di euro e i debiti sono saliti a 5,6 miliardi. In questo contesto è molto difficile ipotizzare un futuro concorrenziale rispetto alla Premier League da Playstation, al campionato spagnolo con i totem Real Madrid e Barcellona, ma anche alla Bundesliga dove il Bayern Monaco fa il solito torneo in solitaria, infastidito a turno da Borussia Dortmund e Lipsia. L’opulenza limita la noia, soprattutto consente di strutturare squadre sempre più competitive, imbottite di campioni e non solo di speranze o di cavalli di ritorno.
Non è il caso del calcio italiano, che ha pagato più di tutti lo stop dovuto alla pandemia: 3,3 milioni persi al giorno nel triennio Covid. La ripresa è stata lenta, una traversata del deserto con molti feriti: la sola Serie A nel 2022 ha registrato un valore della produzione poco inferiore ai 3 miliardi, in decremento del 6,5% rispetto all’anno precedente (quello finito ad agosto). I club hanno spesso fatto ricorso a denaro che non avevano: plusvalenze e cessioni hanno registrato un incremento di 132 milioni, lontanissimi dagli 835 milioni pre pandemia (fonte l’ultimo Report Calcio di Figc e Pwc).
La mancanza di fondi è ormai strutturale, le proprietà storiche tendono a defilarsi anche perché i costi sono altissimi: in tre anni per mantenere il giocattolo Monza Silvio Berlusconi aveva bruciato 80 milioni. Ora il destino del club è nelle mani dell’abile Adriano Galliani e dei risultati di questa stagione. Nel frattempo tutto il sistema sembra reggersi sui «pagherò». I prestiti con diritto di riscatto non sono altro che cambiali a scadenza. Significa ipotecare il futuro. A fine agosto dello scorso anno i milioni svolazzanti, ancora da saldare, erano 170. Quest’anno potrebbero oltrepassare i 200.
In questo scenario i colossi televisivi (anche loro con sostanziose spending review in atto) hanno scoperto che i diritti tv del calcio non valgono più sforzi titanici. Nel triennio in corso la Lega è riuscita a portare a casa 1,2 miliardi anche con il sostegno di Tim che ha garantito l’autostrada digitale a Dazn (e quando c’è il buffering prendersela con la tv e non con il proprietario della rete è ridicolo). Ma dal 2024 la musica cambia, nessuno fa beneficenza, Sky non se lo può più permettere. E finora l’asta interlocutoria ha raggiunto esiti ben lontani dal miliardino che piace ai presidenti delle società, indispensabile per spalmarci le perdite di gestione.
Pezze ai gomiti, solo giacche di tweed per mascherarle. Con un nuovo parametro micidiale: la Saudi Pro League che sta dragando campioni nella speranza di moltiplicare i fatturati e di sbarcare in Europa. Non sarà facile perché, oltre a comprare calciatori, i club di proprietà del fondo sovrano Pif dovrebbero comprare tifosi (la media spettatori di quel campionato è di 9.000 persone, più o meno come la Serie A belga). Niente a che vedere con i 70.000 di San Siro ogni maledetta domenica. Poi, in tutta questa depression, succede che tre club italiani arrivino in finale nelle tre competizione europee. E perdano.
Lo schiaffo su San Siro dimostra che fare nuovi stadi è impossibile
Uno stadio, tutti gli stadi. Uno scandalo, tutti gli scandali. È la storia italiana per eccellenza, quella che ci racconta non solo un fallimento istituzionale ma anche l’immobilismo infrastrutturale del Paese. E il ruolo ancillare che ormai lo sport principale d’Italia ha nei confronti dei gruppi di pressione, del politicamente corretto, degli interessi quasi personali di pigmei della politica incistati nei consigli comunali. La vicenda è quella dello stadio di San Siro, bandiera stracciata di una sconfitta, e della fuga delle due storiche squadre di calcio da Milano.
Inter e Milan sono destinati ad andarsene dopo sei anni di prese in giro, dopo aver prodotto un progetto avveniristico (la Cattedrale) per continuare a vivere insieme, con costi suddivisi per 1,2 miliardi di euro. Scapperanno fuori Milano, sospinti dal groviglio di distinguo, di impedimenti, quando non di ostruzionismi dell’amministrazione di Giuseppe Sala dove, prendendo a prestito una strofa di Francesco Guccini, «chiunque avesse un tiramento» poneva un veto. Il progetto era affascinante e al tempo stesso speculativo (troppo consumo di suolo, troppo poco verde); sarebbe stata fondamentale una trattativa costruttiva ma i niet della giunta green hanno raffreddato ogni entusiasmo. In tutto questo il Vanity sindaco prima ha fatto il pesce in barile, poi il principe amletico chiamandosi fuori. Una commedia all’italiana fino all’arrivo del vincolo della Soprintendenza per il secondo anello; San Siro non si può abbattere ed è condannato a un destino da rudere. Il Milan ha già acquisito la società proprietaria dei terreni di San Donato e l’Inter ha opzionato per un anno un’area di Rozzano per verificare la fattibilità in proprio della Cattedrale.
A Milano non si può costruire un nuovo stadio. Segnale pessimo per tutto il sistema calcio, dopo il fallimentare tentativo di Roma, dopo il rifiuto di Bruxelles di finanziare con i soldi del Pnrr gli impianti di Firenze e Venezia. In un mondo dello sport in cui gli stadi sono asset decisivi per dare prospettive economiche ai club, sconfitte come questa segnano una fragilità congenita, un declino inarrestabile. Gli unici esempi positivi arrivano dall’Udinese e dall’Atalanta, terre in cui il pragmatismo progettuale riesce ancora a prendere a calci i veti incrociati per favorire l’interesse comune.
È perfino struggente il parere di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, sul pasticcio meneghino. «Se da sindaco avessi seguito questi contrasti i grattacieli di Porta Nuova non sarebbero mai nati. Non voglio attribuire al povero Sala questa stangata della Soprintendenza, peraltro incomprensibile perché non so cosa ci sia da salvaguardare a San Siro, ma temo che sarà una tragedia. Le squadre hanno detto dall’inizio che il Meazza non andava più bene e hanno proposto l’unica cosa sensata, raderlo al suolo e farne uno nuovo bellissimo, il progetto della Cattedrale sì sarebbe stato un’opera da tutelare. Lo stadio senza il calcio sarà un rudere». Il massimo della beffa è la proposta della Federcalcio di condividere con la Turchia l’organizzazione degli Europei di calcio del 2032. Mentre da noi il saldo è di zero stadi, solo a Istanbul ne sono stati realizzati quattro.
I (pochi) campioni se ne vanno dagli sceicchi o nella Premier
C’era una volta il calciomercato dei nababbi. Erano soprattutto Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli e Massimo Moratti, presidenti innamorati che si svenavano col sorriso sulle labbra per far felice il popolo con sciarpa bicolore. Arrivavano Ronaldo il Fenomeno, Zinedine Zidane, Andrij Shevchenko e Kakà. Mentre a Napoli danzava Diego Maradona. Gli zeri dietro la cifra non contavano, erano sogni rotondi, erano le ruote sulle quali viaggiavano le fuoriserie dello scudetto. L’ultimo alieno in entrata è stato Cristiano Ronaldo. Ciò che avviene oggi appartiene a un’altra era geologica, quella della Grande Depressione.
Classico termometro per indicare la febbre di un campionato, nell’era del riscaldamento globale il calciomercato indica glaciazione permanente. Mai come quest’anno. Mai come nella stucchevole estate della noia, in cui l’unico feuilleton degno di un Dumas zio è quello che riguarda Romelu Lukaku. Il belga ex nerazzurro, l’uomo al quale Pep Guardiola ha dedicato la Champions league: «Ho vinto perché ha sbagliato a tre metri dalla porta». Ecco, tutti appesi alla sua barbetta caprina. L’Inter tradita mentre grattava gli ultimi spiccioli per ingaggiarlo, la Juventus interessata (anche se i tifosi lo detestano) per soddisfare il «corto muso» di Max Allegri, il Chelsea intenzionato a monetizzare per toglierselo dai piedi e mandarlo nella Saudi Pro League. Da un mese non si parla che di un cavallo di ritorno, soldi veri zero, colpi da maestro nessuno. Campioni affermati manco a parlarne.
Nel frattempo se ne sono andati ottimi centrocampisti come Marcelo Brozovic (20 milioni) e Sergej Milinkovic Savic (40 milioni), rapiti dal flusso di denaro messo a disposizione dagli sceicchi per provare a trasformare in un torneo vero un luna park fra le dune per pensionati senza stimoli. Conseguenza, un trading senza idee, senza prospettiva e soprattutto senza soldi. Per comprare al centro commerciale le italiane hanno dovuto prima vendere con ricadute sanguinose.
Lo ha fatto l’Inter, che ha rinunciato a un portiere leader come André Onana (56 milioni al Manchester United). Lo ha fatto il Milan, che si è strappato un pezzo di cuore lasciando andare via per 70 milioni (destinazione Newcastle) il leader della squadra Sandro Tonali. E lo ha fatto l’Atalanta - con gioia - rifilando il gioiellino Rasmus Hojlund sempre al Manchester United (80 milioni, affarone, tutti vorrebbero avere a che fare con i rossi in piena crisi depressiva dopo essere stati surclassati in città dal City di Guardiola e degli sceicchi). Con una postilla surreale: lo staff medico inglese ha scoperto che l’ex atalantino ha un problema alla schiena e salterà la preparazione. Furibondi e pure fessi.
Al di là del folclore, un calciomercato finanziato con le cessioni è un fallimento in partenza, significa che non ci sono margini per investire. Anche la Juventus sembra avere le mani legate: per prendere Lukaku deve vendere Vlahovic al Chelsea. Operazione necessaria per avere i liquidi (30 milioni) destinati a pagare l’ultima tranche dell’acquisto del centravanti serbo due anni fa dalla Fiorentina. Figurine cedute, figurine scambiate. Roba da mercato rionale, bisogna adattarsi all’austerity. Ma sognare Marko Arnautovic è dura.
Dalle plusvalenze al caso Lecco, le regole sono saltate
Il Lecco è in Serie B ma non gioca aspettando la sentenza del Consiglio di Stato. Le multiproprietà sono un controsenso ma Aurelio De Laurentiis può essere di fatto padrone di Napoli e Bari fino al 2029. L’ex presidente Andrea Agnelli è stato inibito per 16 mesi in seguito alla manovra «stipendi spalmati» della Juventus ma il club ha ottenuto il patteggiamento con 718.000 euro di multa. Una mancia rispetto ai 10 punti di penalità per il caso plusvalenze. Nessuno ha protestato perché tutte (proprio tutte) le altre società hanno giocatori farlocchi negli armadi come scheletri putrescenti. Sono i casi più recenti del capitolo: Serie A senza regole.
Il problema è enorme. Nonostante le tavole federali della legge siano scritte sulla pietra, oggi il governo del pallone è incline più alle deroghe che all’applicazione delle norme. E la giustizia sportiva gli va dietro nel balbettìo di sentenze pronte per essere ribaltate nel giorno stesso in cui escono. Una debolezza alla luce del sole, perché c’è sempre un grado di giudizio superiore, c’è sempre la possibilità di incartare le prove, di rigirare le frittate, di far sembrare la legalità un luna park per avvocati specializzati.
Il caso del Lecco è esemplare, la città manzoniana rischia di essere strangolata dagli Azzeccagarbugli. La squadra ha vinto il campionato di Lega Pro (la vecchia C1) a suon di gol, è stata promossa ma non è ancora sicura di poter giocare in B per aver inviato il dossier stadio (con la possibilità di giocare a Padova mentre il vecchio Rigamonti sarà ristrutturato sotto il Resegone) con un giorno oltre la scadenza dei termini. Il ritardo era dovuto alla tempistica minima per completare le scartoffie e alla mancanza di una firma, quella del prefetto di Padova in ferie. Invece di un bel patteggiamento e di una multa (do you remember stipendi spalmati?) ecco che davanti al piccolo Lecco si erge imperiosa la volontà di legalità dei poteri forti del pallone. Il Lecco è in ritardo? Il Lecco non venga promosso. Ma poiché nel frattempo non si era iscritto neppure alla Lega Pro - a che pro, era in B - il club ha visto materializzarsi lo spettro della Terza Categoria.
Il Tar ha ribaltato l’ultima sentenza di condanna, per ora i blucelesti sono nel limbo ma dovranno attendere il 29 agosto, giorno del Consiglio di Stato, per sapere in quale campionato giocheranno. La faccenda ha portato con sé una slavina: ricorsi di Brescia, Perugia, Reggina. Un caos procedurale, carte da bollo a Ferragosto. Con il campionato di Serie B che partirà senza le ricorrenti. Saranno giudici che magari amano il ping pong a decidere chi giocherà nel secondo campionato professionistico italiano. Molto bene.
Un’immagine devastante per un sistema professionistico che vorrebbe espandersi e costruire una «narrazione europea», come piace ripetere al presidente della Federcalcio Gabriele Gravina. Quest’ultimo viene ritenuto un manager debole, pronto al compromesso con chiunque e alla scappatoia del disimpegno («Io non c’ero e se c’ero dormivo») quando sarebbe necessario invece prendere decisioni per il bene di tutto il movimento. Nel frattempo De Laurentiis resta proprietario sia del Napoli, sia del Bari. Per fortuna club che militano in campionati diversi. Che si fa? Si decide di prorogare l’anomalia per altri sei anni. Puro indecisionismo.
Corsa a quattro per lo scudetto, decisivo il mercato
Nonostante le questue, i bond in scadenza e qualche eccesso alla Totò davanti alla fontana di Trevi, sabato 19 ricomincia la caccia allo scudetto cucito sulle maglie del pirotecnico Napoli di Aurelio De Laurentiis. Salutato Luciano Spalletti in ansia da anno sabbatico (temeva la cessione di mezza squadra e non ha voluto correre rischi), sulla panchina degli azzurri c’è Rudy Garcia che ha vinto il casting del presidente. Poiché il mercato è aperto fino al 31 agosto non è detto che le squadre della prima giornata siano anche quelle della terza. Fino all’ultimo i tifosi partenopei temono lo scippo di Victor Osimhen, fenomenale cannoniere in piena sintonia con la moda del momento: il carroarmato decathleta tuttofare. Come Erling Haaland. Il destino del puntero nigeriano sta tutto in una virgola. Con il rinnovo del contratto a Napoli guadagnerebbe 5,5 milioni l’anno ma il club arabo Al Hilal (lo stesso di Karim Benzema) ha deciso di non usare la punteggiatura. Offerta da 55 milioni a lui per finire a 24 anni in un ospizio calcistico per miliardari e 180 a De Laurentiis per il disturbo. Numeri fuori da ogni logica davanti ai quali nessun presidente sano di mente chiuderebbe preventivamente la porta alla trattativa. Con o senza Osimhen è un altro Napoli. Questo anche se la struttura di centrocampo è d’acciaio (Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka confermati) e il mago georgiano Khvicha Kvaratshkselia è pronto a ripetere una strepitosa stagione.
Dietro ai campioni in carica è ben strutturata l’Inter reduce da un’ottima annata (finale di Champions, Coppa Italia, quattro derby vinti). Ha ingaggiato un giovane promettente come Davide Frattesi, intende lanciare in attacco l’eclettico Markus Thuram accanto a Lautaro. Ha perso peso ed esperienza (via Lukaku, Brozovic, Onana, Edin Dzeko), monte-ingaggi più leggero e pure l’età media scesa verso i 25 anni. Da verificare l’inserimento di Juan Cuadrado, tiro mancino ai tifosi. Chissà se bastano due dribbling a cancellarne la juventinità.
Dall’altra parte del Naviglio, il Milan è pronto a una galoppata di vertice. Gli uomini di Gerry Cardinale hanno molto lavorato su giocatori giovani, atleticamente formidabili e già pronti a dare battaglia. Nessun fenomeno, ma neppure gli altri ne hanno portati a casa. I più strutturati e noti sono i due ex Chelsea, Christian Pulisic e Ruben Loftus Cheek, gambe e testa da Premier. I due più interessanti sono Yunus Musah dal Valencia e il centravanti Noah Okafor dal Salisburgo. L’uomo nuovo che potrebbe illuminare San Siro e far dimenticare Tonali è Tijjani Reijnders, arrivato dall’AZ Alkmaar. Dalle prime amichevoli un potenziale top a centrocampo, grinta e idee, 19 milioni spesi bene.
Con le milanesi c’è la Juventus della telenovela Lukaku (arriva, non arriva, i tifosi non lo vogliono), del rientrante Paul Pogba, del ritrovato Federico Chiesa, dell’eterna promessa Niccolò Zaniolo (se si concretizza). Una fionda micidiale dedita al contropiede come piace ad Allegri. Difesa chiusa e in porta con tre passaggi, alla faccia dei nostalgici del tiki-taka. La corazzata non va mai sottovalutata. Neppure fuori dal campo: capitan Leonardo Bonucci, escluso dal progetto per limiti di età, ha chiesto il reintegro rivolgendosi a un legale neanche fosse un postelegrafonico licenziato.
Lazio e Roma hanno la pozione magica in panchina, Maurizio Sarri e Josè Mourinho sanno trasformare il ferro in oro. E a Bergamo, Gian Piero Gasperini è sulla stessa linea d’onda. Con l’ariete Gianluca Scamacca in area e il portafoglio pieno nella tasca di Antonio Percassi, il popolo orobico è pronto a urlare ancora una volta «adess adoss».