«Siamo prontissimi. L’Italia ha preso misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri. Abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». Era la sera del 28 gennaio del 2020 quando Giuseppe Conte andò in tv, ospite del salotto di Lilli Gruber, per rassicurare gli italiani. E ancora due giorni dopo, a seguito della decisione di chiudere il traffico aereo da e per la Cina, l’allora presidente del Consiglio sosteneva che l’Italia era più avanti di tutti gli altri. «A quanto ci risulta, siamo il primo Paese dell’Unione europea che adotta una misura cautelativa di questo genere». Neanche un mese e mezzo più tardi, quando già i morti di Covid erano 2.158 e i pazienti ricoverati più di 11.000, il premier non abbassò la cresta, ma anzi rilanciò. «Possiamo parlare di modello italiano non solo per il contenimento del contagio sul piano sanitario, ma anche per quanto riguarda la politica economica per far fronte a questa grande emergenza». E il 30 marzo, quando le certezze sulle capacità di Conte di fronteggiare la pandemia cominciavano a vacillare in molti italiani, l’ex avvocato del popolo non mostrava tentennamenti: «Rifarei tutto allo stesso modo». Perplessità? Zero.
Solo all’inizio dell’estate, quando, finito il lockdown, qualcuno iniziò a tirare le somme, il presidente del Consiglio si lasciò andare a una leggera autocritica. «Non voglio negare che ci possano essere stati alcuni errori o sbavature, ma si tratta comunque di aspetti che hanno avuto un impatto minimo». Sbavature, disse dopo 35.000 morti. Salvo poi riprendersi subito: «Io lo so che non avremo chiusure, che non rischiamo nuovi lockdown. Siamo tranquilli perché abbiamo creato una rete sanitaria efficace ed efficiente». Un mese dopo rilanciò: «Non ci troveremo più ad affrontare un lockdown generalizzato. Ci stiamo strutturando con un sistema di monitoraggio che ci permetterà di intervenire in modo mirato e circoscritto». Ancora all’inizio di dicembre Conte era convinto che il suo fosse il governo dei migliori e grazie a lui e alla sua squadra l’Italia avrebbe passato un Natale sereno. Salvo poi presentarsi in tv una settimana prima della vigilia per annunciare che tutto il Paese sarebbe stato messo in Zona rossa nel periodo dal 24 dicembre al 6 gennaio nei giorni festivi e prefestivi: «Si esce di casa solo per ragioni di lavoro, necessità, salute».
Chiedo scusa se ho riproposto alcune delle dichiarazioni del Parolaio giallo, ma con quello che sta emergendo dall’inchiesta della Procura di Bergamo credo sia giusto rileggere quanto dichiaravano i protagonisti di quell’emergenza, a cominciare dal premier. Mentre l’Oms allertava tutti i Paesi fin dal 5 gennaio, invitandoli ad attuare il piano pandemico e a fare scorta di mascherine e respiratori, Conte e compagni non solo non facevano nulla, ma il primo si presentava in tv per dire che il suo governo era «prontissimo e aveva adottato tutti i protocolli possibili e immaginabili». È difficile immaginare un uomo più vanitoso e inconcludente del capo grillino, ma la vanità e l’inconcludenza sono ancora più gravi se si pensa che in quei mesi di tre anni fa lui e i suoi collaboratori sapevano di non essere preparati. Come ebbe a dire - non davanti alle telecamere ma riservatamente - la sottosegretaria Sandra Zampa (Pd), non erano all’altezza.
Ecco, a leggere le carte e le opinioni che tecnici e politici si scambiavano riservatamente, si capisce che non era la scienza a guidare il Paese nell’emergenza, come più volte ci è stato detto anche dallo stesso Conte, ma la politica. Una politica incapace, che decideva in base alla convenienza. Chiudere le scuole non era indispensabile e nemmeno vietare i funerali, impedendo ai familiari delle vittime di dare l’ultimo saluto ai propri cari. Ma l’autorità di governo decise così, esercitando pressioni sul comitato che avrebbe dovuto indirizzare le scelte. Con la stessa faciloneria con cui nei primi mesi di diffusione del virus esperti e politici avevano ignorato l’allarme continuando a ripetere che gli italiani non avevano motivo di preoccuparsi se a Wuhan era scoppiata un’epidemia, l’esecutivo e gli scienziati di cui si era circondato decisero di vietare qualsiasi contatto fra persone che non fossero familiari, proibendo perfino le messe. Se prima il dogma di Roberto Speranza era «Basta allarmismi», al punto da considerare insensato fino alla fine di febbraio l’uso delle mascherine, poi il dogma si trasformò nel suo contrario, ovvero in un allarme generalizzato, che lo portò a chiudere tutto. Anzi, a rinchiudere gli italiani. Oggi scopriamo che nonostante le rassicurazioni le scelte non le prendevano gli esperti ma i politici. Non c’era nulla di scientifico in alcune decisioni. Così come all’inizio la scienza si era dimostrata incapace e supina, poi durante l’emergenza si è lasciata condizionare.
Di fronte al quadro che emerge, ma soprattutto di fronte al confronto tra i pareri espressi in pubblico e quelli che emergono dalle chat dei protagonisti di quella stagione, mi pare evidente che l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sia più che necessaria. Il divario tra le versioni ufficiali e la realtà non può rimanere senza risposta. Lo si deve ai familiari di migliaia di vittime, che hanno diritto di conoscere i responsabili di quanto è successo.