L’inflazione zavorra la spesa pubblica. Nella sanità stretta reale dell’11%

L’inflazione zavorra la spesa pubblica. Nella sanità stretta reale dell’11%
Christine Lagarde (Ansa)
  • I danni della cura sbagliata di Christine Lagarde: da un lato le famiglie soffrono per i mutui, dall’altro la Pa si ritrova con budget mangiati dal carovita. E sui vertici per Nadef e manovra pesa anche lo spettro della recessione.
  • Taglio del cuneo: i benefici verranno conteggiati a partire dal cedolino di luglio e corrisposti ad agosto per i dipendenti privati e parte di quelli pubblici. Misura in vigore fino a dicembre.

Lo speciale contiene due articoli.

La sfida più difficile per il governo deve ancora arrivare, ma manca poco perché i nodi sono arrivati al pettine. A settembre arriva il momento della Nadef: ogni anno, entro il 27 settembre, il governo deve presentare alle Camere la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, fondamentale perché serve a tracciare il solco da seguire per la manovra di bilancio che si inizia a formare in autunno per esser consegnata entro fine anno. Molte le sfide, dal rallentamento del Pil al reintegro del fiscal compact, rivisto, ma non si sa ancora bene come. Ma ciò che pesa e peserà di più è l’inflazione. Infatti se è vero che mesi e mesi di rincaro prezzi hanno già devastato la capacità di spesa degli italiani mandando i tassi d’interesse dei mutui a livelli record, è vero anche che il peggio deve ancora arrivare. Infatti l’inflazione, come ha scritto il Sole 24 Ore, è servita a migliorare il saldo della finanza pubblica (perché oltre a gonfiare il Pil nominale su cui si calcola il peso di deficit e debito ha spinto le entrate facendole crescere allo stesso ritmo dei prezzi), ma allo stesso tempo questo miglioramento è stato ottenuto a scapito della spesa, che si è quasi fermata in termini nominali e quindi svanita nel suo valore reale. In questo scenario non si può che prevedere grande austerità per il prossimo anno.

Insomma le maglie sono sempre più strette, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti lo sa, tanto che da giorni sta convocando uno a uno i ministri perché «bisogna costruire un ordinato processo di sessione di bilancio», ha detto, «Non faremo cose che non hanno senso e ci portano fuori strada. Occorre mettere in fila e ordinare le priorità». Il tutto è dovuto all’inflazione e all’incapacità del presidente della Bce Christine Lagarde, di gestire il problema. È inutile dire che saranno i capitoli di spesa più delicati, quelli fondamentali, a pagare il pegno più alto. E il settore che ci arriva con più affanno è senz’altro quello della sanità. Per l’anno prossimo proprio lì sono previsti 132,7 miliardi di spesa. Teoricamente in valore nominale segnano un aumento del 3,7% rispetto al 2021, ma in termini reali c’è una riduzione che tocca l’11,5%. Semplificando, il valore nominale è il valore del numero in sé, il valore reale è il valore che quella cifra assume nella realtà che è influenzata da moltissimi fattori, in questo caso dall’inflazione. Insomma il valore reale rappresenta il potere d’acquisto. Con quei 132,7 miliardi di euro per la sanità si riuscirà a coprire l’11% in meno di quanto coperto nel 2021. Un dramma in sostanza, cui si aggiunge il peso della flessione di 3,3 miliardi rispetto a quest’anno, in cui la spesa è spinta anche dal rinnovo del contratto 2019/21 dei medici (fra aumenti e arretrati vale circa 2 miliardi, che in caso di mancata intesa la prossima settimana potrebbero slittare all’anno prossimo); ma anche un recupero integrale di questa somma, che riporterebbe il totale 2024 a 136 miliardi, segnerebbe una riduzione reale del 9,3% rispetto ai livelli 2021.

Banale ricordare che la sanità italiana è vicina al collasso per un numero infinito di motivi. A cominciare dalle risorse: mancano i medici, mancano gli infermieri. In Italia, secondo il report State of Health in the Eu del 2022, sono impiegati quattro medici ogni 1.000 abitanti e 6,3 infermieri ogni 1.000 abitanti. Entrambi i dati sono inferiori rispetto alla media Ue e, visti gli investimenti in formazione praticamente nulli e la persistenza del numero chiuso a medicina, sono dati destinati a peggiorare. Risorse così modeste portano a turni massacranti e non fanno che abbassare la qualità di cura del paziente. Ma i problemi non finiscono qui: ci sono le liste d’attesa infinite, screening che saltano e pazienti che rinunciano alle cure (il 4% della popolazione secondo l’Istat); mancanza di posti letto nei reparti; la carenza cronica di farmaci anche salva vita; pronto soccorso sempre pieni perché le guardie mediche non funzionano. Sul territorio infatti si incontrano i problemi più grossi. I medici di base sono sempre meno e sempre più anziani, quasi tutti ormai sono sovraccaricati con 1.000 o più pazienti e lo stesso scenario si incontra quando si parla dei pediatri di libera scelta, anche loro pochissimi e poco presenti. La pandemia ha velocizzato i pensionati e quindi acutizzato il problema, certo, ma lo si doveva anticipare e adesso prima di vedere i risultati di politiche proattive ci vorranno anni.

Le responsabilità di questo disastro sono di chi, negli ultimi dieci anni, ha progressivamente tagliato la spesa sanitaria. Parliamo di un totale di 37 miliardi suddivisi su diversi esecutivi. Dal governo Monti al governo Conte, passando per il governo Letta. Ma il presidente del Consiglio che ridusse la spesa più di tutti fu Matteo Renzi con 16,6 miliardi di tagli alla spesa sanitaria nelle finanziarie 2015, 2016 e 2017. «Se non si investe in sanità a rischio benessere e tenuta sociali», è l’allarme shock dell’ultimo report dell’Ocse. Per salvarsi la spesa dovrebbe aumentare dell’1,4% del Pil rispetto al 2019, che per l’Italia vorrebbe dire 25 miliardi in più all’anno.

L’Ocse nel suo rapporto ha proposto alcune raccomandazioni politiche oltre a spingere per un aumento della spesa: promuovere la salute della popolazione; promuovere la permanenza e il reclutamento della forza lavoro; promuovere la resilienza della catena di approvvigionamento. Pochi punti, ma fondamentali per migliorarsi in prospettiva, ma l’emergenza è qui e adesso. Non ci si può nascondere ancora, ci vogliono più soldi e bisogna fare presto.

C’è poi il tema del rinnovo dei contratti della Pa scaduti a fine 2021. Ci vorrebbero 32 miliardi in più per recuperare il carovita del 2022/2024. Impossibile. Per altro si prevede una spesa per il prossimo anno 186,2 miliardi, tre in meno di quest’anno e il 10,2% in meno del valore reale rispetto al 2021.

Taglio del cuneo, al via gli aumenti

A partire da agosto molti dipendenti italiani vedranno aumentare la loro busta paga. Si tratta del pagamento del taglio del cuneo fiscale previsto dal dl Lavoro per il periodo che va da luglio a dicembre 2023. Il ministero dell’Economia e delle finanze guidato da Giancarlo Giorgetti ieri ha diffuso una nota spiegando le modalità che interesseranno i dipendenti pubblici gestiti attraverso il sistema Noipa, ma il metodo di pagamento dovrebbe essere simile per la maggior parte dei lavoratori pubblici e privati.

Come spiega il Mef, «la decontribuzione, come per le precedenti riduzioni del cuneo fiscale, verrà corrisposta da Noipa sul cedolino del mese successivo rispetto a quello in cui viene riconosciuto il beneficio. Pertanto, il pagamento riferito alla mensilità di luglio verrà erogato con il cedolino di agosto. Lo stesso meccanismo sarà applicato anche per i mesi successivi fino alla mensilità di dicembre 2023 che sarà erogata a gennaio 2024».

Anche per i dipendenti privati il beneficio economico si vedrà con lo stipendio di luglio, molto probabilmente entro i primi dieci giorni di agosto o più in generale a quello successivo al mese di riferimento.

Il dl Lavoro, approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso maggio e convertito in legge il 3 luglio 2023, prevede per il periodo luglio-dicembre 2023 l’innalzamento del cuneo fiscale fino al 6% per le retribuzioni mensili lordo dipendente inferiori a 2.692 euro (35.000 euro l’anno) e fino al 7% per quelle inferiori a 1.923 euro mensili lordo dipendente (25.000 in 12 mesi). I dipendenti pubblici gestiti tramite il sistema Noipa che beneficeranno del taglio del cuneo fiscale del 6% sono circa 860.000, mentre la platea interessata alla misura del 7% è di circa 335.000 dipendenti. In totale, dunque, la platea interessata dal sistema Noipa è di circa 1.195.000 persone.

La norma, insomma, sarà valida fino a fine anno. Poi starà al governo trovare le risorse per una riforma più strutturale. Certo è che, con l’inflazione che imperversa, gli aumenti in busta paga appaiono piuttosto leggeri. Si va da 25 a 65 euro netti in busta paga per sei mesi. Per intenderci, chi guadagna 10.000 euro lordi l’anno ha diritto a un aumento del 7% per cui arriveranno 25 euro in più in busta paga ogni mese. Per chi guadagna 15.000 euro l’aumento netto mensile è di 35 euro. Con 20.000 si sale a 45 euro netti, mentre con 25.000 si arriva a 50. Con 30.000 euro lordi in 12 mesi il taglio del cuneo scende al 6% con un aumento di 60 euro netti. L’ultimo scalino è quello dei 35.000 euro lordi annui per cui il beneficio in questione arriva a 65 euro al mese.

Sempre a luglio, inoltre, grazie all’ultima legge di bilancio arriverà nei cedolini di molti dipendenti pubblici anche il cosiddetto «emolumento accessorio una tantum» al posto del rinnovo di molti contratti collettivi nazionali di lavoro scaduti.

Anche in questo caso, però, si tratta di aumenti piuttosto lievi spalmati in 13 mensilità pensati per contrastare l’inflazione al galoppo. Si parla di importi che per le funzioni centrali variano tra i 23 e i 42 euro lordi. Se poi calcoliamo anche i dirigenti la media sale un po’, ma la sostanza non cambia molto. Si tratta di incrementi dell’1,5%, quando l’inflazione al momento viaggia a livelli ben superiori al 6%.

L’augurio è che si trovi al più presto un modo per abbassare in modo significativa la tassazione che i datori di lavoro devono pagare per i lavoratori. Fino a quel momento l’economia italiana resterà attaccata al palo.

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