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2019-11-09
La rabbia degli operai Ilva investe il ciuffo di Conte. E Mittal snobba i giallorossi
Ansa
Ha l'aria di chi si chiede «ma chi me lo fa fare?». Il premier Giuseppe Conte arriva all'ingresso dell'Ilva di Taranto, alle 16.55 di ieri. È già notte fonda, sia per l'oscurità, che per il governo giallorosso. Dalle 7 del mattino è in corso lo sciopero di 24 ore indetto da Fim, Fiom e Uilm nello stabilimento siderurgico di Taranto e negli altri siti del gruppo Arcelor Mittal. Migliaia di lavoratori sono in presidio nei pressi della portineria D, quella dove è atteso Conte. Il ciuffo in disordine annuncia il suo arrivo: stavolta la pettinatura non è stata il primo pensiero di Giuseppi, pallido in volto, sudato, esausto ancor prima di affrontare la folla inferocita. L'accoglienza è durissima: «Basta prese in giro!», urlano alcuni cittadini, mentre il cerchio di telecamere e fotografi si muove, ondeggia, sembra inghiottire questo ex avvocato pugliese, che si trova a dover contrastare la furia dei manifestanti.
La furia, anzi le furie: c'è chi chiede la chiusura immediata dello stabilimento a causa dei danni all'ambiente, chi urla la disperazione di chi ha un familiare ammalato e imputa la tragedia ai veleni che fuoriescono dalle ciminiere, chi invece vorrebbe solo salvare il posto di lavoro. Conte fa il duro, all'inizio: «Se non state zitti non riesco a parlare», dice. «Io ascolto, ma state zitti!», ripete. Suona male, molto male, questo invito del premier al silenzio, considerato che in realtà chi dovrebbe tacere è lui, il premier per tutte le stagioni, che si è assunto la responsabilità Sorprende la compostezza della protesta, anche quando risuona quel coro «Noi vogliamo vivere!» che potrebbe arrivare da un gruppo di operai che temono di perdere il posto di lavoro, o da un manipolo di cittadini che chiedono la chiusura dello stabilimento. Conte inizia il confronto con i manifestanti col piglio sicuro, poi mano a mano che si rende conto dell'aria che tira diventa più dimesso. Ascolta tutti, tenta di fornire qualche rassicurazione, ma il clima è ostile, scettico, disilluso: «Ne abbiamo abbastanza di promesse! Basta, basta!» urla un giovane assai corpulento, barba incolta, occhiali.
«Parlerò con tutti, ma con calma», continua Conte, come se fosse mai possibile essere calmi in quella situazione. In realtà, sono anche molto più calmi di quello che ci si potrebbe aspettare, operai e cittadini che circondano Conte, a loro volta circondati dalle telecamere. «Dovete conoscere la situazione! In questa fabbrica non ci sono le condizioni di sicurezza!», grida un operaio. «In quale reparto?», chiede il premier. «In tutti!» è la risposta. Sorprende che le proteste più numerose siano quelle dei cittadini dei quartieri adiacenti l'impianto, che chiedono la chiusura dell'Ilva e la bonifica. «Volete la riconversione?» domanda Giuseppi, che aggiunge: «Stiamo lavorando per l'energia pulita».
Conte sguscia all'interno dello stabilimento, dove lo attendono i sindacati. Sindacati che, come dicevamo, sono in sciopero dal mattino. Fim, Fiom e Uilm sostengono che «la multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5.000 lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2.000 attualmente in amministrazione straordinaria». Chiedono ad Arcelor Mittal «l'immediato ritiro della procedura di retrocessione dei rami d'azienda» e al governo «di non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi, ripristinando tutte le condizioni in cui si è firmato l'accordo del 6 settembre 2018 che garantirebbe la possibilità di portare a termine il piano ambientale nelle scadenze previste».
Il fantasma della perdita del posto di lavoro si è già concretizzato, in mattinata, per gli operai dell'indotto. Enetec, azienda tarantina che si occupa di progettazioni, costruzioni e montaggi industriali, ha inviato una comunicazione ai sindacati metalmeccanici e a Confindustria Taranto, nella quale afferma di «ritenere improcrastinabile l'avvio di una procedura di cassa integrazione ordinaria per 50 unità lavorative, 46 operai e 4 impiegati, su un organico complessivo di 56 unità, 50 operai e 6 impiegati, da sospendere per un massimo di zero ore a decorrere dall'11 novembre per 13 settimane complessive». Il ricorso alla procedura di cassa integrazione «appare inevitabile vista la sussistenza di elementi concreti che inducono a ritenere assolutamente ipotizzabile il perdurare di questa fase di stallo per tutto il prossimo trimestre e in ogni caso sino a che non saranno definiti i tempi e le modalità dell'eventuale prosecuzione della gestione da parte di Am Investco Italy, (la società di Arcelor Mittal, ndr) o del paventato subentro di nuovi soggetti giuridici».
Si chiude così questa ennesima giornata amara, per il premier col ciuffo, mentre - altro schiaffo all'esecutivo - il secondo incontro previsto con i Mittal, che il governo aveva annunciato per oggi dando le famose «48 ore» agli indiani, molto probabilmente non si terrà. Quando il giornale va in stampa non è previsto in agenda a Palazzo Chigi né nella sede italiana del gruppo.
Intesa apre alla nazionalizzazione: «Se serve, che sia dura e contro l’Ue»
Alla fine l'incontro auspicato ed espressamente richiesto dal ministro Stefano Patuanelli non si è svolto. La delegazione di Jindal ha dichiarato la totale indisponibilità a subentrare ai franco indiani di Arcelor Mittal. Tanto che il concetto più commentato dai politici ieri è stato quello della nazionalizzazione. Il parere più pesante però non è arrivato dal governo né dal Parlamento. Ma dal capo della prima banca italiana. «Sull'ex Ilva è fondamentale arrivare a un accordo con Mittal o in alternativa», ha detto ieri durante una intervista rilasciata a Bloomberg tv Carlo Messina, «il governo dovrebbe valutare la possibilità di nazionalizzare la fabbrica anche se potenzialmente in contrasto con le norme comunitarie». Con le puntualizzazioni del caso, il banchiere ieri si è spinto molto in là nell'indirizzare il governo.
«L'Ilva è senza dubbio un asset strategico per il Paese», ha aggiunto. «Non solo è una tema delicato in materia di ambiente, salute e occupazione dei lavoratori della città di Taranto e del Sud Italia, ma è anche un tema strategico essendo il secondo produttore d'acciaio in Europa. Ritengo quindi fondamentale arrivare a un accordo con Mittal. Tuttavia», ha dettagliato Messina, «l'opzione numero uno, in ogni caso, resta Mittal, perché è una questione di reputazione per il Paese, significa che l'Italia è un luogo in cui si può investire e in cui si possono realizzare piani d'investimento. Però», ha concluso, «se oggi non siamo in grado di raggiungere il piano A, allora bisogna passare al piano B, valutando anche una nazionalizzazione, altrimenti si perde un asset strategico».
Ed è proprio quest'ultimo aspetto sul quale Messina sembra soffermarsi. Spiega: «Sarebbe una strada dura e, se il caso lo richiede, da perseguire anche contro l'Ue». Non solo per la necessità di portare avanti un imponente piano di bonifica da circa 2,4 miliardi, ma anche perché, chiusa l'ex Ilva, la possibilità di essere tagliati fuori dal G7 è molto elevata. Al tempo stesso il capo di Intesa usa l'aggettivo «dura» riferendosi alla nazionalizzazione perché sa quanto può essere difficile e oneroso il rilancio di un tale impianto in un momento di crollo del settore siderurgico. In Europa è ancora caldo il ricordo della nazionalizzazione di Royal bank of Scotland, la banca inglese travolta nel 2008 dalla crisi dei subprime e salvata dai contribuenti del Regno Uniti. L'istituto ora solo parzialmente controllato dalla Corona è tornato a fare utili. Lo scorso anno ha staccato una cedola, ma per finire la pulizia ci sono voluti 10 anni di fatica. Dal 2008 al 2016 l'istituto ha accumulato oltre 60 miliardi di sterline di perdite. La vendita del business assicurativo Direct line group, così come la cessione di 316 filiali in Gran Bretagna, non hanno modificato il trend negativo di Rbs nel primo quinquennio.
Senza contare che lo Stato inglese ha anche dovuto iniettare 45 miliardi nel capitale e negoziare una mega multa con gli Stati Uniti da oltre 4 miliardi. Le ultime informazioni portano la fine del ciclo alla seconda metà del 2020. A quel punto Londra metterà sul mercato le quote pubbliche con buona possibilità di incassare una soddisfacente plusvalenza. Immaginare che rientri da tutte le spose sostenute è difficile. Bisogna però ricordare che l'investimento va valutato soprattutto sul fronte dell'occupazione. Esattamente il punto di partenza che potrebbe avviare la nazionalizzazione dell'Ilva.
La leva nei confronti dell'Ue potrebbe essere la necessità di bonificare l'intera area e mettere in sicurezza i cittadini di Taranto. Poi a quel punto la gestione commissariale attuale potrebbe passare sotto il controllo del Mise, con una partecipazione del Mef. Seguendo un po' lo schema che i giallorossi vogliono perseguire su Alitalia. Certo, anche a Taranto sarebbe necessario un socio privato e soprattutto specializzato nel business. In Italia ci sono Arvedi e il gruppo Marcegaglia. Cdp ha già fatto sapere di non essere della partita, mentre i due gruppi privati non si stanno esprimendo. Ciascuno dei due dovrebbe affrontare i pro e i contro. Possibilità di rilancio ma al tempo stesso forte trend di calo della produzione. Ecco perché c'è chi sulla stampa ha ipotizzato l'ingresso di un player cinese.
Hebei iron and steel group (Hbis), secondo player di Pechino, ha rilevato in Serbia l'acciaieria Smederevo, la più grande del Paese, con la firma maturata con la visita a Belgrado di giugno 2016 del presidente Xi Jinping. Hbis ha acquisito nel 2014 Duferco trading, primario trader europeo dell'acciaio basato in Svizzera. Un interesse per l'ex Ilva, in ogni caso, non potrebbe prescindere dal via libera politico del governo di Pechino.
Incastrare una partecipazione cinese in un'azienda di Stato italiana renderebbe il progetto ancora più indigesto per l'Europa. Al momento però il caos è grande e potrebbe generare le soluzioni più disparate.
«Gli acciaio-bond comprati nel 2011 da Belsito, e poi venduti nel 2015»
Mentre il governo è alle prese con il destino dell'Ilva, scoppia una polemica tra Lega e 5 stelle su un bond da 300.000 euro di Arcelor Mittal, il colosso dell'acciaio che sta minacciando di abbandonare Taranto se non avrà garanzie giudiziarie.
A innescare la miccia è stato il viceministro del Mise Stefano Buffagni che ha accusato gli ex alleati di aver «puntato» 300.000 euro sulla multinazionale: «Spero che arrivati a questo punto pensino ai lavoratori e non ai soldi che hanno investito». La polemica nasconde in realtà una battaglia sulle nomine pubbliche, su cui Buffagni vuole avere spesso voce in capitolo. Anche perché l'affondo del grillino è del tutto sbagliato. E ieri sono intervenuti sia il segretario della Lega Matteo Salvini sia il tesoriere Giulio Centemero per fare chiarezza sugli investimenti fatti in passato. Il bond Arcelor Mittal fu infatti sottoscritto nel 2011 durante la controversa gestione di Francesco Belsito, l'ex tesoriere finito sotto processo a Genova e Milano , condannato in Cassazione per appropriazione indebita proprio sui fondi pubblici della Lega.
Quella stagione fu caratterizzata da una certa intraprendenza di Belsito, di cui si ricordano gli investimenti in Tanzania e nei famosi diamanti, che poi furono restituiti ai militanti sul pratone di Pontida da Bobo Maroni. Nel 2011 Arcelor Mittal e l'Ilva erano distanti anni luce, l'investimento quindi era stato fatto per diversificare, puntando su un colosso mondiale della siderurgia.
La gara per partecipare al salvataggio dell'Ilva è invece del 2016 mentre l'assegnazione ai franco indiani è del 2017. Quindi le affermazioni di Buffagni, che ieri hanno fatto il giro di quotidiani e televisioni, non trovano riscontro. Anche perché tra i primi atti di Centemero, nominato tesoriere nel 2014, ci fu proprio la dismissione di tutti gli investimenti del partito, come indicato anche dalla legge di riforma del 2012 sotto il governo Monti.
Dice Centemero: «I bond da 300.000 euro di Arcelor-Mittal sono stati acquistati dalla Lega Nord nel 2011 e presi in carico su un fondo titoli di Unicredit il 10 luglio 2013», spiega. «In qualità di tesoriere della Lega dal settembre 2014, ho provveduto alla dismissione di tutti i titoli nel 2015 e in particolare quello in oggetto a gennaio 2015. Tutta la gestione titoli è stata effettuata nel rispetto della legge sul finanziamento pubblico ai partiti (96/2012). È tutto certificato nero su bianco». Centemero minaccia querele: «Le frottole inventate in proposito in queste ore da certi esponenti politici sono solo una scusa meschina per coprire il proprio fallimento».
Aggiunge Salvini: «Non querelo mai, ma oggi ho deciso di querelare i 5 stelle, Repubblica, Il Fatto Quotidiano: dicono che abbiamo investito centinaia di migliaia di euro in bond di Arcelor Mittal, roba assolutamente fantasiosa. La battaglia per l'Ilva noi la facciamo non perché abbiamo i bond ma perché l'Italia ha bisogno dell'industria dell'acciaio». L'eredità della gestione economica della Lega di Bossi continua a ritornare spesso come un fantasma. Ci sono ancora inchieste in corso a Roma e Milano. Di recente si è chiuso il primo grado di un processo a carico di Matteo Brigandì, storico avvocato del Senatùr, che proprio in quegli anni travagliati di indagini e modifiche del Carroccio, aveva pensato bene di spostare 1,67 milioni di euro in Tunisia sottratti illegalmente a via Bellerio. È stato condannato a fine ottobre a due anni e due mesi per patrocinio infedele e autoriciclaggio. In pratica da avvocato della Lega aveva omesso di denunciare il proprio conflitto di interessi in relazione a un decreto ingiuntivo incassando così quasi 1,9 milioni di euro di compensi per la sua attività. Ora dovrà risarcire la Lega di Salvini con 870.000 euro.
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Il premier a Taranto accolto dai fischi di migliaia in sciopero. Duro botta e risposta: «Zitti parlo io», «Non sapete come viviamo». Nessun incontro previsto con gli indiani. Intesa apre alla nazionalizzazione: «Se serve, che sia dura e contro l'Ue». L'opzione di un ingresso temporaneo dello Stato prende piede, anche dopo il rifiuto di Jindal a subentrare. Non la esclude nemmeno Carlo Messina: «Asset strategico». L'arma ambientale da usare per sfidare Bruxelles. «Gli acciaio-bond comprati nel 2011 da Belsito, e poi venduti nel 2015». Il tesoriere Giulio Centemero: «Con il nuovo corso li abbiamo dismessi». Matteo Salvini querela il M5s. Lo speciale comprende tre articoli. Ha l'aria di chi si chiede «ma chi me lo fa fare?». Il premier Giuseppe Conte arriva all'ingresso dell'Ilva di Taranto, alle 16.55 di ieri. È già notte fonda, sia per l'oscurità, che per il governo giallorosso. Dalle 7 del mattino è in corso lo sciopero di 24 ore indetto da Fim, Fiom e Uilm nello stabilimento siderurgico di Taranto e negli altri siti del gruppo Arcelor Mittal. Migliaia di lavoratori sono in presidio nei pressi della portineria D, quella dove è atteso Conte. Il ciuffo in disordine annuncia il suo arrivo: stavolta la pettinatura non è stata il primo pensiero di Giuseppi, pallido in volto, sudato, esausto ancor prima di affrontare la folla inferocita. L'accoglienza è durissima: «Basta prese in giro!», urlano alcuni cittadini, mentre il cerchio di telecamere e fotografi si muove, ondeggia, sembra inghiottire questo ex avvocato pugliese, che si trova a dover contrastare la furia dei manifestanti. La furia, anzi le furie: c'è chi chiede la chiusura immediata dello stabilimento a causa dei danni all'ambiente, chi urla la disperazione di chi ha un familiare ammalato e imputa la tragedia ai veleni che fuoriescono dalle ciminiere, chi invece vorrebbe solo salvare il posto di lavoro. Conte fa il duro, all'inizio: «Se non state zitti non riesco a parlare», dice. «Io ascolto, ma state zitti!», ripete. Suona male, molto male, questo invito del premier al silenzio, considerato che in realtà chi dovrebbe tacere è lui, il premier per tutte le stagioni, che si è assunto la responsabilità Sorprende la compostezza della protesta, anche quando risuona quel coro «Noi vogliamo vivere!» che potrebbe arrivare da un gruppo di operai che temono di perdere il posto di lavoro, o da un manipolo di cittadini che chiedono la chiusura dello stabilimento. Conte inizia il confronto con i manifestanti col piglio sicuro, poi mano a mano che si rende conto dell'aria che tira diventa più dimesso. Ascolta tutti, tenta di fornire qualche rassicurazione, ma il clima è ostile, scettico, disilluso: «Ne abbiamo abbastanza di promesse! Basta, basta!» urla un giovane assai corpulento, barba incolta, occhiali. «Parlerò con tutti, ma con calma», continua Conte, come se fosse mai possibile essere calmi in quella situazione. In realtà, sono anche molto più calmi di quello che ci si potrebbe aspettare, operai e cittadini che circondano Conte, a loro volta circondati dalle telecamere. «Dovete conoscere la situazione! In questa fabbrica non ci sono le condizioni di sicurezza!», grida un operaio. «In quale reparto?», chiede il premier. «In tutti!» è la risposta. Sorprende che le proteste più numerose siano quelle dei cittadini dei quartieri adiacenti l'impianto, che chiedono la chiusura dell'Ilva e la bonifica. «Volete la riconversione?» domanda Giuseppi, che aggiunge: «Stiamo lavorando per l'energia pulita». Conte sguscia all'interno dello stabilimento, dove lo attendono i sindacati. Sindacati che, come dicevamo, sono in sciopero dal mattino. Fim, Fiom e Uilm sostengono che «la multinazionale ha posto delle condizioni provocatorie e inaccettabili e le più gravi riguardano la modifica del Piano ambientale, il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5.000 lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno a lavoro dei 2.000 attualmente in amministrazione straordinaria». Chiedono ad Arcelor Mittal «l'immediato ritiro della procedura di retrocessione dei rami d'azienda» e al governo «di non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi, ripristinando tutte le condizioni in cui si è firmato l'accordo del 6 settembre 2018 che garantirebbe la possibilità di portare a termine il piano ambientale nelle scadenze previste». Il fantasma della perdita del posto di lavoro si è già concretizzato, in mattinata, per gli operai dell'indotto. Enetec, azienda tarantina che si occupa di progettazioni, costruzioni e montaggi industriali, ha inviato una comunicazione ai sindacati metalmeccanici e a Confindustria Taranto, nella quale afferma di «ritenere improcrastinabile l'avvio di una procedura di cassa integrazione ordinaria per 50 unità lavorative, 46 operai e 4 impiegati, su un organico complessivo di 56 unità, 50 operai e 6 impiegati, da sospendere per un massimo di zero ore a decorrere dall'11 novembre per 13 settimane complessive». Il ricorso alla procedura di cassa integrazione «appare inevitabile vista la sussistenza di elementi concreti che inducono a ritenere assolutamente ipotizzabile il perdurare di questa fase di stallo per tutto il prossimo trimestre e in ogni caso sino a che non saranno definiti i tempi e le modalità dell'eventuale prosecuzione della gestione da parte di Am Investco Italy, (la società di Arcelor Mittal, ndr) o del paventato subentro di nuovi soggetti giuridici». Si chiude così questa ennesima giornata amara, per il premier col ciuffo, mentre - altro schiaffo all'esecutivo - il secondo incontro previsto con i Mittal, che il governo aveva annunciato per oggi dando le famose «48 ore» agli indiani, molto probabilmente non si terrà. 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Il parere più pesante però non è arrivato dal governo né dal Parlamento. Ma dal capo della prima banca italiana. «Sull'ex Ilva è fondamentale arrivare a un accordo con Mittal o in alternativa», ha detto ieri durante una intervista rilasciata a Bloomberg tv Carlo Messina, «il governo dovrebbe valutare la possibilità di nazionalizzare la fabbrica anche se potenzialmente in contrasto con le norme comunitarie». Con le puntualizzazioni del caso, il banchiere ieri si è spinto molto in là nell'indirizzare il governo. «L'Ilva è senza dubbio un asset strategico per il Paese», ha aggiunto. «Non solo è una tema delicato in materia di ambiente, salute e occupazione dei lavoratori della città di Taranto e del Sud Italia, ma è anche un tema strategico essendo il secondo produttore d'acciaio in Europa. Ritengo quindi fondamentale arrivare a un accordo con Mittal. Tuttavia», ha dettagliato Messina, «l'opzione numero uno, in ogni caso, resta Mittal, perché è una questione di reputazione per il Paese, significa che l'Italia è un luogo in cui si può investire e in cui si possono realizzare piani d'investimento. Però», ha concluso, «se oggi non siamo in grado di raggiungere il piano A, allora bisogna passare al piano B, valutando anche una nazionalizzazione, altrimenti si perde un asset strategico». Ed è proprio quest'ultimo aspetto sul quale Messina sembra soffermarsi. Spiega: «Sarebbe una strada dura e, se il caso lo richiede, da perseguire anche contro l'Ue». Non solo per la necessità di portare avanti un imponente piano di bonifica da circa 2,4 miliardi, ma anche perché, chiusa l'ex Ilva, la possibilità di essere tagliati fuori dal G7 è molto elevata. Al tempo stesso il capo di Intesa usa l'aggettivo «dura» riferendosi alla nazionalizzazione perché sa quanto può essere difficile e oneroso il rilancio di un tale impianto in un momento di crollo del settore siderurgico. In Europa è ancora caldo il ricordo della nazionalizzazione di Royal bank of Scotland, la banca inglese travolta nel 2008 dalla crisi dei subprime e salvata dai contribuenti del Regno Uniti. L'istituto ora solo parzialmente controllato dalla Corona è tornato a fare utili. Lo scorso anno ha staccato una cedola, ma per finire la pulizia ci sono voluti 10 anni di fatica. Dal 2008 al 2016 l'istituto ha accumulato oltre 60 miliardi di sterline di perdite. La vendita del business assicurativo Direct line group, così come la cessione di 316 filiali in Gran Bretagna, non hanno modificato il trend negativo di Rbs nel primo quinquennio. Senza contare che lo Stato inglese ha anche dovuto iniettare 45 miliardi nel capitale e negoziare una mega multa con gli Stati Uniti da oltre 4 miliardi. Le ultime informazioni portano la fine del ciclo alla seconda metà del 2020. A quel punto Londra metterà sul mercato le quote pubbliche con buona possibilità di incassare una soddisfacente plusvalenza. Immaginare che rientri da tutte le spose sostenute è difficile. Bisogna però ricordare che l'investimento va valutato soprattutto sul fronte dell'occupazione. Esattamente il punto di partenza che potrebbe avviare la nazionalizzazione dell'Ilva. La leva nei confronti dell'Ue potrebbe essere la necessità di bonificare l'intera area e mettere in sicurezza i cittadini di Taranto. Poi a quel punto la gestione commissariale attuale potrebbe passare sotto il controllo del Mise, con una partecipazione del Mef. Seguendo un po' lo schema che i giallorossi vogliono perseguire su Alitalia. Certo, anche a Taranto sarebbe necessario un socio privato e soprattutto specializzato nel business. In Italia ci sono Arvedi e il gruppo Marcegaglia. Cdp ha già fatto sapere di non essere della partita, mentre i due gruppi privati non si stanno esprimendo. Ciascuno dei due dovrebbe affrontare i pro e i contro. Possibilità di rilancio ma al tempo stesso forte trend di calo della produzione. Ecco perché c'è chi sulla stampa ha ipotizzato l'ingresso di un player cinese. Hebei iron and steel group (Hbis), secondo player di Pechino, ha rilevato in Serbia l'acciaieria Smederevo, la più grande del Paese, con la firma maturata con la visita a Belgrado di giugno 2016 del presidente Xi Jinping. Hbis ha acquisito nel 2014 Duferco trading, primario trader europeo dell'acciaio basato in Svizzera. Un interesse per l'ex Ilva, in ogni caso, non potrebbe prescindere dal via libera politico del governo di Pechino. 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A innescare la miccia è stato il viceministro del Mise Stefano Buffagni che ha accusato gli ex alleati di aver «puntato» 300.000 euro sulla multinazionale: «Spero che arrivati a questo punto pensino ai lavoratori e non ai soldi che hanno investito». La polemica nasconde in realtà una battaglia sulle nomine pubbliche, su cui Buffagni vuole avere spesso voce in capitolo. Anche perché l'affondo del grillino è del tutto sbagliato. E ieri sono intervenuti sia il segretario della Lega Matteo Salvini sia il tesoriere Giulio Centemero per fare chiarezza sugli investimenti fatti in passato. Il bond Arcelor Mittal fu infatti sottoscritto nel 2011 durante la controversa gestione di Francesco Belsito, l'ex tesoriere finito sotto processo a Genova e Milano , condannato in Cassazione per appropriazione indebita proprio sui fondi pubblici della Lega. Quella stagione fu caratterizzata da una certa intraprendenza di Belsito, di cui si ricordano gli investimenti in Tanzania e nei famosi diamanti, che poi furono restituiti ai militanti sul pratone di Pontida da Bobo Maroni. Nel 2011 Arcelor Mittal e l'Ilva erano distanti anni luce, l'investimento quindi era stato fatto per diversificare, puntando su un colosso mondiale della siderurgia. La gara per partecipare al salvataggio dell'Ilva è invece del 2016 mentre l'assegnazione ai franco indiani è del 2017. Quindi le affermazioni di Buffagni, che ieri hanno fatto il giro di quotidiani e televisioni, non trovano riscontro. Anche perché tra i primi atti di Centemero, nominato tesoriere nel 2014, ci fu proprio la dismissione di tutti gli investimenti del partito, come indicato anche dalla legge di riforma del 2012 sotto il governo Monti. Dice Centemero: «I bond da 300.000 euro di Arcelor-Mittal sono stati acquistati dalla Lega Nord nel 2011 e presi in carico su un fondo titoli di Unicredit il 10 luglio 2013», spiega. «In qualità di tesoriere della Lega dal settembre 2014, ho provveduto alla dismissione di tutti i titoli nel 2015 e in particolare quello in oggetto a gennaio 2015. Tutta la gestione titoli è stata effettuata nel rispetto della legge sul finanziamento pubblico ai partiti (96/2012). È tutto certificato nero su bianco». Centemero minaccia querele: «Le frottole inventate in proposito in queste ore da certi esponenti politici sono solo una scusa meschina per coprire il proprio fallimento». Aggiunge Salvini: «Non querelo mai, ma oggi ho deciso di querelare i 5 stelle, Repubblica, Il Fatto Quotidiano: dicono che abbiamo investito centinaia di migliaia di euro in bond di Arcelor Mittal, roba assolutamente fantasiosa. La battaglia per l'Ilva noi la facciamo non perché abbiamo i bond ma perché l'Italia ha bisogno dell'industria dell'acciaio». L'eredità della gestione economica della Lega di Bossi continua a ritornare spesso come un fantasma. Ci sono ancora inchieste in corso a Roma e Milano. Di recente si è chiuso il primo grado di un processo a carico di Matteo Brigandì, storico avvocato del Senatùr, che proprio in quegli anni travagliati di indagini e modifiche del Carroccio, aveva pensato bene di spostare 1,67 milioni di euro in Tunisia sottratti illegalmente a via Bellerio. È stato condannato a fine ottobre a due anni e due mesi per patrocinio infedele e autoriciclaggio. In pratica da avvocato della Lega aveva omesso di denunciare il proprio conflitto di interessi in relazione a un decreto ingiuntivo incassando così quasi 1,9 milioni di euro di compensi per la sua attività. Ora dovrà risarcire la Lega di Salvini con 870.000 euro.
iStock
Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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