È iniziato il cammino verso il 27 settembre, data entro cui il governo deve presentare la nota di aggiornamento al Def, antipasto della successiva legge di Bilancio. «Non ci saranno anticipazioni sulla tabella di marcia per tranquillizzare i mercati», ha fatto sapere ieri l'esecutivo: il 21 settembre l'Istat pubblicherà i conti economici aziendali da inglobare nel NaDef, che a questo punto non vedrà la luce prima del 24 settembre.
I fattori esterni sono noti. Spread in forte rialzo e agenzie di rating (l'ultima è stata Fitch) che si sono messe in posizione di attesa critica: rivedendo in negativo l'outlook e riservandosi un giudizio definitivo quando le carte della finanziaria saranno sul tavolo. E in effetti, con 400 miliardi di titoli da rinnovare nei prossimi mesi, più che il negoziato politico con una Commissione europea ormai al capolinea (in vista delle elezioni europee 2019), il confronto vero sarà proprio con i mercati.
In questo scenario, ci sono tre attori sulla scena. Il primo è il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, il quale nei giorni scorsi ha affermato che «tra poco non ci sarà più il problema di convincere su azioni future, ma ci saranno le azioni future». Insomma, un invito a giudicare i fatti, quando ci saranno. Il secondo è il M5s: il vicepremier Luigi Di Maio è tornato a parlare di un reddito di cittadinanza che dovrebbe riguardare già in partenza una platea di «5 milioni di poveri». Più barricadero di lui e in tenuta simil guevarista, si è rifatto vivo dal Guatemala Alessandro Di Battista che, in collegamento con la festa del Fatto Quotidiano, si è tolto lo sfizio di provocare la Lega: «Su Autostrade e sul reddito di cittadinanza si vedrà se la Lega è diversa o è ancora la Lega maroniana camuffata». Il che, sgradevolezza verso gli alleati a parte, non vuol dire molto, se non un'ennesima sottolineatura del fatto che per i 5 stelle il reddito di cittadinanza debba partire subito.
L'ultimo attore, ma non certo per importanza, è il leader leghista Matteo Salvini, che è stato anche il più prudente («Il 3%? Lo sfioreremo dolcemente»), alludendo non a uno sfondamento dei vincoli, ma a un avvicinamento al limite oltre cui potrebbe scattare una procedura d'infrazione Ue. In ogni caso, oggi la Lega riunirà i suoi esperti economici e lo stesso faranno i grillini.
In questo momento si possono fare due scenari: il primo più probabile, il secondo - a nostro avviso - più desiderabile. La prima ipotesi è un compromesso ragionevole per tenere insieme tutto: restare ben al di sotto del 3% per non rompere con Tria e la componente rigorista del governo; evitare lo showdown con il Quirinale; rinviare gli interventi più corposi all'anno successivo, quando l'attuale Commissione europea sarà un ricordo e gli equilibri in Europa saranno cambiati; e consentire a ciascuno dei due alleati di poter rivendicare l'avvio dei temi loro cari.
In questa ipotesi, gli interventi principali potrebbero essere quattro. Il primo sulle pensioni: una correzione della legge Fornero attraverso «quota 100» (quindi si potrebbe andare in pensione non più a 67 anni, ma anche a 64 con 36 anni di contributi): il costo iniziale sarebbe di 4 miliardi e di 8 miliardi annui a regime.
Secondo: sulla parte fiscale la vera flat tax sarebbe rinviata, mentre il segnale di partenza consisterebbe nell'allargamento della platea delle partite Iva ammesse all'aliquota agevolata del 15% (ma non è chiaro fino a quale soglia si possa salire: chi dice 60.000 euro annui di ricavo, chi si spinge oltre).
Terzo: l'avvio del reddito di cittadinanza avverrebbe riordinando (cioè sopprimendole e facendole confluire nel nuovo strumento) una serie di misure esistenti, dall'indennità Naspi al reddito di inclusione: anche se somme ben più corpose (9-10 miliardi) potrebbero arrivare abolendo e riutilizzando gli stanziamenti per gli 80 euro renziani (ma non è chiaro se i grillini vogliano aprire questa polemica, ridando fiato alla propaganda Pd).
Quarto: resterebbero infine da trovare (e su questo si confida nel negoziato con l'Ue) gli oltre 12 miliardi necessari a disinnescare gli aumenti Iva per onorare la promessa solenne fatta da Lega e M5s a Confcommercio. Fare tutte e quattro queste cose potrebbe rappresentare un buon compromesso per Lega, M5s e anche per i ministri più sensibili alle sirene di Bruxelles. Resta solo da capire se si tratti di un intervento adeguato al rilancio della domanda interna, se si tratti cioè dello «choc fiscale» in positivo in grado di dare una frustata all'economia italiana. Non tutti ne sono convinti.
E allora entra in campo il secondo scenario, politicamente meno facile, ma assai più desiderabile. Fermo restando il disinnesco degli aumenti Iva, si tratterebbe di concentrare tutte le risorse esistenti in tagli di tasse, adattando all'Italia la «Trumpnomics», cioè i mega tagli fiscali di Donald Trump. Avvicinarsi al 3% (o addirittura valicare quella soglia) per un'operazione del genere sarebbe magari politicamente controverso, e foriero di una contesa con Bruxelles, ma al tempo stesso avrebbe maggiori chance di far impennare un Pil altrimenti destinato a rimanere anemico. Tanto i mercati quanto gli elettori, alla fine della fiera, sono interessati a una sola cosa: a una crescita vibrante e robusta, ben più che agli «zero virgola» o al formale rispetto dei parametri Ue.