
Durante la gestazione di ogni nuovo governo, tutti sono concentrati sul mitico «totoministri», cioè il giochino - un po’ calciomercato, un po’ corsa dei cavalli, un po’ pugilato con sangue vero, un po’ wrestling con colpi farlocchi - che conduce alla selezione della futura squadra di governo.
La sequenza è nota: prima ci sono le trattative tra il presidente del Consiglio in pectore e gli alleati della sua maggioranza, con relativa e faticosa spartizione; poi scatta il braccio di ferro, più o meno morbido, tra premier incaricato e Quirinale (si sa: il premier propone e il Colle nomina, dunque il negoziato, spesso ruvido, è nelle cose); in quella sede, si effettuano le cancellazioni o gli spostamenti dell’ultimo minuto (nel secondo caso, i malcapitati si adattano; nel primo, si disperano, destinando a qualche prima comunione o a qualche mesta cerimonia privata l’abito scuro nuovo che avevano incautamente acquistato); poi c’è l’apparizione davanti alle telecamere del segretario generale del Quirinale (tendenzialmente in estasi mistica, se il governo è di sinistra o tecnico; e invece a lutto stretto, se l’esecutivo è di centrodestra); e infine arriva il premier che legge la lista dei ministri con i relativi incarichi.
Finisce tutto lì? No, semmai inizia proprio allora un’altra partita decisiva: altro che «totoministri», scatta il «tataministri», il momento più oscuro in assoluto, e dunque il più temibile - a cascata - per i ministri stessi e per gli italiani (per inciso, è il contribuente, cioè tutti noi, che pagheremo con i nostri soldi l’intera allegra comitiva).
Di che si tratta? Della scelta della squadra di ciascun ministro: capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi, giù giù fino al team di comunicazione. Si dirà: ogni ministro cercherà di avvalersi delle persone migliori, che possano davvero supportarlo, e che siano in sintonia con la sua prospettiva culturale e politica. Chi la pensa così è un meraviglioso ottimista: in primo luogo, perché pensa che tutti i ministri abbiano necessariamente una prospettiva culturale e politica; in secondo luogo, perché ritiene che siano sempre liberi di scegliersi i collaboratori (che invece gli sono spesso accollati da leader, amici degli amici, amici del giaguaro); in terzo luogo, perché, anche quando scelgono in prima persona, non sempre i ministri sono così bravi e fortunati da compiere scelte che li aiuteranno davvero nella nuova sfida.
Inutile girarci intorno. Intanto, il centrodestra è storicamente povero di figure di supporto tecniche, amministrative, giuridiche: colpa sua, sia chiaro, visto che non ha saputo aprirsi un varco in quel mondo, che tende sistematicamente a militare dall’altra parte. Anzi, quando sul versante destro si affacciano profili che desiderano mettere la loro competenza al servizio del Paese, sono in genere ferocemente ostracizzati a sinistra e ignorati a destra. Dopo di che, partono le geremiadi sull’egemonia gramsciana, sulla sinistra che occupa le casematte del potere: ma se, anziché piagnucolare, il centrodestra si fosse saputo muovere meglio, negli ultimi tre decenni, forse la situazione sarebbe un po’ diversa. Vale per le università, vale per i mandarini di stato, vale per l’informazione: prima si accetta che siano gli altri a occupare tutto, e poi ci si lagna.
E qui scatta l’errore successivo, che speriamo sia evitato stavolta: un po’ per penuria di alternative, un po’ per antico complesso di inferiorità, un po’ nel tentativo di ingraziarsi gli abitanti dei principali palazzi romani, i nuovi titolari dei dicasteri che fanno? Pescano sempre nello stesso mazzo di «super badanti»: alcune decine di ben noti capi di gabinetto e capi degli uffici legislativi che - con rare soste in panchina - sono sempre lì a spadroneggiare.
Una volta scelti, il gioco è fatto. Prima (sadomasochisticamente) terrorizzano il ministro prospettandogli ogni possibile sciagura e promettendo (solo loro!) di salvarlo; e poi, piano piano, diventano loro gli uomini forti. Un esempio? I cosiddetti pre Consigli dei ministri, cioè le riunioni informali tra pochissimi membri del governo, funzionari, capi di gabinetto, responsabili degli uffici legislativi: teoricamente per «preparare» la successiva discussione in cdm, ma molto spesso, in realtà, per cucinare tutto. Nella convinzione (in genere suffragata dai fatti) che dopo qualche mese i ministri siano indeboliti e sempre meno capaci di essere - ciascuno nel proprio ministero - il dominus della situazione. E cosa resterà a quel punto? Elementare, Watson: subentra il team di comunicazione (altra struttura devastante, in genere) che manda il ministro in giro per tv, radio e giornali a raccontare non si sa bene cosa. Rimangono leggendarie le intercettazioni relative a un ministro, qualche anno fa, che prima di rilasciare un’intervista, invocò lo spiegone e l’aiutino (sembrando lui lo scolaretto) di uno dei suoi più alti dirigenti.
Siamo dunque a un clamoroso rovesciamento delle parti: sempre più spesso, infatti, non è il ministro a padroneggiare le burocrazie mettendole al servizio di un obiettivo politico; ma sono le burocrazie a dominare il ministro, o per allenarlo al «non si può fare» o per allinearlo al «pilota automatico».
C’è davvero da augurarsi che stavolta i ministri del nuovo governo prendano coraggio e si sottraggano a questa ginnastica, che in ultima analisi li consumerebbe. Abbiano ben chiari gli obiettivi da raggiungere, e si circondino di persone capaci e davvero in sintonia con loro.






