Davigo condannato anche in appello per le carte di Amara distribuite al Csm
Siamo alle solite. Che poi sarebbero condensate nella profezia che trafigge fragorosi inciampi di scalmanati manettari. Ovvero, l’indimenticabile lampo di Pietro Nenni: a fare il puro, motteggiava, c’è sempre qualcuno più puro che ti epura. Eccoci qui, dunque. A riferire del rovescio giudiziario di Piercamillo Davigo detto «Piercavillo»: già eroe di Mani Pulite, indomito capo corrente, consigliere del Csm, simpatizzante grillino, opinionista del Fatto quotidiano. Una leggenda vivente: schiavettoni, querele, indice ritto. Uno smodato giacobinismo seguito dall’inclemente nemesi.
Piercavillo è stato ricondannato. Anche in secondo grado. Per rivelazione di segreto d’ufficio. A un anno e tre mesi. Secondo i giudici di Brescia, nella primavera 2020, divulga i verbali di Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria». Gli vengono consegnati dal pm milanese, Paolo Storari, su una chiavetta Usb: con «modalità quasi carbonare» si legge nella sentenza di primo grado, appena confermata. I giudici tacciano l’ex magistrato, ora in pensione, di «smarrimento di postura istituzionale». Davigo avrebbe insomma allargato «la platea dei destinatari della rivelazione». Tentando persino di screditare un inviso collega consigliere, Sebastiano Ardita, nominato dal controverso avvocato Amara in quei verbali. Il magistrato, parte civile nel processo, ottiene ora una discreta sommetta come risarcimento dei danni: 20 mila euro.
I fiduciosi legali di Piercavillo, comunque, annunciano ricorso in Cassazione. Forse dimentichi di uno dei tanti insegnamenti del celebre assistito, professato in diretta tv: «L’errore italiano, secondo me, è stato proprio quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. No, non aspettiamo le sentenze. Se io invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non sono costretto ad aspettare la Cassazione. Smetto subito d’invitarlo a cena». Chiaramente, questo vale solo per i poveri cristi. E soprattutto per i cinghialoni che affollano i partiti. La caccia a quei mangiapane a tradimento è il pallino investigativo diventato libidinoso commento: «I politici che delinquono vanno mandati a casa, senza il bisogno di attendere il giudizio definitivo». Ma la frase cult, che formerà legioni di manettari tricolore, resta l’ancor più audace variante sul tema: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove».
A nome della vessata categoria interviene adesso Matteo Renzi, malcelando sfrenato giubilo: «Per anni Pier Camillo Davigo ci ha fatto la morale da numerosi studi televisivi. Oggi il giustizialista Davigo è condannato anche in appello per rivelazione di segreto d’ufficio». Il leader di Italia viva ricorda di essere garantista, ma rinuncerebbe a una conferenza in Arabia Saudita pur di vedere l’ex pm condannato in via definitiva: «Il tempo è sempre più galantuomo: emerge lo scandalo dossier, i commentatori moralisti che ci attaccavano vengono condannati in appello, la cassazione e la corte costituzionale ci danno ragione». Renzi, certo, esonda. Ma sono in tanti a inzuppare la brioscina con godimento. Del resto, anche dopo la prima condanna, il Torquemada lombardo non ha dato segnali di cedimento. Anzi, nell’anniversario di Mani Pulite, rincara: «Per quanto sia crudo quel che sto dicendo, capiterà che gli imputati si suicidino. Lo so che è una cosa spiacevole, ma è la verità e bisogna aver chiare le cose: le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono, non su coloro che li scoprono e li reprimono».
Eccezion fatta per i colleghi che hanno osato condannarlo, s’intende. Difatti lo scorso dicembre, in mancanza di inviti televisivi in prima serata, Piercavillo decide di cimentarsi come ospite nel podcast più velleitario del momento: Muschio selvaggio, condotto da Fedez. E quando il rapper lo pungola proprio sulla condanna in primo grado, Davigo si auto assolve con formula piena: «Non ho commesso reati, ma visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono, mi hanno condannato». Notorie teste dure. Come osano giudicare il più arguto e spietato pm della storia? Coglierebbe l’evidente sproporzione anche un cantante poco edotto, con i tatuaggi fino al pomo d’Adamo. Invece, quei durissimi di comprendonio s’affrettano a eccepire sull’incontrovertibile, manifestando «vivo stupore e sconcerto per i contenuti dell’intervista». Insomma, replica il tribunale di Brescia, «sorprende che un magistrato che ha ricoperto incarichi apicali di rilievo nazionale si lasci andare a pesanti giudizi che investono, indifferentemente, i giudici, l’ufficio giudiziario, la stampa locale e l’intera comunità bresciana».
Piercavillo, però, non mostra pentimento. Pensino a forgiare tondini, piuttosto che ad applicare il codice penale. Ma la condanna, adesso, viene confermata. Lui, ingiusto reo, spera nella Cassazione. Sognando di poter riformulare il suo celeberrimo motto: non esistono manettari colpevoli, ma solo manettari non ancora assolti.