
«Vergogna, Palestina libera. Sala, Sala vaffa…». In un soleggiato pomeriggio di aprile, mentre il 90% dei milanesi è sbilanciato verso i luoghi di villeggiatura del maxi-ponte, il borgomastro della metropoli tascabile con fascia tricolore e pennacchio della festa come in un disegno di George Grosz scopre il significato della parola sobrietà. Sono soddisfazioni. Mancano i pomodori ma lo schiaffo morale è rumoroso. Quando lui gonfia il petto in piazza del Duomo per illustrare dal palco, con aggettivazione ridondante, tutte le sfumature eroiche del 25 aprile partigiano, dalle prime file parte la rumorosa contestazione dei Pro Pal, che culmina con lo slogan «Fuori i sionisti dal 25 Aprile» e con gli insulti a Vanity Sala.
La lezione è esemplare e conferma due verità: la piazza della Festa della Liberazione è ancora una volta tutt’altro che «inclusiva e democratica». E il richiamo di palazzo Chigi a un po’ di sobrietà, nei giorni del lutto nazionale per la morte di papa Francesco era doveroso. Soprattutto visti i risultati. Beppe Sala, che alla vigilia si era inalberato («Cosa significa sobrio? Bisognerebbe chiederlo al governo») dimenticandosi del manifestante ebreo accoltellato l’anno scorso, ora dovrà fare tesoro dei vaffa in direttissima. Arrivano sulle sue parole: «Chiamo tutti voi con il nobile nome di partigiani perché oggi è impossibile non schierarsi per la democrazia. Partigiani d’Europa, la democrazia più grande del mondo». Qui gli insulti diventano oceano.
A Roma, secondo polo della giornata di «mobilitazione e lotta» come l’ha definita Maurizio Landini, ecco un nuovo eccesso: sotto gli occhi del sindaco Roberto Gualtieri, davanti al muro di Porta San Paolo, alcuni Pro Pal tentano di esporre la bandiera verde di Hamas con la scritta in arabo. Accade mentre i manifestanti depongono una corona di fiori; la scena rischia di innescare una reazione violenta e il servizio d’ordine accerchia i facinorosi, nasconde la bandiera da flash e telecamere sperando di far passare la provocazione in cavalleria.
Accanto alla bandiera di Hamas si legge uno striscione illuminante, dominato dalla foto di papa Francesco: «Meloni, Fassino, Cuperlo, Violante, voi calpestate le sue parole su Gaza, armi, guerre e migranti». Ed ecco, nella più transitiva delle proprietà, arruolato il pontefice defunto nelle fila di Hamas. Il tazebao è circondato dalle bandiere dei Carc, i comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo, che si definiscono «movimento extraparlamentare marxista e maoista», convinti di riassumere su di sé (neppure a torto) i valori del partigianesimo di 80 anni fa. Tutto ciò conferma che la «festa condivisa» in realtà continua ad essere una fionda retorica per prendere a sassate il nemico di turno.
Nella celebrazione con accenti di ipocrisia i buttafuori sono sempre gli stessi e hanno la canottiera rossa. Tornando a Milano, verso San Babila, nuovo tafferuglio: come di consueto la Brigata Ebraica viene oltraggiata, le bandiere di Israele sputacchiate. Centri sociali, militanti sindacali, collettivi con vessilli palestinesi intonano coretti con le parole «terroristi» e «genocidio» contro chi, dall’altro lato della strada, rivendica di aver lottato a fianco di americani e inglesi per liberare l’Italia. I più inferociti sono coloro che vedono usurpato il termine resistenza nell’appello «Resistenza all’odio» e «Resistenza all’antisemitismo». E scandiscono sempre più forte: «Fascisti, assassini, terroristi, liberate gli ostaggi». Corto circuito totale, visto che gli ostaggi sono israeliani. Le forze dell’ordine in assetto antisommossa sono costrette a posizionarsi fra i due gruppi per evitare una poco sobria rissa.
Sul camion degli antagonisti affluiti dai centri sociali (in pratica gli elettori di Pierfrancesco Majorino) spicca il volto vissuto di una vecchia conoscenza degli anni di piombo: l’ex brigatista Maurizio Ferrari, quasi 80 anni, esposto come una madonna pellegrina. Nella sua carriera si è distinto per i sequestri del sindacalista Bruno Labate, del magistrato Mario Sossi e del dirigente della Fiat Ettore Amelio. Condannato a 20 anni, gliene aggiunsero altri per la rivolta nel carcere dell’Asinara. Un curriculum da icona dell’ultrasinistra che guida le danze resistenziali. E che mostra, nell’innalzare il vecchio arnese della rivolta armata a simbolo, uno scadimento nei punti di riferimento: tre anni fa era Carola Rackete, due Marco Vizzardelli (il giornalista che gridò il suo antifascismo dal loggione della Scala), l’anno scorso Patrick Zaki.
I resistenti s’indignano quando vedono bandiere estranee, intruse, come quella italiana. O altre invise al comitato centrale. Lo rivendica il segretario nazionale di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, che denuncia un fatto gravissimo. «Con la complicità della polizia un gruppo di fascisti con bandiere israeliane e ucraine ha conquistato la testa del corteo del 25 Aprile a Milano». Come si permettono? La front-line non totalmente rossa è percepita come un insulto cromatico. Acerbo prosegue serio: «Se si fosse trattato di bandiere palestinesi sono certo che la polizia li avrebbe caricati. Invece le fila della polizia si sono aperte come le acque del Mar Rosso. Questa grave provocazione non modifica il carattere antifascista della manifestazione».
Egocentrismi rossi mentre a bordo palco qualcuno scandisce di nuovo: «Sala sionista, sei il primo terrorista». Le anime in subbuglio non distinguono più, la condivisione va a farsi benedire fra i 50.000 (scarsi) presenti. Gli ultrà dei centri sociali osano perfino contestare Elly Schlein in effigie. Troppo morbida, forse troppo svizzera. Come staffetta, bocciata.