L’Italia entra nel club dei garanti armati. Le regole d’ingaggio però sono segrete
È una piccola Nato. Poiché quella grande non può neppure essere evocata alla presenza di Vladimir Putin, le diplomazie al lavoro si sono inventate un surrogato e hanno definito «garanti» i dieci Paesi che ne faranno parte. Secondo i negoziatori a Istanbul può essere la svolta del conflitto. Il Comitato di garanzia si chiama U24, United for Peace, proprio perché dovrà essere in grado di rispondere con le armi (classiche, cibernetiche, satellitari) a 24 ore dall’aggressione di uno dei due contendenti. E di questo cuscinetto di interposizione - un airbag politico e militare fra Russia e Ucraina - farà parte anche il nostro Paese, con i pro e i contro che l’impegno presuppone. Lo ha detto Mario Draghi dopo il colloquio con il presidente russo: «I due contendenti vogliono anche l’Italia come garante. È ancora presto per definire i contenuti di queste garanzie».
Le due nazioni in guerra chiedono che nel gruppo ci siano i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna, Francia e ovviamente Russia) più altri cinque graditi a entrambi: Germania, Israele, Canada, Turchia e Italia. Sette di questi Paesi fanno già parte della Nato, tutti hanno il cappello delle Nazioni unite. Domanda preliminare: perché non se ne occupa l’Onu senza inventare un’altra alleanza posticcia? La materia è vastissima. Il club dei dieci sarebbe garante «legalmente e attivamente coinvolto» della sicurezza e della neutralità ucraina, dei «cessate il fuoco» nelle città assediate, del rispetto dei diritti delle due parti nelle zone calde del Donbass e Lugansk. Secondo Kiev anche dell’osservanza dello status quo dei confini prima del 25 febbraio, opzione che i russi neppure prendono in considerazione.
Nel concreto l’intervento anche italiano implicherebbe l’assenza di basi militari straniere in Ucraina; non saremmo costretti a inviare truppe «on the ground» come in Libano, in Iraq e in Afghanistan. Ma dovremmo garantire qualcosa di perfino più delicato e complesso: l’intervento entro 24 ore da un’offensiva per assicurare tutela militare all’aggredito. Sia che si tratti di Kiev in caso di raid aerei o di avanzate di carri armati, sia che si tratti della Russia se il battaglione Azov dovesse decidere un blitz similterroristico nei territori sotto l’ombrello egemone di Mosca. Traduzione dello scenario in parole povere: una brutta gatta da pelare. Va sottolineato con una certa forza proprio nel giorno in cui la notizia ha percorso quasi tutti media nazionali come se si trattasse di una crociera sull’Amerigo Vespucci; l’entusiasmo infantile da Classici Audacia è il più pericoloso.
«Sono contento di vedere l’Italia in questo elenco», si è subito rallegrato l’ambasciatore ucraino a Roma, Yaroslav Melnyk. Sarebbe il caso di mantenere i piedi per terra e di domandarci con saggezza ed equilibrio: a cosa andiamo incontro? Lo stesso quesito che ci pone Serhiy Leshchenko, consigliere strategico di Volodymyr Zelensky, in un’intervista al Corriere della Sera: «L’Italia avrà un ruolo cruciale. Possiamo fidarci di Putin solo se garantiti da voi. Se Mosca attacca significa che anche voi italiani, assieme agli altri Paesi garanti, sarete in guerra? Si stanno discutendo i protocolli segreti per mettere a punto la questione. Non ne voglio parlare oggi, sono temi troppo delicati».
Protocolli segreti, contenuti da definire. Ancora una volta, pure in un ambito ben diverso dalla pandemia e dall’emergenza sanitaria connessa, sembra che decisioni strategiche per gli italiani volino alte sulla testa del Parlamento. In questo caso si percepisce solo il sibilo dei caccia F35. Il programma è vasto e i termini dell’impegno sono troppo vaghi. Un conto è sminare un tratto di mare davanti a Odessa con la protezione di incrociatori e sommergibili, un altro frapporsi a milizie cecene e neonaziste a Mariupol dove il rischio è quello di entrare in guerra con una potenza nucleare. La missione che stiamo per affrontare con entusiasmo sospetto mostra evidenze inquietanti; negli ultimi 30 anni è stato difficile e doloroso garantire la non belligeranza anche sotto l’egida dell’Onu. Ricordiamo i massacri in Ruanda e a Srebrenica, dove contingenti di interposizione (peraltro già sul campo) non hanno potuto evitare stragi per inefficienza o - nel caso degli olandesi in Bosnia - per ignavia.
Il Club dei garanti (per ora senza garanzie) sembra un escamotage per bypassare le strettoie politiche dell’Occidente in stallo permanente. La Nato lasciata fuori dalla porta rientrerebbe dalla finestra senza l’ingombrante articolo 5 (quello sull’automatico soccorso in armi in caso di attacco); l’Onu incapace di superare i veti incrociati entrerebbe in gioco con i caschi di un altro colore e con la benedizione dei cinesi. In questa fase Zelensky spinge i «garanti» ad accettare protocolli di difesa marcatamente militare per uscire da una neutralità che, per primo, percepisce ambigua e pericolosa. Per lo stesso motivo insiste per entrare nella Ue, dove la mutua difesa scatta entro 72 ore da un’aggressione. Il gioco delle parti continua. «L’Italia avrà un ruolo cruciale», ripete Kiev. Fa piacere, ma è fondamentale sapere quale. Sennò si chiama trappola.