Enrico Costa (Ansa)
Il forzista: «Cambieremo il metodo di valutazione dei magistrati, non si può promuovere tutti. Ormai non puntano più a vincere il processo, ma a pubblicizzare le loro inchieste».
Nell'ambito di un progetto promosso dall’American Jewish Committee e dall'Associazione Italia Israele di Savona, alcuni studenti dell'Università degli Studi di Milano e di Torino hanno avuto l'opportunità di andare in Israele e scoprire dall'interno il mondo universitario dello Stato ebraico. Pietro Balzano, fondatore del movimento universitario Siamo Futuro, racconta la sua esperienza: «Non solo l’apartheid in Israele non esiste, ma ci viene anzi spiegato come in diversi campus vi siano delle quote minime di studenti arabi, che vengono aiutati a colmare le differenze linguistiche, i cui test sono in alcuni casi semplificati e a cui vengono riconosciute, oltre alle vacanze nazionali per le feste ebraiche, anche le festività della religione musulmana».
Durante il nostro viaggio in Israele abbiamo cercato di verificare in prima persona ciò che sentiamo continuamente dire sul conto di Israele e, in questo caso specifico, sulle sue università. La prima tappa in questo senso è stato il Sapir College, diverso dalle università perché centro puramente di studio e non di ricerca, uno dei primi istituti in Israele per numero di studenti che raggiungono per primi nella loro famiglia il grado di istruzione universitario. Il campus è a pochi chilometri da Gaza, tanto da essere stato evacuato durante gli attacchi del 7 ottobre, mentre oggi si sentono in lontananza i raid sulla Striscia.
È sufficiente entrare nel campus per rendersi conto di quanto sia semplice e addirittura scontata qui la coesistenza tra culture diverse: parlando con gli studenti mi sono sentito ridicolo nel chiedere a una ragazza con il velo che stava studiando serenamente sul prato se si sentisse discriminata o vittima di uno stato di apartheid e la sua risposta è infatti arrivata insieme a una risata trattenuta a stento: «No, certo che no!». Non solo l’apartheid in Israele non esiste, ma ci viene anzi spiegato come in diversi campus vi siano delle quote minime di studenti arabi, che vengono aiutati a colmare le differenze linguistiche, i cui test sono in alcuni casi semplificati e a cui vengono riconosciute, oltre alle vacanze nazionali per le feste ebraiche, anche le festività della religione musulmana.
Lasciamo un campus che vorremmo avessero visto più persone in Italia a partire dai cosiddetti pro pal che mentono su quanto succede qui, consciamente o meno.
Il giorno dopo, se pur non proprio riposati grazie a un missile degli Houthi verso le 3 di notte, andiamo in visita alla Reichmann University che è diventata il principale bersaglio delle richieste di annullamento degli accordi tra università qui in Italia. Seguiamo una lezione sul diritto internazionale ed i conflitti armati e successivamente abbiamo la possibilità di sentire le storie di alcuni degli studenti. Essere informati sui conflitti, come credo di essere io, dà un’illusione di sicurezza, come se nulla riguardo alla guerra potesse essere inatteso o imprevisto, ma questa sicurezza è stata fatta a pezzi semplicemente dalle presentazioni con due ragazzi di quest’università: Av., una ragazza di una bellezza incredibile, si presenta con il suo nome, il corso di studi, gli esami da dare e come membro delle squadre di ricerca e soccorso dell’esercito; Zoh. fa lo stesso e conclude come riservista che ha passato 6 mesi a combattere a Gaza e in Libano. Ragazzi come noi che hanno dovuto combattere per il proprio paese e, nelle pause dai combattimenti, mettersi a studiare per gli esami da dare una volta tornati cosi come gli altri lì presenti tra cui due Capitani, uno dei quali appartenente alla minoranza araba dei Drusi. Sentire le loro storie fece sentire piccolo ognuno di noi, ma per aiutare a far conoscere la verità, dovevo chiedere ciò che coloro che li definiscono assassini avrebbero chiesto e perciò ho dovuto fare una domanda che mai avrei voluto fare a un ragazzo che sarei potuto essere io: «Qual è la cosa peggiore che hai visto a Gaza?». Dopo un attimo di riflessione, e con occhi diversi, Zoh. inizia a raccontare dei combattimenti a Gaza. Racconta di quando la sua unità non è stata autorizzata a far fuoco su quelli che sapevano essere operativi di Hamas che stavano posizionando esplosivi perché non avevano visto distintamente un’arma e che il giorno dopo sarebbe esploso su quegli ordigni un loro carro armato, uccidendo 3 persone. O di quando andò nel sud del Libano, e fu incaricato di perquisire una grande casa nobiliare, dove passato l’ingresso ed entrato in quella che sembrava essere una normale stanza dei bambini con due culle, accanto ad esse e dietro una finta parete di legno, scoprì un arsenale di mortai ed armi da fuoco.
Pensavo di essere preparato a sentire le loro storie, ma non era così.
In Italia la narrativa è che sono estremisti mossi dal desiderio di uccidere, la verità è che sono ragazzi come noi che a volte hanno visto i loro amici uccisi pur di evitare di colpire civili e che si porteranno dietro queste cicatrici per tutta la vita.
Scrivendo questo articolo spero di far conoscere la loro storia e allo stesso tempo ringraziarli per averla condivisa con me, quello che so per certo è che sono uscito dalla Reichmann University profondamente cambiato e che ricorderò per tutta la vita lo sguardo nei loro occhi mentre raccontavano gli orrori della guerra.
Lo ha detto il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani parlando ai giornalisti all'arrivo alla riunione del Consiglio Affari esteri a Bruxelles.