Tra jihadismo e crisi alimentare, l'instabilità in Burkina Faso continua ad aumentare. Un problema per l'intero Sahel, di cui la Russia potrebbe approfittare.
Sta crescendo la violenza in Burkina Faso. Almeno 50 persone sono rimaste uccise in un attacco armato nella parte settentrionale del Paese nella notte tra sabato e domenica. La strage si è verificata nel comune di Seytenga, situato nella provincia di Seno: un’area in cui operano miliziani islamisti connessi ad Al Qaeda e all’Isis. Nette condanne di quanto accaduto sono arrivate dalle Nazioni Unite e dall’Unione europea. Si tratta di una scia di sangue che non si arresta. Giovedì scorso, sempre nella stessa zona, erano stati uccisi undici militari a seguito di un attacco di uomini armati. Attacchi violenti si erano registrati tra l’altro anche nel mese di maggio. Secondo l'Armed Conflict Location & Event Data Project, quasi 600 persone sono state inoltre uccise tra gennaio e aprile di quest'anno: il triplo rispetto allo stesso periodo del 2021. Tutto questo, mentre sta aumentando anche il numero di sfollati. Tra l'altro, al di là del jihadismo, un altro fattore che rischia di incrementare l'instabilità in loco risiede nella crisi alimentare innescata all'invasione russa dell'Ucraina.
Ricordiamo che è dal 2015 che il Burkina Faso si trova costretto a dover affrontare la piaga del terrorismo islamista: una piaga che dilaga soprattutto nelle aree settentrionali del Paese. Fu quindi nel novembre del 2017 che le forze del G5 Sahel, spalleggiate dalla Francia, hanno iniziato delle operazioni militari antiterroristiche in Mali, Niger e nello stesso Burkina Faso. Il problema fu che, a partire dal 2018, la violenza jihadista si è progressivamente intensificata, innescando una situazione di notevole instabilità politica. Un’instabilità che ha progressivamente indebolito l’allora presidente Roch Marc Christian Kaboré, che è stato alla fine deposto da un colpo di stato militare lo scorso gennaio. I golpisti hanno giustificato principalmente la loro azione, facendo leva sulla necessità di un più efficace contrasto alla violenza islamista. Tuttavia, come abbiamo visto, finora non sembrano essere stati conseguiti risultati concreti sotto questo punto di vista.
Come in Mali, anche in questo caso sembrerebbe esserci lo zampino di Mosca dietro il colpo di stato. Voice of America riferì come, nei giorni immediatamente successivi alla deposizione di Kaboré, molti dimostranti favorevoli ai militari golpisti manifestarono sventolando bandiere russe e invocando la rottura dell’alleanza con Parigi per avviarne una nuova con Mosca. Addirittura il Daily Beast sostenne che Kaboré fosse stato estromesso dal potere perché si sarebbe rifiutato di assumere mercenari del Wagner Group, come invece richiesto dalle alte sfere dell’esercito. Ora, sebbene al momento Parigi intrattenga con Ouagadougou dei rapporti migliori che con Bamako, instabilità e consolidamento della longa manus russa rappresentano due colpi significativi all’influenza francese sull’area. Tanto più che, a metà maggio, anche il Ciad ha registrato delle proteste contro Parigi.
Il problema insomma è complesso e articolato: l’Eliseo sta perdendo progressivamente la propria forza sul Sahel. Un’area che, ricordiamolo, risulta un crocevia fondamentale per i flussi migratori diretti verso il bacino del Mediterraneo e quindi verso l’Unione europea. Non si può quindi escludere che Mosca possa man mano approfittarne, per usare questi stessi flussi come un’arma politica e mettere Bruxelles sotto pressione.