
Kaja Kallas (Getty Images)
Il nuovo ministro degli Esteri dell’Unione ha posizioni antirusse che possono ledere i piani di Washington, cauta sull’escalation con Mosca. E poi c’è il dossier Teheran.
Dopo la rottura della tregua da parte di Hamas e la ripresa delle ostilità nella Striscia, parla l'ambasciatore di Israele in Italia, Jonathan Peled: rapporti con il governo Meloni, la situazione in tutto il Medio Oriente e il ruolo della Casa bianca.
Ambasciatore, Israele vive uno dei momenti più critici e complessi della sua storia, iniziato con l'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. Lei crede che si arriverà alla liberazione degli ultimi ostaggi in vita oppure sarà possibile solo ricominciando la guerra?
«Israele non gioisce per il nuovo conflitto in corso a Gaza. Purtroppo, ci sono ancora 59 ostaggi nella Striscia, di cui circa 20 potrebbero essere vivi, e Hamas ha respinto numerose proposte per la loro liberazione. Nonostante Israele abbia accettato diverse soluzioni concrete avanzate dal rappresentante del presidente degli Stati Uniti, Steve Witkoff, Hamas ha sistematicamente rigettato tali offerte. Israele ha sempre cercato una via pacifica per il rilascio degli ostaggi, ma senza successo. Al momento, non vi sono altre opzioni praticabili per garantirne la liberazione. Avremmo preferito risolvere la questione attraverso un secondo accordo, con il sostegno del presidente Trump e degli Stati Uniti».
In occasione dell’incontro con Benjamin Netanyahu a Washington, Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti prenderanno il controllo di Gaza. I Paesi arabi hanno presentato una loro proposta subito bocciata da Usa e Israele. Cosa non va a suo avviso nel piano proposto dall’Egitto che piace tanto all’Europa?
«Prima di tutto, credo che qualsiasi iniziativa che ci avvicini a una sorta di accordo sia un passo positivo. Detto ciò, ci sono alcune condizioni che devono essere soddisfatte e che non sono state rispettate in questa particolare Iniziativa della Lega Araba. In primo luogo, nel piano della Lega Araba non vengono menzionati Hamas, il massacro del 7 ottobre, la questione degli ostaggi israeliani a Gaza e nemmeno il fatto che Hamas non potrà amministrare in futuro la Striscia. In secondo luogo, chi lo attuerà? Chi lo farà rispettare, chi lo garantirà? In terzo luogo, Hamas deve accettarlo. Quindi è molto bello parlare di piani senza Hamas il giorno dopo, ma prima dobbiamo vedere se Hamas è disposto ad accettarlo. Penso che ci sia ancora molto lavoro da fare, ma l'Iniziativa di Trump ha fatto sì che tutti cominciassero a pensare a iniziative più creative, più collettive o regionali. Ora tutti capiscono che non può essere solo Israele a dover trovare una soluzione per Gaza. Questo non è solo un problema di Israele. È un problema di tutti noi. La responsabilità non può ricadere solo su Israele, e dobbiamo continuare a lavorare con gli attori regionali: l'Egitto, gli Stati del Golfo, l'Europa, gli Stati Uniti, ovviamente, e chiunque sia disposto a dare una mano per trovare una soluzione in cui possiamo portare pace e tranquillità a Israele e un futuro migliore per i palestinesi».
Lei come si immagina il futuro di Gaza a lungo termine?
«Comprendo che la questione possa apparire leggermente fuori contesto e fuori tema, considerando la situazione attuale. Non c'è alcuna ragione per cui Gaza non possa essere autosufficiente, non possa avere una propria economia. Ha una spiaggia, ha un accesso al mare, ha terreni fertili, ha un popolo palestinese che è un popolo di lavoratori. I palestinesi sono persone laboriose. Meritano anche un futuro migliore. Hamas non è stata solo un'organizzazione terroristica contro Israele, ma ha terrorizzato anche il suo stesso popolo. Quindi, nella mia visione, se chiudo gli occhi e guardo al futuro, non c'è motivo per cui Gaza non possa imitare ciò che Israele ha fatto in termini di sviluppo economico. Gaza ha tutto il potenziale, la forza lavoro e le risorse naturali per produrre e prosperare come fa oggi lo Stato di Israele».
Dall’inizio della guerra Hamas ha messo in moto una potente macchina propagandistica tanto continua a credere alle menzogne di Hamas. Non crede che fino ad oggi questa guerra dell’informazione Israele l’abbia persa?
«Anche oggi ci troviamo a dover giustificare la necessità di condurre un'operazione militare a Gaza. Vogliamo ricordare al mondo che, attualmente, ci sono 59 ostaggi a Gaza, torturati, abusati e rapiti il 7 ottobre 2023. Detto ciò, ha ragione riguardo l'opinione pubblica e i media: non abbiamo vinto questa battaglia. Ma ciò non significa che non possiamo invertire la situazione. Il problema è che alcune persone sono naive, ignoranti ed estremiste. Se metti insieme tutte queste componenti, e consideri unitariamente la presenza ebraica e le persone a fianco di Israele rispetto alla presenza musulmana nel mondo, già in termini numerici è una battaglia mediatica che non potremo mai vincere completamente. Ma il mondo deve svegliarsi perché la gente dimentica Parigi, Londra, la Germania. La gente dimentica il terribile 11 settembre, e l'Europa dimentica i grandi attacchi terroristici che si sono verificati. E noi non vogliamo che l'Europa debba pagare con il sangue prima che capisca che questa è una minaccia per tutti noi. E non capisco come le persone possano essere a favore di Hamas. Posso capire che le persone possano essere a favore della causa palestinese, ma Hamas non ha nulla a che fare con il miglioramento della causa palestinese. Quindi, soprattutto in riferimento agli estremisti qui in Italia con le bandiere palestinesi che gridano a favore di Hamas, ritengo che non abbiano la minima idea di cosa stiano parlando».
Come immagina il ruolo dei paesi arabi moderati nel processo di ricostruzione di Gaza e nella promozione di una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese?
«Prima di tutto, è necessario assumere un ruolo attivo e non dire che questo è un problema che Israele deve risolvere, ma assumere un ruolo proattivo, come hanno iniziato a fare. Abbiamo menzionato l'Egitto, abbiamo menzionato la Lega Araba. È necessario che ci siano più attori regionali coinvolti, per esempio un maggior numero di paesi del Golfo, che siano disposti ad aderire agli Accordi di Abramo. Quindi, auspichiamo di essere spettatori di più iniziative, più collaborazione, più pressione su Hamas e sull'Autorità Palestinese. Perché l'Autorità Palestinese, vorremmo che fosse parte della soluzione. Al momento, è parte del problema. Quindi, per fare in modo che l'Autorità Palestinese faccia parte della soluzione e non del problema, dobbiamo anche fare pressione e rendere l'Autorità Palestinese più forte, più affidabile: per esempio che smetta di dare stipendi alle famiglie dei terroristi e interrompa l'incitamento all’odio verso Israele. Ci sono molti passi in avanti che si possono fare, ma credo che l'Autorità Palestinese non sia un caso perso. Credo che possiamo aiutare l'Autorità Palestinese a rafforzarsi. Ho avuto la fortuna di far parte del processo che ha prodotto gli Accordi di Oslo che hanno sancito l'istituzione dell'Autorità Palestinese. Quindi vorremmo che Autorità Palestinese avesse una leadership abbastanza forte, preferibilmente eletta democraticamente, ma questo spetta a loro capirlo e a esercitare abbastanza potere, pressione e responsabilità sulla loro giurisdizione e infine su Gaza».
Perché l’Onu da anni è cosi’ ostile a Israele?
«Innanzitutto, direi che non bisogna buttare via il bambino con l’acqua sporca. Le Nazioni Unite sono un’organizzazione nobile e importante, nate per una causa di grande valore. Il problema, però, è che si tratta di un organismo totalmente politico. Su 194 membri, 134 appartengono al gruppo dei Non Allineati. In pratica, domani potrebbe esserci una maggioranza all’Onu disposta a dichiarare che la Terra è piatta, ma il fatto che 134 paesi votino a favore di questa affermazione non cambierebbe la realtà: la Terra resterebbe comunque rotonda.Ritengo quindi che esista un problema intrinseco nella struttura stessa delle Nazioni Unite, che ha portato a un uso improprio o a una distorsione della sua funzione e dei suoi obiettivi originari. Questo spiega, in buona parte, perché Israele sia stato spesso oggetto di un trattamento particolarmente duro e di un’attenzione sproporzionata all’interno dell’organizzazione. Naturalmente, l’Onu riflette in una certa misura l’opinione pubblica globale, ma questa è la realtà con cui ci confrontiamo. Il nostro impegno è quello di spiegare e dimostrare che le Nazioni Unite dovrebbero essere un organismo imparziale, equilibrato e neutrale, senza schierarsi da una parte o dall’altra. Non si tratta di essere pro-Israele o anti-Israele: le Nazioni Unite dovrebbero mantenere un equilibrio, senza favorire alcuna fazione.Un esempio concreto è la situazione nel sud del Libano, dove Hezbollah ha sfruttato la presenza dell’Unifil. Non credo che l’Unifil o le Nazioni Unite debbano aiutare Israele; il loro ruolo dovrebbe essere quello di garantire equilibrio e neutralità. È arrivato il momento di svegliare chi ancora sogna o pensa che le cose possano andare avanti in questo modo, e di ricordare a tutti che le Nazioni Unite devono ritornare ai principi per cui sono state fondate».
Come valuta il ruolo dell’Italia e dell’Unione Europea in questa crisi?
«Innanzitutto, l’Italia sta svolgendo un ruolo importante. Da tempo ha una presenza significativa in Medio Oriente: è un partner mediterraneo e strategico per Israele, con interessi rilevanti in Libano, in Egitto e in altre aree della regione. Riconosciamo il contributo delle forze italiane in missioni cruciali, come l’UNIFIL, e il loro coinvolgimento nelle operazioni europee lungo la linea di Rafah. L’Italia sta inoltre fornendo supporto prezioso all’esercito libanese (LAF) attraverso programmi di formazione e sta contribuendo all’addestramento delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, con il ruolo dei Carabinieri. Un altro esempio del suo impegno è il progetto "Food for Gaza", che consideriamo un’iniziativa importante e che abbiamo accolto con favore e sostenuto. Credo quindi che l’Italia non solo stia già giocando un ruolo di primo piano, ma che possa continuare a farlo, diventando un modello per altri paesi europei affinché si impegnino con maggiore determinazione. Al momento, non vedo molti altri Stati membri dell’Unione Europea coinvolti con la stessa intensità e dedizione dell’Italia. Dobbiamo anche ricordare che, alla fine dei conti, l’Europa è il nostro partner commerciale e culturale più vicino. Gli Stati Uniti sono il nostro alleato più solido, ma la nostra prossimità geografica, i legami storici e la maggiore affinità culturale ci legano profondamente all’Europa. In questo contesto, ci aspettiamo che l’Europa giochi un ruolo di rilievo, agendo con imparzialità e contribuendo a garantire la sicurezza di Israele e dell’intero Medio Oriente. Del resto, la stabilità nella regione ha ripercussioni dirette anche sull’Europa, che altrimenti rischia di pagarne le conseguenze».
Cosa prova quando vede le università occupate e le manifestazioni propal? Non crede che ci sia stata troppa tolleranza da parte delle autorità anche in Italia?
«Non intendo dare consigli all’Italia o ai suoi atenei, ma ha menzionato quanto sta accadendo negli Stati Uniti riguardo alle università che faticano a garantire indipendenza, libertà e sicurezza per i propri studenti. È legittimo protestare ed esprimere opinioni, a favore o contro qualsiasi causa, ma non è accettabile interrompere le attività accademiche, occupare le università, vandalizzarle e distruggerle. Questo va contro la legge. Ritengo che le autorità abbiano una responsabilità precisa: in particolare le autorità accademiche, poi il governo e le istituzioni locali. Alla fine, spetta alla società italiana - o a qualsiasi altra società - combattere contro tutte le forme di antisemitismo. La storia ci insegna che queste forme di odio non si fermano mai a un solo bersaglio: iniziano con gli ebrei, ma poi si estendono rapidamente ad altri gruppi. Oggi tocca a noi, domani alla comunità Lgbt, il giorno dopo ai lavoratori. È un ciclo pericoloso che non si arresta, e questo tipo di razzismo rappresenta una delle sue espressioni più odiose. La lotta contro l’antisemitismo è dunque una responsabilità collettiva di qualunque società voglia preservare apertura e sicurezza. Riguardo alle manifestazioni in Italia, e qui lei è certamente più esperto di me, ho l’impressione che molte di esse siano alimentate da un mix di radicalismo e forse anche di anarchismo, con sentimenti di protesta contro il governo e altre istituzioni. Non credo che Israele sia il vero nemico per queste persone: è piuttosto un bersaglio facile da attaccare, un simbolo da esporre. Ma se anche Israele uscisse dall’equazione, temo che le manifestazioni e le tensioni nei campus non cesserebbero del tutto. Penso quindi che questo fenomeno meriti di essere studiato e affrontato in modo approfondito, valutando attentamente le misure più efficaci per contrastarlo. Ogni strumento utile a questo scopo dovrebbe essere preso in considerazione».
Prima del 7 ottobre 2023, le relazioni tra Italia e Israele erano floride in materia di interscambi e di relazioni bilaterali sul piano economico e culturale. Queste attività stanno andando avanti? Quali sono i progetti futuri?
«Il rapporto con l’Italia è molto solido, frutto di un’amicizia di lunga data basata su interessi e valori condivisi. Tra Italia e Israele esiste una cooperazione scientifica e accademica di grande rilievo, così come uno scambio culturale vivace e una relazione economica significativa. Le aziende italiane investono in Israele e le imprese israeliane trovano in Italia un mercato importante. Il nostro interscambio commerciale supera i 5 miliardi di dollari e ha un potenziale di crescita ancora maggiore. A livello politico, i rapporti sono eccellenti e molto stretti, come dimostrano le numerose visite istituzionali degli ultimi sei mesi: il ministro degli Esteri Tajani si è recato più volte in Israele, così come il vicepresidente del Consiglio Salvini e la presidente del Consiglio Meloni hanno avuto diversi incontri di alto livello. Allo stesso modo, il nostro Ministro degli Esteri e il nostro Presidente sono stati recentemente in Italia. Credo che ci troviamo ora di fronte a un’opportunità preziosa non tanto di ripartire, quanto di rafforzare ulteriormente questa relazione. Queste visite rappresentano un primo segnale in questa direzione, e auspichiamo di vedere sempre più delegazioni economiche, un incremento del turismo e la ripresa dei voli diretti tra i nostri paesi. Siamo in un momento in cui i rapporti, già solidi, possono evolvere verso una collaborazione ancora più profonda e fruttuosa».
Come uscirà Israele dal trauma collettivo del 7 ottobre 2023?
«Si tratta di un processo che richiederà tempo. Prima di tutto, dobbiamo riportare a casa tutti i nostri ostaggi. Credo che non possiamo davvero iniziare un vero e proprio percorso di guarigione fino a quando non saranno tutti tornati. Solo allora potremo fare un profondo esame di coscienza e istituire una commissione nazionale d’inchiesta per capire come siano stati commessi errori così gravi il 7 ottobre e individuare le responsabilità. Solo dopo potremo iniziare a guarire e a ricostruire. Nella nostra breve storia come Stato d’Israele - e nella nostra lunga storia come popolo ebraico - abbiamo già affrontato momenti bui e difficili. Ne siamo sempre usciti, e credo fermamente che siamo un popolo resiliente, capace di rialzarsi e andare avanti. Tuttavia, ci sono alcune tappe fondamentali che dobbiamo affrontare: come detto, il ritorno degli ostaggi, l’indagine nazionale e poi la ricostruzione della nostra economia. Sarà essenziale far rientrare le persone nelle loro case, al nord e al sud del Paese, e affrontare le conseguenze economiche e psicologiche di questa guerra. Non dobbiamo dimenticare le famiglie che hanno perso la loro fonte di reddito perché un parente è stato ferito o ucciso. Sarà un percorso lungo, ma passo dopo passo ce la faremo. E credo che riusciremo a riprenderci più velocemente di quanto molti possano immaginare».
Jonathan Peled, ambasciatore di Israele in Italia e San Marino
Jonathan Peled è l'attuale Ambasciatore di Israele in Italia e San Marino, incarico che ricopre da settembre 2024. Nato a Gerusalemme, città sacra per le tre principali religioni monoteistiche, ha trascorso la sua infanzia in un kibbutz al confine settentrionale di Israele, dove ha sperimentato in prima persona le sfide legate alla sicurezza del Paese.
Ha intrapreso la carriera diplomatica, diventando un ambasciatore di carriera. Nel corso della sua carriera, ha ricoperto incarichi di prestigio come Ambasciatore di Israele in El Salvador, Messico e Australia. Prima di essere nominato in Italia, ha ricoperto il ruolo di Vicedirettore Generale a capo della Divisione America Latina presso il Ministero degli Affari Esteri a Gerusalemme.